Corriere 9.6.16
Germania, il leader mancato d’Europa
di Federico Fubini e Wolfgang Münchau
Si
passa molto tempo nell’area euro in questo periodo a discutere se la
Germania debba o meno essere il Paese leader. È un dibattito inutile,
per quanto affascinante.
Se non altro per carenza di alternative
pronte, il Paese più grande dell’area sembrerebbe anche la guida più
plausibile di un esperimento monetario che rimane ancora in bilico. La
Francia si è arenata nella sua interminabile traversata del deserto,
resa ancora più dura dai continui ostacoli a qualunque riforma. E
malgrado tutto il suo attivismo, Matteo Renzi resta il primo ministro di
un’economia incatenata dal debito e da una competitività debole. La
Germania, almeno in apparenza, ha l’economia e il sistema politico meno
in difficoltà e nel tempo si è dimostrata persistente nelle sue
politiche europee. Non sorprende che Berlino pesi tanto nelle decisioni
dell’area, o che tanti dall’estero guardino al governo tedesco per
cercare di capire dove sta andando la zona euro.
Resta fuori un
dettaglio, però. La Germania non ha mai presentato domanda per quel tipo
di ruolo da leader. Non lo voleva quando rinunciò al marco nel 1999, e
psicologicamente oggi non è più preparata dell’Italia o della Francia a
rivestirlo. La Germania, costituzionalmente, non è un leader. Quasi
sempre il suo dibattito politico o economico nazionale è orientato in
senso domestico almeno tanto quanto quello di qualunque altro Paese
dell’area euro. Gli economisti tedeschi considerano l’enorme surplus
esterno del Paese sulle partite correnti come una questione di orgoglio
nazionale o, nel migliore dei casi, un residuale dettaglio: una visione
completamente incompatibile con qualunque ruolo di àncora del Paese in
un’unione monetaria da 10 mila miliardi di euro di prodotto lordo.
Immaginiamo
per un secondo la Germania nelle vesti di leader incontrastato
dell’area euro. Poiché non ne avrebbe alcuna legittimazione democratica,
gran parte delle persone detesterebbe quest’idea. Dato il dogma
economico che predomina all’interno del Paese, una leadership tedesca in
politica economica equivarrebbe a una posizione mercantilista del
complesso della zona euro, imposta attraverso la moderazione salariale
in tutta l’area e non con una svalutazione della moneta. Se la Germania
fosse il leader incontrastato, i suoi seguaci dovrebbero accettare un
conflitto molto più acuto con la Banca centrale europea. La Germania non
ha mai veramente riconosciuto la definizione dell’obiettivo
d’inflazione vicino al 2% come mandato per la stabilità dei prezzi. Per
la Germania, un tasso d’inflazione fra zero e uno per cento rientra
nella definizione di stabilità dei prezzi. Finirebbe per esportare
disinflazione nel resto dell’area euro e per rendere impossibile agli
altri Paesi di ridurre l’eccesso di debito. Se un Paese così fosse il
solo vero leader, il Quantitative easing della Bce dovrebbe fermarsi
oggi. Cosa comporterebbe una scelta del genere per l’Italia? Quantomeno,
la obbligherebbe a un’applicazione stretta delle regole del «fiscal
compact» da subito, e neanche quello riuscirebbe a rassicurare i mercati
finanziari.
Il risultato di un simile pacchetto di politiche
d’ispirazione tedesca sarebbe un surplus delle partite correnti che
cresce a vista d’occhio in tutti i Paesi dell’area euro, e investimenti
interni perennemente depressi. Con la Germania leader incontrastato, non
ci sarebbe mai alcuno strumento comune di debito e nessuna unione
bancaria oltre quella che abbiamo già oggi con regole comuni, vigilanza
comune, una cascata di attivi bancari da colpire con il bail-in — dalle
obbligazioni ai depositi — e nessuna assicurazione comune.
Ma
appunto: la Germania non ha mai fatto domanda per quel posto da leader.
Ed è un bene, perché finirebbe per distruggere l’euro. Sospettiamo anche
che il governo tedesco lo capisca. Il problema di queste discussioni
sulla leadership tedesca è che gli altri magari vorrebbero che la
Germania la esercitasse, dato che le sue performance restano insuperate;
ma preferirebbero che Berlino guidasse nella direzione che vogliono
loro. Vorrebbero che l’economia più grande assumesse la responsabilità
dell’equilibrio generale della zona euro ed esercitasse «soft power», il
potere di far sì che gli altri Paesi vogliano ciò che vuole il Paese
leader.
Purtroppo, questa combinazione non è sul mercato. Non è
mai stato inteso che lo sarebbe stata. Al cuore del progetto dell’euro
si trova una colossale carenza di leadership politica con cui bisogna
fare i conti, se si vuole che l’unione monetaria sopravviva nel lungo
periodo.
Un’alternativa alla leadership tedesca potrebbe essere un
direttorio informale composto da Germania, Francia e Italia; purtroppo
però queste costruzioni sono per loro natura instabili, soggette ai
capricci di politici egocentrici e ai loro appuntamenti elettorali. Per
il momento nessuno dei tre leader nazionali è in condizioni di
contribuire granché a un’efficace leadership comune.
Per questo,
l’unica possibilità di assicurare la sopravvivenza della zona euro nel
lungo periodo è una qualche forma di unione politica che non dipenda
dalla Germania. È essenziale che l’unione monetaria vada verso
istituzioni e politiche comuni, e dipenda di meno dalla cooperazione fra
governi nazionali.
La direzione dovrebbe essere l’unione
politica. Ciò implica che gli italiani (e i francesi, e gli spagnoli) la
smettano di parlare con magniloquenza del sogno di un Europa federale e
accettino la realtà: la netta perdita di sovranità, o di controllo da
parte delle élite locali, che qualunque unione politica implica. A quel
punto l’Italia dovrebbe tenere la rotta e mantenere l’impegno anche
quando i gruppi d’interesse all’interno del Paese gridano
all’ingiustizia e accusano l’«Europa», non appena le loro rendite di
posizione vengono sfidate.
Se rifiutiamo l’unione politica, con le
sue implicazioni reali, l’alternativa immediata è già chiara: una
Germania che esercita l’influenza maggiore nell’area euro, che ci
piaccia oppure no.