Repubblica 9.6.16
La Camera approva la legge sul negazionismo. Con quali conseguenze sulla ricerca?
La memoria e la Storia di fronte al male
di Alberto Melloni
Non
è una questione di isterie accademiche, anche se queste vi sguazzano.
Non sono sottigliezze epistemologiche, anche se vi sono implicate. Non è
un problema del solo occidente europeo, anche se rimbomba forte nella
sua coscienza. È una metamorfosi culturale profonda che si misura col
“male” da cui nasce la nostra cultura e ne cambia il destino, invertendo
le polarità intellettuali fra storia e memoria, con conseguenze che ci
segnano tutti e che affiorano anche nei dibattiti tedeschi sul genocidio
armeno e nel nostro dibattito sulla legge contro il negazionismo,
approvata ieri dalla Camera, che
punisce con il carcere da 2 a 6
anni. Quel tipo di conoscenza del passato moderna che noi chiamiamo
“storia” è figlia di una tradizione millenaria di esplorazione del
passato, ma non di meno della secolarizzazione della “teodicea”. Dalla
metà del secolo XVIII anziché chieder conto a Dio del male del mondo in
un processo a cui Leibniz diede quel nome (teodicea), abbiamo imparato a
chiedercene conto, in un processo fra noi umani di cui la “storia” è
parte. Davanti al suo tribunale le tecniche degli avvocati di Dio che
dovevano mandarlo assolto rispetto al capo d’accusa coniato già da
Boezio (“Si Deus unde malum?”), diventano paradigmi storiografici che
frammentano la domanda radicale sul “cos’è” dell’essere umano e sulla
irreparabilità del male di cui si rende responsabile.
Bene. Questa
conoscenza aveva imparato a difendersi dal potere e dalla sua richiesta
ossessiva di legittimazione: e s’è invece mostrata aperta, come notava
già René Remond sul finire del Novecento, alla richiesta prepotente di
diventare il luogo dove si fa giustizia dei torti del mondo, del
silenzio dei cancellati. Lì ha guadagnato visibilità, antagonismo con
l’autorità: ma ha dato corda alla sua più insidiosa concorrente che è la
“memoria”.
Non la memoria biblica dello “zaqhòr”: quella che
comanda di pungere l’indifferenza che rende schiavi rivivendo il
percorso di liberazione. Non la memoria “immaginativa” degli
Esercizi
di sant’ Ignazio, che costringe ad affrontare i fantasmi
dell’auto-carcerazione dell’io, passeggiando nel vangelo come su un set.
Ma la memoria normata, quella definita dalle Leggi e regolata dalla
politica: la memoria che fa votare al Bundestag (assente la Cancelliera
Merkel al momento del voto) una legge contro il negazionismo del
genocidio armeno, quello il cui oblio era usato da Hitler per avvalorare
la pianificazione della Shoah; la memoria che fa votare al Senato
italiano una legge per punire il negazionismo, come se vietare l’assurdo
avesse un senso.
Questa memoria, come forma di legittimazione
etica della collettività, s’è impossessata dello spazio pubblico: ha
surclassato “l’uso pubblico della storia” e ha generato “l’uso pubblico”
di sé medesima. Viene celebrata secolarizzando l’antica metrica della
liturgia. Produce feste della memoria, sospensioni della memoria,
eruzioni della memoria, festival della memoria. Fissa prescrizioni
rituali, determina l’umore dei bambini, i palinsesti delle televisioni,
le spese della fiction, gli obiettivi formativi delle scuole.
Nello
spazio pubblico del primo Novecento, infatti, c’era una separazione fra
storia e memoria che assegnava a ciascuna i propri luoghi. I “luoghi
della memoria” avevano punteggiato l’Europa del primo dopoguerra,
disseminando di cippi ed elenchi dei poveracci mandati a diventare carne
da cannone in tutto il continente. Ma questa occupazione, passibile di
usi ideologici infiammabili, aveva come contrappeso un altro spazio:
quello altrettanto vasto fatto di menti e culture, a disposizione di una
casta di storici, capace di aprire le menti con una conoscenza ritenuta
essenziale. Anzi: proprio lo sbiadire della memoria, sotto le ingiurie
del tempo e dei piccioni, rendeva fisico l’accumulo di “distanza
storica”: e lì si inseriva un lavoro scientifico di cui si nutrivano (si
“dovevano” nutrire) le classi dirigenti per essere tali.
Ancora
nel secondo dopoguerra era questo snodo storiografico “lo” snodo di
tutto. Talché si poteva dire che la Shoah diventa tema politico quando
lo storico Jules Isaac ne parla a papa Giovanni XXIII o quando Raul
Hilberg fa il suo dottorato sulla distruzione dell’ebraismo europeo
creando un volume che i leader politici del mondo bipolare dovevano o
conoscere o citare. Poi il meccanismo s’è inceppato. È lì, verso la fine
della guerra fredda, che la domanda di storia si è contratta e
l’offerta di storia è risultata inadeguata sul piano qualitativo e
quantitativo.
La cultura storica, quella che ha impregnato la
mentalità dei ceti europei di governo del secondo Novecento, quella che è
stata egemone nel pensiero dei ricostruttori dell’Europa, è stata
rimpiazzata da una gnosi econometrica. La lingua franca non è quella del
realismo storico, ma di un moralismo che attribuisce alla opinione
pubblica il ruolo delle “tricoteuses” ritratte Charles Dickens, che
fanno la maglia mentre la ghigliottina mediatica lavora.
Anche per
questo è cresciuto il mito della memoria, che ci somministra in date
fisse, brandelli di dolore in cerca d’autore. Al poco di “verità” che
volta a volta la ricerca storica afferra, s’è sostituita la dosatura
della modica quantità di “colpa” che gli umani possono sopportare e la
sua distribuzione per legge. Leggi che obbligano a non negare il male
commesso, ma di cui la memoria sbiadisce l’analisi e fino a fissare come
dose minima la non-negazione della sua esistenza.
In questo
ambito è esemplare il caso italiano. La Legge della memoria del 2001
prende come data simbolo quella della liberazione di Auschwitz, e non
quella delle nostre leggi razziali. Ricorda le vittime della Shoah –
ebrei e zingari per l’Italia – insieme agli internati militari italiani
che finirono in campo di concentramento dopo l’8 settembre e agli altri
perseguitati in senso generico, ma esclude questi ultimi dai riti civili
del 27 gennaio per evidente incomponibilità fra le misure etiche delle
vicende. Non dice mai la parola “fascismo” nella legge della memoria:
perché allora la unanimità parlamentare giustamente desiderata fu pagata
a un prezzo etico esorbitante. E poi quella legge è stata affiancata
nel 2004, dalla legge sulle vittime delle foibe: con un atto che
sembrava voler “bilanciare” due tragedie e la loro sostanza umana in una
impensabile par condicio.
In attesa che la memoria ritrovi nel
sapere un argine e un farmaco, il passato diventa un solaio delle
metafore, un bisturi arrugginito dall’erudizione, con cui non si possono
incidere i bubboni della vita comune: in attesa che un nuovo “male” ci
liberi dalla falsa alternativa fra “Funes el memorióso” di Borges e
Auguste Deter, la prima paziente di Alois Alzheimer, e ci obblighi a
tornare al sapere del dettaglio in cui s’annida la responsabilità.