martedì 7 giugno 2016

Repubblica 7.6.16
Non ci sono più le periferie rosse, i dem resistono nei centri storici
Da Bologna a Roma crollano le roccaforti storiche, mentre si consolidano gli insediamenti nelle zone della borghesia
di Michele Smargiassi

QUANDO da ragazzo prendeva l’autobus per tornare a casa, dal centro alla periferia, Walter Tocci, futuro dirigente della sinistra romana, si sentiva rinascere: «Sapevo che ad ogni metro del percorso aumentavano i voti del Pci». Da alcuni anni il bus di Tocci ha rallentato. Stavolta ha proprio cambiato direzione. E non solo a Roma. Erede dei partiti dei quartieri operai, il Pd si arrocca nei centri storici e perde i margini urbani. A Roma, dove il ciclone Raggi travolge 13 municipi su 15, gli unici in cui Giachetti vince sono il centro storico e i Parioli-San Lorenzo, non proprio borgate proletarie. Anche a ignorare la catastrofe di Ostia, basterebbe uno sguardo a una mappa colorata del voto per vedere la densità del consenso al Pd impallidire bruscamente appena fuori il Grande raccordo anulare, dove Raggi invece fa il pieno. A Torino, zona 1, centro storico, il partito di Fassino s’attesta cinque punti sopra la media cittadina, ma in zona Barriera di Milano, estrema periferia nord, si ferma quattro punti sotto. A Bologna i quartieri “rossi” sono ancora quelli che consentono al sindaco uscente Merola di non sprofondare, ma basta un raffronto con il voto di cinque anni fa per notare un impressionante doppio movimento: in zone come Borgo Panigale, l’ormai storica Bolognina o la popolare Corticella, il Pd lascia sul campo percentuali fra il 6 e l’8, mentre nei pregiati centralissimi quarti di torta come Marconi o Irnerio, in controtendenza, guadagna consensi, tra il 2 e il 3 per cento, succede perfino nel giardino pensile dei Colli, paradiso dell’upper class.
Sarà compito dei compulsatori di flussi elettorali capire se l’imborghesimento del consenso del Pd è una tendenza generale, e dei sociologi della politica spiegarne le ragioni. Un primo assaggio di urne sembra però offrire una chiave: quando il Pd si ritira dalle periferie e si barrica nelle zone di pregio, questo avviene indipendentemente dal colore e dall’aggressività dell’avversario. A Torino, è vero, il Movimento Cinquestelle ha cavalcato appunto la tesi della “doppia città”, quella benestante ben servita e quella delle periferie dimenticate; ma succede anche a Bologna, dove grillini e Lega non sfondano; succede a Milano, dove a rimpiazzare il Pd nel consenso dei quartieri marginali spesso è la destra classica: come nella zona 9, Niguarda, già roccaforte del consenso rosso, dove il Pd governava anche ai tempi della Moratti sindaco, strappata domenica scorsa nelle urne da una coalizione di centrodestra a trazione non leghista ma forzitaliana. Oppure succede a Napoli, dove l’arretramento del Pd è omogeneo, “regge” la fedeltà al Pd delle periferie della zona industriale di San Giovanni Barra Ponticelli, ma dove, nella difficilissima zona 7, Secondigliano, è il centrodestra di Lettieri a recuperare i suoi voti e a piazzarsi primo, superando perfino l’onnipresente De Magistris.
Non c’è insomma un travaso automatico dal voto di sinistra a quello populista, non si può dire che la ribellione dei ceti popolari delusi dalla sinistra sia la spiegazione universale di una mutazione politicp-antropologica nelle periferie metropolitane non necessariamente disastrate.
I quartieri di Bologna che gradualmente abbandonano il Pd non sono slum problematici e degradati, ma forse solo pezzi di città trascurati. Sono gli storici “serbatoi di voti” che il partitone dava troppo per scontati, quelli di cui i sindaci aspettavano lo scrutinio come l’“arrivano i nostri” dei film western, sono dignitosi quartieri con piccoli condomìni di appartamenti popolari acquistati con la cessione del quinto dello stipendio, premi di una vita messi in ansia dalla costruzione di una tangenziale o di un inceneritore, o dalla crescita fungiforme di un accampamento rom. Sono i quartieri di cui ci si ricorda nelle campagne elettorali, “Ripartiremo dalle periferie!”, e magari da qualche parte ci si è ripartiti davvero, quando le vacche erano ancora in carne: ad esempio, Mirafiori a Torino approfittò di una stagione felice di fondi per le Olimpiadi invernali e di finanziamenti europei, un’età dell’oro che però finì prima che toccasse alla periferia nord che ancora aspettano: forse per questo a Mirafiori il Pd conserva la sua media cittadina, poco sotto il 30%, mentre a nord soffre.
Le metropoli italiane rinnovano il loro skyline a volte clamorosamente, con interventi urbanistici “cinesi” per velocità e radicalità, ma a macchia di leopardo: i centri storici pedonalizzati, dove il degrado viene compensato dalla movida, le downtown di grattacieli a specchio, i vecchi quartieri gentrificati stupiscono, ma fanno sentire più cocente lo scarto a chi abita nelle suburbia ferme agli anni Cinquanta e assediate dalle patologie della postmodernità, il degrado ambientale, la mobilità impossibile, la convivenza multiculturale. E più la sinistra si ritira nei centri storici, più l’autobus di Tocci viaggia in salita.