Repubblica 9.6.16
La giustizia lenta fa male ai cittadini
di Gianluca Di Feo
LA
RAPIDITÀ dei processi dipende anche dall’usciere che spinge lentamente
il carrello zeppo di faldoni fino all’aula. Un’immagine d’altri tempi
che fotografa alla perfezione l’arretratezza della giustizia italiana.
Non solo l’informatica è sostanzialmente assente, ma mancano persino gli
uomini per fare le fotocopie, verbalizzare gli interrogatori,
notificare le convocazioni. Operazioni solo in apparenza banali, perché
ogni errore in queste procedure può provocare il rinvio dell’udienza.
O
ADDIRITTURA l’annullamento dell’intero dibattimento. La «rispettosa
denuncia» del procuratore di Torino Armando Spataro mette finalmente
alla luce la faccia nascosta della macchina giudiziaria, che ha un ruolo
determinante nella paralisi dei tribunali. Dietro il dilagare della
prescrizione che divora le inchieste e fa trionfare l’impunità, dietro
la montagna di fascicoli che restano ad ammuffire negli armadi, dietro
la lentezza di qualunque giudizio ci sono anche le carenze negli
organici, che lasciano gli uffici privi di personale e soprattutto
creano il vuoto di figure qualificate. A pagarne il prezzo sono tutti i
cittadini, quelli che chiedono invano giustizia, quelli che
quotidianamente si trovano a fare i conti con una burocrazia lontana
dagli standard europei. Ed è a loro che il governo deve dare
urgentemente risposte.
I problemi sono noti. Gli effetti pure. Il
cattivo funzionamento dei tribunali penali e civili allontana gli
investimenti stranieri, ostacolando la ripresa dell’economia e
dell’occupazione. E alimenta la sfiducia di tutti gli italiani, che
vedono scomparire nel nulla le loro denunce, che si tratti di un furto o
di una causa condominiale, di un incidente stradale o di una truffa
telematica. Un guasto che, nelle regioni meridionali e non solo,
consolida l’autorità delle mafie, inflessibili nell’arbitrare le liti e
garantire il recupero dei crediti. Per non parlare del danno alla
credibilità delle istituzioni che nasce dall’ennesima prescrizione del
corrotto di turno, un colpo di spugna legale che mette in salvo il
bottino e la reputazione.
Di sicuro ci sono gravi responsabilità
del Parlamento, che nello scorso decennio con leggi spesso ad personam
ha contribuito ad allungare i tempi dei processi. E ci sono
responsabilità di una parte della magistratura, che non affronta in modo
adeguato il problema della produttività e dell’efficienza degli uffici,
apparendo più preoccupata di tutelare privilegi e interessi di
corporazione che non del servizio alla collettività. Ma è innegabile che
gli ultimi governi con una cattiva declinazione della riduzione dei
costi — in nome del mantra della spending review — hanno dato un colpo
micidiale al funzionamento dei tribunali.
Il blocco dei concorsi
ha aperto una voragine negli organici. In media manca un quinto del
personale amministrativo. Ma in alcune sedi, come ad Aversa nel cuore
del Casertano infestato dalla camorra, si arriva al 45 per cento di
posti scoperti. Lo Stato si è rivelato un pessimo manager, con una
disastrosa gestione delle risorse umane. Ci sono migliaia di dipendenti
delle province senza un incarico, migliaia di marescialli delle forze
armate in eccesso, centinaia di funzionari della Croce rossa di troppo,
ma non si riesce a impiegarli per supplire alle carenze della Giustizia.
Trasferimenti che non vengono decisi neppure sulla carta e che poi
vanno gestiti, preparando i nuovi ranghi a compiti dove la distrazione
non è permessa perché uno sbaglio in una singola proroga di
intercettazioni innesca la dissoluzione di intere inchieste con
centinaia di imputati. I numeri sono chiari. Nei tribunali mancano
novemila persone. Forse entro l’estate si riuscirà a racimolare 2500
rimpiazzi pescando dal soprannumero degli enti sciolti o riformati. Ma
poi bisognerà rendere operativa e funzionale questa trasfusione, perché
altrimenti potrebbe trasformarsi in un’altra zavorra o restare virtuale
per anni.
Al ministro Andrea Orlando bisogna riconoscere l’impegno
nel cercare soluzioni concrete, senza cedere alla tentazione degli
slogan. Ma non basta. Ci vuole un impegno di tutto il governo. Servono
subito investimenti significativi e concorsi seri, che selezionino
giovani capaci e diano linfa nuova agli uffici. E servono riforme, per
introdurre un uso razionale degli strumenti informatici anche nel
settore penale.
Il presidente del Consiglio Matteo Renzi sprona
spesso i giudici a «fare processi rapidi». Lo ha ripetuto più volte, con
toni alquanto provocatori, in particolare quando le indagini hanno
coinvolto esponenti del Pd. E i provvedimenti per rendere possibili i
«processi rapidi» dove sono? Persino le nuove norme sulla prescrizione —
sulle quali a parole quasi tutti i partiti sono d’accordo — languono in
Parlamento. Si tratta — è giusto ricordarlo — di misure necessarie che
restano però un palliativo, perché il nodo della questione non è
concedere più tempo per giudicare i corrotti ma portare la durata dei
dibattimenti negli standard europei. Il che significa rendere la
giustizia in grado di rispondere alle richieste di tutti i cittadini.
Non è un aspetto secondario, ma l’essenza stessa dello Stato di diritto.