giovedì 9 giugno 2016

Repubblica 9.6.16
La faida tra Servizi dietro la fine di Regeni accanto al corpo una coperta militare
Spiato fin dal suo arrivo in Egitto, poi torturato: il ritrovamento del cadavere fu un messaggio ad Al Sisi
Carlo Bonini, Giuliano Foschini e Fabio Tonacci

GIULIO Regeni ha cominciato a morire poco dopo il suo arrivo al Cairo, nel settembre del 2015, quando la Sicurezza Nazionale, il Servizio segreto interno egiziano, apre sul suo conto il fascicolo riservato 333//01/2015 con le accuse di spionaggio, cospirazione e appartenenza a una rete terroristica interna al Paese che progetta l’eliminazione del presidente Al Sisi. Per tre mesi, ignaro dell’occhio paranoico che lo osserva, Giulio diventa “fair game”, preda indifesa di una caccia libera tra gli apparati dello Stato — Servizi militari e Servizi civili — in lotta per contendersi un posto al sole nella gerarchia del regime. Fino all’esito finale. Prima il sequestro, la sera del 25 gennaio sulla riva destra del Nilo, all’uscita della stazione metropolitana di Naguib, quindi le torture per mano dei Servizi militari. Infine, l’oltraggio del cadavere, scaricato seminudo lungo la desert road Cairo-Alessandria con accanto un oggetto di cui sin qui nulla si era saputo. Una coperta in uso all’esercito. La traccia lasciata da chi, all’interno degli apparati egiziani, ha deciso, «per vendetta », di offrire un’indicazione sulle responsabilità dell’omicidio.
Per comporre questo nuovo quadro “Repubblica” è tornata al Cairo. Ha raccolto nuove evidenze da fonti di Intelligence e investigative. Ha ottenuto un documento in lingua araba, datato 25 aprile, che è stato recapitato alla nostra ambasciata in Svizzera, a Berna, e da qui trasmesso nelle scorse settimane alla Procura di Roma. Un Anonimo (il secondo in questa storia. Il primo fu inviato a “Repubblica”) che si definisce il tramite di «informazioni sul caso Regeni provenienti da una delle principali istituzioni dell’esecutivo in Egitto». Una “voce di dentro” che per bucare l’omertà del regime utilizza l’unico strumento concesso. Un racconto privo di nome e tuttavia ricco di dettagli su cui la Procura ha avviato i suoi accertamenti.
IL FASCICOLO 333//01/2015
Settembre 2015, dunque. «Subito dopo il suo ingresso nel Paese — si legge nell’incarto recapitato alla nostra ambasciata in Svizzera — la Sicurezza Nazionale (il Servizio segreto civile, ndr) apre il fascicolo numero “333//01 intelligence anno 2015”, il cui supervisore è l’allora Capo del Servizio, il generale Salah Hegazy (…)». Lo scartafaccio si ingrassa delle informazioni che, con il passare delle settimane, raccoglie la squadra che sta addosso a Giulio. E della cui attività, per quanto ricostruito da “Repubblica”, esistono almeno tre tracce obiettive. La prima. Le foto scattate a Regeni nel corso di un’assemblea sindacale l’11 dicembre 2015. La seconda: una visita, sempre in quel mese di dicembre, di un ufficiale della Sicurezza Nazionale nell’abitazione di Giulio nel quartiere di Dokki. La terza. Una telefonata dello stesso ufficiale del Servizio al coinquilino di Giulio pochi giorni dopo il suo sequestro.
Ragionevolmente, parliamo dello stesso ufficiale — «un maggiore», annota il dossier — che guida la squadra assegnata all’italiano. Quella che annota ossessivamente le sue «relazioni con autorevoli dirigenti dell’Unione generale dei sindacati operai, con l’Unione nazionale dei sindacati liberi a Bruxelles e l’Organizzazione generale del lavoro a Ginevra». Fino a quando le accuse nei confronti di Giulio non vengono così formalizzate. «Spionaggio per conto di Italia e Gran Bretagna. Istigazione ad assassinare il presidente della Repubblica e autorevoli personalità dello Stato. Istigazione al sabotaggio e lo sciopero al fine di bloccare il ciclo produttivo. Manipolazione dell’immagine e dell’azione operaia in Egitto. Perpetrazione di azioni specifiche al fine di suscitare conflitti tra le fila operaie, creare disordine all’interno del Paese nonché calunniare l’Egitto con l’accusa di guidare il terrorismo. Istigazione degli operai a manifestare contro la legge e le istituzioni al fine di sovvertire il governo». Una costruzione paranoica che conosce il suo culmine quando Giulio entra in contatto con un ragazzo.
L’AMICO WHALID
«Verso la fine di novembre del 2015 — prosegue il dossier ora nella disponibilità della Procura di Roma — il maggiore della Sicurezza Nazionale incaricato dell’indagine su Regeni presenta una nuova informativa al generale Salah Hegazy». Giulio ha infatti incontrato un giovane egiziano che «viene chiamato Whalid». «È uno dei ragazzi conosciuti come i “Giovani della Rivoluzione del 25 gennaio 2011” e appartiene al gruppo “Al Ishtirakyun al Thawryun”, i Socialisti Rivoluzionari, con sede in via Mourad 7 a Gyza».
Mourad street è nel quartiere di Dokki, dove Giulio viveva e dove Whalid lavorerebbe in banca. Non lontana dall’Università del Cairo. Il palazzo al civico 7 è stretto tra un negozio della Vodafone e un caffè. E dei “Rivoluzionari” non si annusa neppure l’odore, che non siano un graffito con profili operai dai pugni chiusi e la battuta con cui, al telefono, Kamal Khalil, uno dei leader del gruppo, liquida “Repubblica”: «Non parlo con i giornalisti». L’edificio è fatiscente, la porta è scardinata e le stanze della sede, completamente svuotate, mostrano i segni di uno sgombero recente.
Giulio e Whalid, a stare alle annotazioni della Sicurezza Nazionale, si incontrano sulla riva destra del Nilo. «Mangiano al “Koshary Abou Tarek”», in via Chambollion, un locale di quattro piani, tra i ristoranti più famosi in città per il koshary, un pasticcio di riso, pasta, lenticchie, ceci, cipolla, aglio e pomodori. Ma spesso vengono pedinati nella zona dei caffè di Garden City, a ridosso dell’American University, «in via Mohamed Farid; via Kasr al Nihil; via e piazza Tala’Herb, via Sharif; via e piazza Tahrir». E la ragione di tanta attenzione è che Whalid non è un nome neutro di fronte all’occhio paranoico dei Servizi. «Ha un legame familiare di secondo grado con il generale Salah Hegazi», il Capo del Servizio.
Wahlid, dunque. Nei diari di Giulio di quel nome non vi è traccia. Gli amici italiani del Cairo dicono di non conoscerlo. L’Anonimo al contrario, fornisce alla nostra ambasciata il nome di due cittadini egiziani in grado di mettere in contatto i nostri investigatori con il ragazzo (“Repubblica” ne tace l’identità e qualsiasi elemento utile a identificarli per tutelarne l’incolumità). Ma, soprattutto, esiste una traccia di questo ragazzo egiziano agli atti dell’inchiesta della Procura di Roma. Un contatto telefonico dell’ottobre del 2015 di Giulio proprio con un tale “Whalid”. Una circostanza significativa, a maggior ragione perché sin qui ignota. E che evidentemente conferma come l’autore del dossier possieda informazioni di primissima mano.
IL BOIA DELL’INTELLIGENCE
Il 19 dicembre del 2015, il generale Salah Hegazi viene rimosso dall’incarico di Capo della Sicurezza Nazionale e sostituito dal generale Mohammed Shaarawi. Pagherebbe due colpe. La pigrizia con cui ha gestito il fascicolo Regeni, ma soprattutto la decisione di sollevare dall’incarico il maggiore che ha scoperto il contatto tra Giulio e Whalid, il ragazzo che del generale è parente. L’ufficiale defenestrato si lamenta infatti con il generale Abbas Kamil, uno degli uomini più potenti del Regime, capo dello staff di Al Sisi e suo potente braccio destro. E Kamil reagisce. «Dispone — si legge nel dossier — che il fascicolo Regeni venga trasferito dalla Sicurezza Nazionale alla direzione dei Servizi segreti Militari, sotto il controllo del generale Mahmud Farj al Shihat». La pratica ha un nuovo numero — M.1/25,2009/ ? — un nuovo supervisore — il generale Al Shihat — e, soprattutto, un nuovo capo dell’indagine. È l’ufficiale Jalal al Dabbagh conosciuto con il nome di battaglia di “Al Dhabbah”, il Boia. Nella descrizione che ne offre il dossier, è uomo «irascibile», «superbo », «ingegnoso nell’applicare tutto ciò che di nuovo esiste nel campo della tortura ». Una «belva umana», che presiede all’industria dei desaparecidos del Regime.
Il Boia si mette a lavoro su Giulio che, ignaro, è in Italia per le vacanze di Natale. Al Cairo, scoppia l’inferno tra la Sicurezza Nazionale e i Servizi Militari, che ormai si contendono il giovane ricercatore italiano come un trofeo che dà corpo a tutte le paranoie del regime. Lo Spionaggio esterno e il Nemico interno. Il ministro dell’Interno Abdel Ghaffar entra nella contesa. Con una lettera inviata ad Al Sisi (di cui il dossier riporta quello che ne sarebbe il testo), denuncia il «trasferimento illegale della pratica», l’«umiliazione» della Sicurezza Nazionale e del suo lavoro che «ha consentito di sollevare il coperchio sul ragazzo italiano e sulla rete cospiratrice a cui era collegato» e chiede che il caso venga restituito alla Sicurezza Nazionale.
IL RAPIMENTO ALLA FERMATA DELLA METRO
Le cose vanno altrimenti. I Servizi Militari sequestrano Giulio la sera del 25 gennaio. E non alla stazione della metropolitana di Dokki. Ma sulla riva destra del Nilo, come spiega a “Repubblica” una fonte di Intelligence: «Un Servizio segreto alleato ha recentemente acquisito informazioni confidenziali interne agli apparati egiziani che proverebbero come Giulio venga sequestrato all’uscita della stazione della metropolitana di Naguib». Dunque, esattamente nella zona dei caffè dove Giulio — secondo il dossier — era stato per mesi pedinato dai Servizi civili e militari e dove quella sera, lo attendeva inutilmente un amico italiano.
QUELLA FIRMA PER DEPISTARE
Sappiamo che Giulio muore nelle 48 ore precedenti il suo ritrovamento, nella tarda mattinata del 3 febbraio. Ma perché far ritrovare il corpo? È ancora il dossier — ma non solo, come vedremo — a fornire ora una risposta plausibile. «All’alba del 3 febbraio, i Servizi segreti Militari consegnano il cadavere di Regeni alla Sicurezza Nazionale, ordinando di affrettarsi a seppellirlo con i suoi effetti personali in un’area del quartiere 6 Ottobre utilizzata dalla Polizia per far scomparire i sequestrati illegalmente e gli ignoti». Ma l’ordine non viene eseguito come i Servizi Militari vorrebbero. «Quella mattina, all’alba, il responsabile della struttura della Sicurezza Nazionale nella zona 6 ottobre raggiunge telefonicamente il generale Shaarawy. Lo informa dell’accaduto e dell’ordine ricevuto. Il generale Sharaawy si oppone e ordina al suo ufficiale di liberarsi rapidamente del corpo abbandonandolo in un luogo allo scoperto, in una delle strade desertiche vicine alla struttura in cui era stato consegnato dai Servizi Militari, di conservarne gli effetti personali e di recarsi personalmente nel suo ufficio per consegnarglieli. Lo stesso Sharaawy riferirà poi al ministro dell’Interno Ghaffar, informandolo di aver disposto la custodia degli effetti personali di Regeni in una cassaforte della Sicurezza Nazionale».
La scena del racconto collima perfettamente con quanto “Repubblica” ha potuto verificare in un sopralluogo della zona in cui è stato ritrovato il corpo di Giulio. Lungo il Corridoio 26 luglio, superstrada che taglia da ovest verso est la Cairo-Alexandria desert road, si osserva infatti una costruzione segnalata soltanto da una anonima bandiera ammainata. L’ingresso è sorvegliato da due macchine e da un sistema di garitte e vedette con telecamere. Al di là delle mura di cinta, oltre un filare di palme, edifici squadrati color ocra. È uno dei siti segreti della Sicurezza Nazionale. Un fungo nel nulla desertico. Cave di ghiaia, scheletri di costruzioni abortite, discariche e una decina di ettari di dune destinate a cimitero “pubblico”. «Il posto giusto per perdere qualcosa», per dirla con i camionisti egiziani che percorrono regolarmente il Corridoio. Tra la base e il punto di ritrovamento del cadavere la distanza è inferiore ai due chilometri. Compatibile, dunque, con la ricostruzione del dossier. Anche se è un altro dettaglio che consegna alla ricostruzione una suggestiva solidità. La mattina del 3 febbraio, al momento del ritrovamento di Giulio, nel verbale di sopralluogo della polizia egiziana, viene annotato il rinvenimento, accanto al cadavere, di una «coperta normalmente utilizzata dai militari». Il segno che chi si è liberato del corpo di Giulio aveva intenzione di lasciare una traccia che portasse alla responsabilità dei suoi assassini. I Servizi militari ai cui ordini si erano sottratti la Sicurezza Nazionale e il ministro dell’Interno.
I RICATTI E L’INSABBIAMENTO
La storia di Giulio non finisce con la sua morte. Piuttosto, ha un altrettanto crudele nuovo inizio. Il 14 marzo, al Cairo, Al Sisi rilascia una lunga intervista al direttore e al vicedirettore di “Repubblica”, impegnando il suo Paese alla “verità”. Appena cinque giorni dopo, la sera del 19 — si legge nel dossier — Abbas Kamil, il capo dello staff di Al Sisi, l’uomo che ha voluto il trasferimento della pratica Regeni ai Servizi Militari ed è ora alle prese con il “caso” aperto con l’Italia, «informa il ministro dell’Interno Magdi Abdel Ghaffar della decisione di dimetterlo dall’incarico insieme al generale e capo della Sicurezza Nazionale Mohammed Shaarawy». I due devono pagare l’insubordinazione e il ritrovamento del corpo di Giulio. Sono i capri espiatori che l’Egitto si prepara politicamente ad offrire all’opinione pubblica italiana ed europea.
Quel giorno, non a caso, le agenzie di stampa occidentali danno notizia di un imminente rimpasto di governo di cui farà le spese proprio Ghaffar. Ma, al Cairo, il ministro — a stare al dossier — vende cara la pelle. Ricatta. «Ghaffar affronta di persona Abbas Kamil. Gli dice: «Se siete uomini, fatelo! Cacciatemi. Devi andare dal presidente e informarlo di questa tua decisione. Io vado nel mio ufficio e aspetterò che la cosa mi venga comunicata in modo formale. Detto questo, preparatevi tutti a comparire di fronte a una Corte penale». La mattina del 20 marzo, la partita è chiusa. «Abbas Kamil si precipita nell’ufficio del ministro Ghaffar, si scusa per la sera precedente e lo informa che rimarrà al suo posto insieme al generale Shaarawy. Dopodiché i tre si chiudono in due ore di consultazioni indiavolate. Viene trovata una soluzione, “La banda dedita al rapimento degli stranieri”. La mattina del 24 marzo vengono uccisi cinque cittadini egiziani innocenti». Una macchinazione che sta in piedi come un sacco vuoto e ora messa definitivamente a nudo nelle sue incongruenze dal lavoro dei nostri investigatori sul materiale arrivato alla Procura di Roma dall’Egitto.
Lo spaccato della resa dei conti interna al Regime si sovrappone come un calco a quanto, proprio in quei giorni, si legge nell’analisi (“The Egyptian media, the Conflict of Agencies and the President”) di un autorevole think-tank come il “Washington Institute for near Policy”. «Con la presa del Potere da parte di Al Sisi è ripreso il conflitto tra i Servizi segreti del Paese. La Sicurezza Nazionale tenta di recuperare il dominio che ha avuto nell’era di Mubarak. Il Servizio Militare, di cui Al Sisi è stato direttore e con cui ha stretti legami, lotta per evitare che non si pongano le condizioni per un nuovo Mubarak e una nuova Rivoluzione (…) È un conflitto non più nascosto. Bisognerà capire quanto in profondità si spingerà».
È in quella settimana di marzo, dunque, che, al Cairo, la verità su Regeni diventa un lusso che nessuno può più in alcun modo permettersi. «Shaarawy — scrive l’Anonimo — ha ora in mano anche la registrazione della riunione con il ministro e con Abbas Kamil». Ricatto chiama ricatto. Tutti colpevoli e dunque nessun colpevole.
©RIPRODUZIONE RISERVATA Un dossier inviato all’ambasciata italiana a Berna disegna lo scenario politico all’interno del quale è maturato l’assassinio del ricercatore italiano: gli atti trasmessi alla procura di Roma Giulio fu sequestrato alla fermata Naguib e trasferito in almeno quattro prigioni. Doveva sparire nel nulla ma i servizi segreti civili agirono per far ricadere la colpa sugli uomini del presidente
I GENITORI DI GIULIO: DELUSI DAI PROFESSORI DI CAMBRIDGE
La famiglia di Giulio Regeni (sopra, ritratto su un cartello) ha espresso “dispiacere e delusione per il rifiuto opposto dai docenti di Cambridge” di rispondere alla domande dei pm di Roma. “Alla comunità di Cambridge - dicono i Regeni - avevamo affidato con fiducia nostro figlio e da essa ci aspettavamo solidarietà e collaborazione”