Repubblica 9.6.16
L’Italia e il reato che non c’è
di Carlo Bonini
LE
parole con cui il sostituto procuratore generale Eugenio Rubolino ha
associato il sequestro, la tortura e la morte per crudeltà di Giulio
Regeni all’arresto, il pestaggio e la morte per abbandono e colpa medica
di Stefano Cucchi — «la terribile fine del primo ci riporta alla
terribile morte dell’altro» — sono un’enormità linguistica ed emotiva
che dà la misura di quale sentimento le due storie siano la spia. E di
cosa accada quando in uno Stato di diritto l’abuso di un uomo in divisa o
in camice bianco trovi le ragioni della sua impunità non nelle norme
del codice penale, ma nella cinica omertà, nella logica del «cane non
morde cane», con cui i corpi chiusi (in questo caso, uomini delle forze
dell’ordine, i medici delle “strutture protette” e la comunità
scientifica che, dopo sette anni, ancora finge di discettare sulle
ragioni della morte di Cucchi) si liberano del principio di uguaglianza
di fronte alla legge. Se è di tutta evidenza, infatti, che l’Italia
repubblicana non è l’Egitto di Al Sisi, né l’Arma dei carabinieri la
banda di assassini di regime che ha spezzato la vita di Regeni, è
altrettanto vero che il significato di quella parola — «tortura» — con
cui Rubolino ha accomunato il corpo e il destino dei due ragazzi si
declina in ragione della civiltà giuridica di un Paese. L’Egitto la
tortura la pratica. L’Italia la «tortura» continua semplicemente ad
espungerla dalle norme del suo ordinamento, disattendendo i due trattati
internazionali (Convenzione Onu del 27 giugno 1987 e Convenzione
europea per la Prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti
crudeli, inumani e degradanti del 26 novembre 1987) con i quali,
trent’anni fa, si era impegnata a definirla e sanzionarla come reato.
Ecco perché le parole di Rubolino sono un dito che indica una luna che
la cattiva coscienza del Parlamento continua a non voler vedere.