Repubblica 7.6.16
L’identità perduta
Alla ricerca del Pd perduto al partito serve l’anima non l’uomo solo al comando
Il
segretario deve decidere se è interessato a porsi questo interrogativo:
quale sinistra per il nuovo secolo? Ma la minoranza interna non può
continuare a considerarlo un abusivo
di Ezio Mauro
È
andato a votare per il Pd il corpo stanco del partito, mobilitando ciò
che resta dell’apparato e i gruppi d’interesse intorno ai candidati Con
il disfacimento della destra di governo e il naufragio di ogni ipotesi
centrista, tocca a una moderna sinistra difendere il sistema,
cambiandolo
IL BUON vecchio “che fare?” dopo aver
perseguitato la sinistra da più di cent’anni oggi dovrebbe modestamente
essere aggiornato così: che fare del Pd? La domanda è sul tavolo del
presidente del Consiglio o almeno ronza nelle sue orecchie, visto che è
anche il segretario di quello che momentaneamente è il maggior partito
italiano. Dire «non siamo soddisfatti del risultato» (usando per la
sconfitta il plurale, dopo una vita vissuta al singolare) non basta più.
Non basta oggi, soprattutto, quando in nessuna delle grandi città al
voto il Pd è riuscito ad eleggere un suo sindaco al primo turno, quando a
Napoli è addirittura fuori dal ballottaggio e a Roma è distanziato dai
grillini che lo insidiano persino a Torino, mentre nella vera capitale
politica del voto — Milano, dove si giocava l’esperimento renziano più
ardito — la destra resuscita miracolosamente appaiando al primo turno il
candidato cui è stata affidata l’eredità vincente di Pisapia cambiando
base sociale, profilo culturale, paesaggio politico.
Ripetiamo
oggi le cose che scriviamo da mesi: il corpo stanco del partito è andato
a votare, mobilitando ciò che resta dell’apparato, i gruppi d’interesse
che si muovono attorno ai candidati e quello strato di pubblica
opinione che non si rassegna a rimanere spettatore della politica, e che
continua a investire sulla tradizione della sinistra italiana,
seguendola nelle sue varie trasformazioni, per un senso di appartenenza a
una storia più che alla cronaca attuale e per una testimonianza di
valori che hanno contribuito a costruire la civiltà europea e
occidentale così come la conosciamo. Ma l’anima, come dicevamo il giorno
dopo il flop delle primarie, è rimasta a casa, ed è difficile
ritrovarla dopo averla smarrita per noncuranza.
COME se un partito
fosse soltanto un riflesso del governo e come se vivesse di performance
invece che di interessi legittimi, di improvvisazioni estemporanee
invece che di tradizioni e progetti, di ottimismo come ideologia invece
che come promessa ragionevole in un discorso di verità rivolto al Paese.
Non
è certo un deficit di leadership quello che oggi pesa sul risultato
elettorale: Renzi è un leader molto attivo e presente ovunque,
soprattutto sulle reti televisive, ha il coraggio della sfida in prima
persona e dà ogni volta l’impressione di giocarsi l’intera posta sulle
questioni che deve affrontare per cambiare un Paese bloccato da cautele
democristiane per troppi anni, e ancor più irrigidito dalla ruggine di
una crisi economico-finanziaria senza fine. Il deficit, evidentissimo e
da lungo tempo, è di identità. Renzi ha scalato il partito non tanto per
usarlo come un soggetto culturale e politico della trasformazione
italiana, ma come uno strumento indispensabile per arrivare alla guida
del governo. Giunto a palazzo Chigi, ha mantenuto la segreteria del Pd
per controllare la sua massa politica di manovra e di voto, ma dando
l’impressione di non saper più che farsene. Soprattutto, di non aver
l’ambizione di guidarlo, ma soltanto di comandarlo. Ma i partiti,
persino in questi anni liquidi, chiedono in primo luogo di essere
rappresentati, e non soltanto indossati, perché non sono dei guanti.
Il
problema della rappresentanza comporta prima di tutto un atto di
responsabilità di fronte alla storia che ogni partito consegna al leader
temporaneamente alla guida. Bisogna avere il sentimento delle
generazioni che passano, dei lasciti e degli errori, per caricarsi del
peso della memoria rispettandola, sapendo che una forza politica è un
soggetto collettivo che raccoglie intelligenze ed esperienze diverse,
fuse in una tradizione comune che tocca legittimamente al leader
impersonare secondo la sua cultura, il suo carattere e la sua
personalità. Tutto questo cozza contro l’aspirazione di Renzi a
presentarsi come un uomo nuovo, una sorta di “papa straniero” della
sinistra italiana? No se si ha il modello di Blair, di Valls, di
Clinton, che innovano la politica rispettando storia, valori,
tradizione. Diverso è se si pensa che la fonte battesimale del nuovo
potere sia la rottamazione non della vecchia politica ma delle persone e
delle loro storie, quasi come se una ruspa domestica (esclusivamente
contro i tuoi compagni) potesse diventare il vero emblema della sinistra
e l’avvento di un leader non fosse l’inizio di una delle tante stagioni
politiche che si avvicendano ma un religioso, settario Anno Zero.
La
domanda che ripetiamo da tempo è proprio questa: Renzi ha coscienza di
far parte di una storia che ha tutto il diritto di innovare, anche a
strappi e spintoni, ma che gli è stata consegnata come un patrimonio di
testimonianza repubblicana, civile, democratica (insieme ad altre storie
politiche concorrenti: e a molti errori) perché venga riconosciuto,
aggiornato, arricchito e riconsegnato vitale a chi verrà dopo di lui?
Questo è ciò che contraddistingue un partito rispetto ad un gruppo di
potere e d’interesse, e distingue la leadership dal comando. Una forza
come il Pd non si può amministrare nei giorni dispari e nei ritagli di
tempo, né può essere affidata a funzionari delegati a funzioni da staff.
Ha bisogno di vita vera, di uscire da quei tristi incunaboli televisivi
del Nazareno, di prendersi qualche rischio di pensiero autonomo e di
libera progettazione, per aiutare il governo e soprattutto se stesso,
parlando al Paese. E’ difficile capire, al contrario, perché un politico
ambizioso come Renzi si accontenti di guidare metà partito, rinunciando
a rappresentare l’intero universo del Pd, che unito potrebbe essere
ancora – forse – la spina dorsale del sistema politico e istituzionale
italiano. C’è in questo uno spirito minoritario da piccolo gruppo
eternamente spaventato, una cultura da outsider che non riesce a
diventare maggioranza nemmeno quando ne ha i numeri in mano, e
preferisce affidarsi a un microsistema variopinto di intrecci locali e
amicali che per ogni incarico lo spingono a cercare il più fedele dei
suoi uomini piuttosto che il migliore d’Italia. Con un misto di
localismo e velleitarismo che può portare all’imprevedibile, come quando
il renziano Nardella proclama “la morte della socialdemocrazia”: che ha
tanti guai, naturalmente, ma ha anche il diritto di non finire in mano a
diagnostici improvvisati e sproporzionati alla sua storia.
Questi
limiti del renzismo sono fortemente ricambiati, a piene mani,
dall’ostilità preconcetta, quasi ideologica della minoranza interna, che
continua a considerare nei fatti il leader come un abusivo, anche se ha
legittimamente vinto le primarie per la guida del partito, così come
era stato legittimamente sconfitto in precedenza da Bersani. Una
minoranza che se possibile ha il respiro ancora più corto. Perché non ha
un’alternativa, non ha un leader e soprattutto non ha una proposta
politica concorrente, in particolare sulle grandi questioni di cultura
politica su cui Renzi è più debole: limitandosi ad un gioco meccanico di
interdizione che apre continui trabocchetti parlamentari ma non porta
un contributo d’idee capace di impegnare il Premier, di aiutarlo nel
governo, parlando così alla base del partito e al Paese. Entrambi i
soggetti – il leader, la minoranza – si muovono come se non avessero più
un tetto in comune, un orizzonte di riferimento. Quella cosa che
altrove in Europa, sotto nomi diversi (laburismo inglese,
socialdemocrazia tedesca, socialismo mediterraneo) fa riferimento a
un’identità politica riconoscibile e riconosciuta, che noi chiamiamo
riformismo, cioè sinistra di governo.
E qui siamo alla questione
finale. Il grande tema che potremmo intitolare “quale sinistra per il
nuovo secolo” interessa a Renzi? Se si assume quell’identità, sia pure
nella sua interpretazione più radicale e personale, bisogna sapere che
questo comporta degli obblighi. L’obbligo di spiegare ad esempio che il
cosiddetto “partito della nazione” non è non può essere un “partito
della sostituzione”, che taglia a sinistra per inglobare a destra, ma
mantenendo ben salde ed evidenti le sue radici porta le fronde del suo
albero a coprire anche il centro. L’obbligo di chiarire lo scambio
oscuro con Verdini, quando dal concorso autonomo in Parlamento sulla
riforma si passa ad una sorta di unione di fatto inconfessabile in
pubblico. L’obbligo di tener conto della storia del sindacato italiano a
tutela dei diritti nati dal lavoro, che la crisi sta riducendo a
semplici “spettanze” comprimibili nei momenti di difficoltà. L’obbligo
di usare talvolta con la destra le cattive maniere che si impiegano
abitualmente con la sinistra interna: o, simmetricamente, di trattare la
minoranza del Pd con il garbo che si riserva di solito a Berlusconi,
senza mai dare una lettura pubblica del suo ventennio e della sua
avventura politica. In proposito il pensiero di Renzi è sconosciuto.
C’è
un patto sociale che il Pd può ancora tentare con il Paese, se unisce
al racconto delle eccellenze italiane che il Premier fa ogni giorno la
responsabilità nei confronti dei mondi più deboli, degli sconfitti e dei
perdenti della globalizzazione, di cui nessuna cultura politica si fa
carico, e che possono finire risucchiati negli opposti populismi del
lepenismo padano di Salvini o dell’antipolitica grillina (che stanno già
preparando le “nozze del caos” per il secondo turno). Perché con il
disfacimento della destra di governo, il naufragio di ogni ipotesi
centrista, civica o tecnica, ad una moderna sinistra toccherebbe il
compito di difendere il sistema, cambiandolo. Opponendo il sentimento
repubblicano al risentimento che divora ogni giorno la politica. Si può
fare, vale la pena farlo. Ma il Pd, lo sa?