Avvenire.it 1/07/16
Migranti morti
La giusta pietà e il dovere
di Eraldo Affinati
I
migranti morti, la grande poesia, l'azione politica Di fronte al
peschereccio tirato in secca dalla Marina italiana ad Augusta, dove
nelle prossime settimane si procederà all'identificazione delle
centinaia di corpi affogati più di un anno fa nel Canale di Sicilia, io
penso a Ugo Foscolo. «All'ombra de' cipressi e dentro l'urne /
confortate di pianto è forse il sonno / della morte men duro?» si
chiedeva il poeta, lo stesso che in questi giorni è materia
d'interrogazione agli esami orali della maturità. La risposta, da
brividi sulla pelle non solo per i letterati, consiste nella «celeste
corrispondenza d'amorosi sensi» che può scattare fra noi, credenti e non
credenti, e gli estinti, a patto di trovare, sosteneva l'autore dei
'Sepolcri', «un sasso/ che distingua le mie dalle infinite / ossa che in
terra e in mar semina morte». Stiamo parlando di un uomo nato
nell'isola di Zante, dall'altra parte del Mediterraneo, sulla sponda
greca, uno dei maestri della nostra lingua, che pure apprese come
seconda, prima a Spalato, poi a Venezia, il quale, dopo una vita
randagia e avventurosa, morì esule a Londra, poverissimo e dimenticato,
lontano dalla Patria. In un altro sonetto immortale, che tutti abbiamo
studiato a scuola ma troppo spesso vorremmo nascondere in bacheca, quasi
fosse un gesso d'accademia, Foscolo implora per se stesso una degna
sepoltura: «Straniere genti, almen l'ossa rendete / allora al petto
della madre mesta». Un'esigenza che in tanti villaggi africani troppi
genitori non vedono soddisfatta, costretti a vivere nel ricordo sempre
più sbiadito dei figli perduti e mai più ritrovati. Io le ho incrociate
queste persone, sedute a terra nei capanni di paglia, a Sare Gubu, in
Gambia, anziani che si sventolavano la fronte con stracci di fortuna,
alla ricerca di un impossibile refrigerio. Quando dicevo loro che ero
italiano, mi chiedevano se potevo aiutarli a ritrovare Mohamed o
Babucar, partiti a piedi tanto tempo prima verso le città del benessere e
della felicità. Come se Roma o Milano fossero luoghi dove tutti si
conoscono e bastasse fare un fischio per parlare con questo o quello. Il
nostro giovane premier, cresciuto a Firenze dove, nella chiesa di Santa
Croce sono conservate le spoglie del grande scrittore, stanziando quasi
dieci milioni di euro per procedere alle operazioni di recupero
dell'imbarcazione naufragata con il suo carico di centinaia e centinaia
di vite distrutte, forse la strage più grave mai avvenuta nei nostri
terribili anni di migrazioni forzate, ha affermato un principio di
civiltà che solo chi è in malafede potrebbe negare. Al contrario, questo
è il compito da svolgere superando le divisioni ideologiche
precostituite. L'ecatombe peraltro continua. Il gommone rovesciatosi
ieri a venti miglia dalla costa libica ha causato la morte di dieci
donne: giovani esistenze che, attraverso la maternità, avrebbero potuto
rinsaldare la catena umana, invece spezzata. Dall'inizio dell'anno alla
fine di maggio sono affogati 2.510 migranti. Dovremmo continuare a
coltivare l'orticello? Ma ventimila sono sbarcati, molti dei quali
strappati a stento dalla furia delle acque. E vivono in mezzo a noi. È
il motivo che ci dovrebbe spingere a proseguire nell'impegno di
soccorso, proprio nel momento in cui lo spirito ardito del Vecchio
Continente sembra atrofizzarsi, pronto a rinchiudersi nella morsa atroce
degli egoismi nazionali. La pretesa di tagliare le corde lasciando al
proprio destino chiunque resti dietro, senza neppure guardarlo in
faccia, non tiene conto del fatto che siamo tutti nella medesima barca,
che ce ne accorgiamo o meno. Dobbiamo scoprire azioni comuni in grado di
unirci, al di là delle differenze culturali e politiche, ecco perché le
tensostrutture nella rada del porto siciliano dove i vigili del fuoco
stanno effettuando i primi rilievi sul relitto recuperato, rappresentano
un monito per l'Europa. Così gli italiani si mostrano all'altezza dei
versi, e degli ideali, più nobili della loro tradizione.