Repubblica 9.6.16
Le disuguaglianze nella salute
di Chiara Saraceno
GLI
ITALIANI sono stati considerati a lungo consumatori compulsivi di
medicine ed esami medici. Ora il quadro sembra rovesciato. Stretti tra
lunghe liste d’attesa e crescente riluttanza dei medici di base a
prescrivere esami clinici per timore di essere sanzionati, sempre più
italiani rinunciano a farsi curare e a mettere in atto misure di
prevenzione. Un rapporto Istat di settembre 2015, “Le dimensioni della
salute in Italia”, segnalava che il nove per cento della popolazione
aveva rinunciato nell’anno precedente ad almeno una prestazione
sanitaria tra visite specialistiche, accertamenti o interventi
chirurgici, pur ritenendo di averne bisogno. Il fenomeno riguardava,
ovviamente, i meno abbienti e più al Sud e Isole (in particolare la
Sardegna), dove vi è una maggiore concentrazione di povertà e una minore
efficienza media del servizio sanitario pubblico.
Il servizio
sanitario nazionale, uno dei pochi fiori all’occhiello del sistema di
welfare italiano, non riesce più a garantire un fondamentale diritto di
cittadinanza: se non alla salute, almeno alle cure quando si è malati.
L’indagine Censis-Rbm Assicurazione Salute conferma questi dati. La via
d’uscita, tuttavia, non può essere il ricorso alle assicurazioni
private, implicitamente suggerito dai curatori di questa indagine e
ritenuto una possibile opzione, purché ce lo si possa permettere, anche
da oltre la metà degli intervistati. Si tratta di una opinione che sta
ottenendo una diffusa popolarità e che sta alla base anche di progetti,
insieme di ricerca e di policy, che vanno sotto il nome di “secondo
welfare”. L’idea è che la diffusione delle assicurazioni sanitarie non
solo renderebbe accessibile la sanità privata anche a chi, pur con un
reddito non basso, non se ne potrebbe permettere i costi di mercato.
Alleggerirebbe anche la pressione sulla sanità pubblica, riducendo
quindi le liste d’attesa a favore di chi non può permettersi di
rivolgersi al privato e neppure di pagare una assicurazione. Un
ragionamento accattivante, che lascia tuttavia nell’ombra due importanti
questioni. In primo luogo, le assicurazioni private fanno un’opera
importante di selezione sia di ciò che coprono sia dei clienti. Per
avere un buon livello di copertura bisogna o pagare premi alti, o
appartenere ad aziende o associazioni che hanno convenzioni con aziende
sanitare di mercato. La seconda selezione riguarda clienti
potenzialmente rischiosi: oltre una certa età non è possibile
assicurarsi, oppure si è depennati o retrocessi (con copertura
inferiore) dall’assicurazione in essere. Lo stesso avviene se si è avuta
una malattia grave e che presenta potenziali rischi per il presente e
il futuro.
Chi ha di fatto o potenzialmente più bisogno di cure
sanitarie adeguate e tempestive è quindi più probabile non possa
assicurarsi, anche se ne avesse i mezzi economici. Chi paga una
assicurazione sanitaria integrativa, specie se a copertura (quindi a
premio assicurativo) elevato, inoltre, alla lunga può chiedersi perché
mai dovrebbe finanziare, tramite le tasse, anche la sanità pubblica che
non usa. Già ora si possono dedurre il premio assicurativo e le spese
sanitarie dall’imposta sui redditi, riducendo quindi il gettito fiscale.
Ma se le persone abbienti fossero spinte ad assicurarsi in massa,
potrebbero chiedere sconti ben più sostanziosi, riducendo quindi la
disponibilità per il finanziamento della sanità pubblica, lasciata ai
ceti economicamente più modesti e con minore potere di pressione
rispetto a qualità e adeguatezza. Con l’istituto dell’attività intra (ed
extra)moenia da parte dei medici ospedalieri molto mercato è già
entrato nella sanità pubblica, dove chi può riesce ad ottenere sia la
garanzia della qualità — professionale e delle attrezzature — del
pubblico e il trattamento (in termini di tempi di attesa e di comfort)
del privato. Un’ulteriore espansione del privato via assicurazioni
rischia di peggiorare ulteriormente la situazione, non di migliorarla.
Occorre
invece rafforzare la sanità pubblica, certo rendendola più efficiente
ed eliminando sprechi e storture, ma avendo come fine non il
contenimento della spesa, bensì il diritto alla salute dei cittadini, a
partire da quelli che hanno meno alternative. Bisognerebbe anche
riconsiderare l’utilità di quella che un tempo si chiamava medicina
scolastica, con funzione diagnostica e preventiva specie rispetto a
dimensioni della salute che chi è più povero tende a ignorare o a
prendere in considerazione troppo tardi: lo stato della vista, della
dentatura, della postura. Ovviamente, nel caso, occorrerà anche
prevedere la fornitura degli interventi (occhiali, apparecchi per i
denti, ginnastica curativa, ecc.) diagnosticati come necessari.