lunedì 4 luglio 2016

Avvenire.it 03.07.16
Dio e i poveri, senza alibi
di Luigino Bruni


La prima strategia messa in atto dai potenti per ignorare le ragioni del povero è stata, e continua a essere, pensare e dire che è colpevole, attribuirgli la colpa della sua povertà. Isaia condanna il popolo e le sue élite, ma non condanna i poveri. In una cultura dove il povero era considerato anche colpevole, i profeti (insieme a Giobbe) dicono esattamente l'opposto: il dolore dei poveri è la conseguenza delle colpe dei capi, dell'idolatria e della falsa religione dei re e dei sacerdoti. I poveri sono vittime dell'ingiustizia di un popolo infedele, non sono colpevoli. Per comprendere la forza rivoluzionaria della critica spietata e radicale di Isaia, dobbiamo tener presente che l'ambiente nel quale operava e viveva Isaia era il tempio di Gerusalemme. I sacerdoti, che celebravano i sacrifici condannati dal profeta, erano suoi vicinissimi concittadini, persone con le quali era in contatto tutti i giorni. I sacrifici continuavano mentre Isaia li criticava, e i poveri restavano senza soccorso. Il destino del profeta sta nel dover annunciare la stupidità delle offerte di tori e agnelli, mentre il loro sangue scola sotto i suoi piedi. Se il dolore per il proprio insuccesso, o la preoccupazione di offendere i suoi ascoltatori, avessero frenato la parola di Isaia e degli altri profeti, oggi non avremmo parole grandi per continuare a dire l'inutilità di certi nostri "sacrifici" e per denunciare le idolatrie delle religioni e degli ateismi del nostro tempo. I profeti ci amano perché, per vocazione, non concedono nulla alle nostre auto-illusioni consolatorie. Gli idoli sono ruffiani e cercatori di ruffiani, i profeti mai. Proseguendo la lettura di Isaia iniziamo a scoprire la grande ricchezza antropologica e teologica che si nasconde dietro la critica radicale ai sacrifici che apre il suo libro. Le offerte al tempio e i suoi commerci sono una strada sbagliata perché la strada giusta è un'altra, quella della giustizia, e quindi dell'azione a favore dei poveri: «Cercate la giustizia, soccorrete l'oppresso, rendete giustizia all'orfano, difendete la causa della vedova» (1, 16-17). Agire a favore di oppressi, orfani, vedove, forestieri è la sola possibilità per una autentica vita religiosa. La condizione del povero dentro le nostre comunità di fede è il primo criterio per la giustizia ed è anche il primo criterio per la vita religiosa: «Come mai la città fedele è diventata una prostituta? (...) Tutti sono bramosi di regali e ricercano mance. Non rendono giustizia all'orfano e la causa della vedova non giunge fino a loro». (1,21-23). Per Isaia la ricerca della giustizia, e quindi la condizione dei poveri, è prima di tutto una questione teologica, non assistenziale. Anche se i modi di amare i poveri sono molti, almeno quanti sono i volti delle povertà e dei poveri, ci sono esperienze religiose che dimenticano i poveri al punto di non vederli più e arrivano a pensare che siano scomparsi dalle città opulente. E quelle esperienze religiose sono di fatto idolatrie. Quando incontriamo veramente la voce del Dio biblico, siamo chiamati a lasciare la nostra terra verso altri luoghi, a uscire dal nostro "già" verso un "non ancora", ad abbandonare le nostre sicurezze per occuparci di altro, di qualcun altro. Ecco perché la sollecitudine per le povertà è la condizione necessaria per la fede: è il primo "non ancora" verso cui muovere, è il segnale che non riduciamo Dio a un bene di consumo. Si può diventare idolatri anche insieme ai poveri, ma non si segue il Dio biblico senza i poveri. Per questa ragione, nel discorso di Isaia incontriamo prima il peccato contro i poveri e solo dopo la condanna dell'idolatria: le religioni e le comunità spirituali senza poveri sono già idolatriche. Le persone e le comunità che frequentano i templi, che pregano, cantano e lodano, ma che hanno perso contatto con i poveri, non li abbracciano, non li invitano nelle loro case, che non fanno di tutto per cambiare le leggi e migliorare le condizioni dei più poveri, sono già dentro un culto idolatrico, anche se non lo sanno. La sola strada che ci conduce lontano dagli idoli è quella percorsa insieme ai poveri. Il Dio biblico sta lì, solo lì possiamo sperare di trovarlo. Sta sempre stretto e scomodo nei templi che gli costruiamo, ci rimane poco e a malincuore, perché ama le periferie e l'aria aperta. Ecco perché nei primi capitoli di Isaia il discorso sui sacrifici si interseca più volte con quello sui poveri e sugli idoli: «Sì, tu hai rigettato il tuo popolo, la casa di Giacobbe, perché rigurgitano di maghi orientali e di indovini come i Filistei (...). La sua terra è piena d'argento e d'oro, senza limite sono i suoi tesori; la sua terra è piena di cavalli, senza limite sono i suoi carri. La sua terra è piena di idoli; adorano l'opera delle proprie mani, ciò che hanno fatto le loro dita» (2,6-8). Idolatria, maghi, indovini, ricerca della ricchezza e abbandono dei poveri sono facce dello stesso prisma pseudo-religioso. Ieri e oggi sono molti i credenti che dimenticano i poveri e riempiono i templi, e magari all'uscita leggono l'oroscopo sul giornale o comprano un gratta-e-vinci. Isaia ci dice semplicemente e senza compromessi che queste pratiche religiose sono culti idolatrici. Adorare manufatti, celebrare riti alla fertilità (1,29), ricercare oro, non prendersi cura dei poveri sono la stessa cosa, sono espressioni diverse della medesima prostituzione religiosa e sociale. L'idolatria non è esterna alla religione, è la sua principale malattia auto-immune, che essa stessa genera quando perde contatto con la profezia. Isaia aggiunge due elementi alla critica biblica all'idolatria, elementi fondamentali per ogni fede e per ogni idolatria: l'idolo si insinua anche dentro i tempi della religione (coi sacrifici) e ci allontana dai poveri. Le religioni hanno sempre pullulato di idolatrie, soprattutto nei tempi di crisi religiosa, quando di fronte alla difficoltà di capire e ridire le antiche parole della fede biblica, invece di rileggere i profeti si cercano oracoli e indovini, dentro e fuori i templi, che promettono salvezze più semplici. Ma, ieri e oggi, "marcatori idolatrici" sono sempre gli stessi: abbondanza di culti e distanza dal grido dal povero, fughe in cerca di emozioni e di consolazioni a buon mercato. Le idolatrie sono esperienze di consumo, perché si costruisce il manufatto con la speranza che soddisfi i nostri bisogni. Gli idoli sono molti e popolari perché sono risposte puntuali ai gusti dei consumatori. Il primo dono che la Bibbia, e in essa soprattutto i profeti, ci ha fatto nel corso dei millenni è la protezione dalla produzione idolatrica, che è sempre stata e continua a essere l'esperienza "religiosa" più comune sotto il sole. È molto raro che quando pronunciamo la parola "Dio" la nostra voce non raggiunga dall'altra