Avvenire.it 14.07.16
A cent’anni dalla nascita
Natalia Ginzburg, lessico del ‘900
di Massimo Onofri
Rintocca
 oggi il centenario della nascita di Natalia Levi, la quale però si 
firmò sino alla fine col cognome del marito col quale condivise anche il
 confino: Leone Ginzburg, il brillantissimo slavista, il rigoroso 
intellettuale di "Giustizia e libertà", il martire antifascista morto in
 carcere nel 1944. La Ginzburg è stata una protagonista della 
letteratura italiana del secondo Novecento, non solo con i suoi libri – a
 cominciare dall'esordio del 1942, La strada che va in città, con lo 
pseudonimo di Alessandra Tornimparte –, ma anche in virtù del suo lavoro
 editoriale svolto per Einaudi. Per tracciare oggi un bilancio della sua
 opera, risulta fruttuoso un confronto con quella di due altri 
scrittori, per altro suo coetanei: Giorgio Bassani, anche lui nato nel 
1916, e Lalla Romano, che invece è del 1906. Ecco: nominare Ginzburg e 
Bassani significa richiamare subito la questione ebraica italiana. Non è
 un caso che, a sconsigliare la pubblicazione per Einaudi di Se questo è
 un uomo (1947) di Primo Levi, sia stata proprio la Ginzburg. Ma 
torniamo al rapporto con Bassani. Se vogliamo, Lessico famigliare (1963)
 può essere considerato la risposta a Il giardino dei Finzi-Contini 
(1962) di Bassani. Se infatti i Finzi-Contini, dentro la comunità 
ebraica ferrarese, esibiscono subito un'antropologia della diversità, 
poi dolorosamente pagata, che si traduce in disinvolta ostentazione di 
agio, in orgoglioso antifascismo, a fronte del facile conformismo di 
quasi tutti gli altri ebrei, la famiglia del Lessico, non per questo 
risparmiata dal fascismo, la incontriamo subito mimetizzata in un 
interno borghese molto italiano, poco interessata, nella sua 
quotidianità, a professare un'esplicita coscienza ebraica. Per 
intenderci meglio: il Lessico, ambientato tra i primi anni Trenta e i 
prima Cinquanta, riporta ogni evento alla misura allegra e ciarliera 
delle sue ragazze in fiore, che s'ostinano a misurare ogni evento sul 
metro d'una famiglia ebrea, che però non rinuncia mai, anche nei momenti
 di tragedia incipiente, a dichiararsi italiana e normale. Siamo 
arrivati, così, alla seconda questione, là dove appunto la Ginzburg 
incontra la Romano (ma anche Luisa Adorno, se si vuole, la quale, nel 
1962, la precedette, nel ritorno alla letteratura di memoria al 
femminile, con L'ultima provincia): e cioè la famiglia. Con tutte le 
implicazioni d'autobiografismo ed egotismo che l'accostamento tra le due
 comporta. Uno dei libri più belli della Ginzburg, non per caso, è La 
famiglia Manzoni (1983), indagata con implacabile ostinazione nel 
rinserramento o nell'allentamento dei legami biologici, nell'odio e 
nell'amore, persino in ogni futilità, insomma in tutti quei fatti che, 
come scrisse Garboli, «si creano nella promiscuità di una tana». Tra La 
strada e il Lessico (con la sua pastosa lingua di "malagrazie", 
"potacci", "sbrodeghezzi": il lessico, appunto, d'una piccola comunità),
 c'è tutta la gamma di sentimenti e risentimenti sperimentati dalla 
Ginzburg nei confronti della "tana": la voglia di aprirne porte e 
finestre per incontrare il mondo alla ricerca di sé, nel primo romanzo; 
la pacificazione con essa attraverso la memoria, nel secondo. Quando poi
 aggiungessimo un racconto lungo come Famiglia (1977), avremmo anche la 
perlustrazione, ma sempre in un quadro di "normalità", delle ragioni 
della crisi che quei legami di sangue problematizzano. Siamo di fronte, 
insomma, a una scrittrice ad altissima temperatura antropologica, la 
quale, quando dice "io", lo fa però a un grado zero di narcisismo, in 
quanto si tratta sempre di un "io" con famiglia, che nella famiglia si 
dissolve. All'opposto della Romano: la quale, nei suoi romanzi 
autobiografici disarticola la famiglia in una serie di rapporti "io-tu",
 poco importa si tratti della madre (La penombra che abbiamo 
attraversato, 1964), del figlio Piero (Le parole tra noi leggere, 1969),
 o del marito (Nei mari estremi, 1987), o di chissà chi altro ancora.
 
