giovedì 9 giugno 2016

Repubblica 9.6.16
Quel che resta di Sanders
di Federico Rampini

CHE COSA resterà di Bernie Sanders? Cosa rimane, ora che il sogno di “un socialista alla Casa Bianca” cede il passo a un altro tipo di svolta storica, la prima donna che conquista una nomination? La risposta, almeno in parte, cerca di darla Barack Obama al diretto interessato. Oggi il presidente in carica riceve con tutti gli onori il candidato sconfitto nelle primarie ma ispiratore di un vero movimento. L’incontro tra i due alla Casa Bianca è alta diplomazia. Obama deve convincere Sanders a non rovinare la convention di luglio con proteste e contestazioni delle frange radicali.
Il 74enne senatore del Vermont, unico a proclamarsi socialista al Congresso di Washington, va persuaso con le buone maniere a riconoscere che la vittoria di Hillary Clinton è vera, indiscutibile e “pulita”, non è il frutto di una congiura dell’establishment, non deriva da regole truccate e dall’influenza dei poteri forti. Obama è la persona più adatta per farlo. In un certo senso lui fu il Sanders del 2008: rivoluzionario perché afroamericano, portatore di grandi speranze di cambiamento, anche se più moderato nei programmi.
Obama e Sanders hanno una preziosa “constituency” in comune: i giovani, che ambedue hanno portato a votare in massa. Il presidente ex-giovane e il “nonnino sessantottino” hanno fatto sognare la sinistra americana e mondiale. Obama ne dà atto a Bernie, nell’annunciare l’incontro di oggi: «Il presidente ringrazia il senatore Sanders per avere dato energia a milioni di americani con il suo impegno a combattere la diseguaglianza economica e il peso delle lobby nella politica. Il presidente e il senatore continueranno la loro conversazione sulle sfide di questa elezione e i problemi dei lavoratori americani. Il presidente vuole discutere con lui su come proseguire il lavoro straordinario per impegnare milioni di elettori, e costruire sul loro entusiasmo».
È un riconoscimento del ruolo di Sanders su tre piani: equità nel modello di sviluppo, questione morale, capacità di mobilitare gli elettori. Sono ingredienti di cui avrà bisogno Hillary, deficitaria soprattutto sugli ultimi due. Non a caso anche lei, nella serata della vittoria, ha avuto parole di riguardo verso il secondo piazzato: «Il senatore Sanders, la sua campagna, il vigoroso dibattito che abbiamo avuto su come alzare i redditi, ridurre le diseguaglianze, aumentare la mobilità sociale, sono stati benefici per il partito democratico e per l’America». Galateo, astuzia tattica, certo. Ma non solo. La Clinton e Obama sanno che Sanders è “l’altra faccia” del fenomeno Trump: un populismo di sinistra altrettanto viscerale e irriducibile nel suo odio contro le élite, l’establishment, i politici di professione. È l’erede diretto di Occupy Wall Street: contesta i fondamenti di questo modello economico, l’ipertrofìa della finanza, i decenni di tagli al Welfare, gli attacchi ai diritti dei lavoratori, una globalizzazione i cui benefici si sono concentrati in un’oligarchia di grandi azionisti e top manager.
È un linguaggio simile alla sinistra radicale europea, anche se nei programmi si “accontenterebbe” di importare in America il modello sociale scandinavo (che fu in vigore anche negli Stati Uniti, da Franklin Roosevelt a Lyndon Johnson). Sanders ci aggiunge un ideale di democrazia partecipativa: quella “rivoluzione politica” che ha attirato le folle entusiaste nei suoi comizi, è l’idea che le lobby si possono contrastare solo se i cittadini tornano ad essere attivi e vigilanti nella “polis”. Qualcosa di simile lo diceva anche Obama, poi il sogno si è perso nella realpolitik quotidiana, e nella guerriglia con un Congresso presto riconquistato (2011) dai repubblicani.
La sovranità del popolo che ha in mente Sanders è un ritorno alla democrazia partecipativa di Tocqueville adeguata all’èra dei social network. Obama e la Clinton sono approdati a una visione gradualista del cambiamento. Ma intanto hanno un imperativo immediato, stringente, drammatico. Per vincere a novembre, bisogna convincere l’ala radicale che Hillary non è venduta a Wall Street solo per averne accettato i finanziamenti. Bisogna convincere i rivoluzionari che non è il momento di giocare al “tanto peggio tanto meglio”: vizio antico di una sinistra pura e dura che adora perdere, se l’alternativa è un moderato riformista al governo.