lunedì 6 giugno 2016

Repubblica 6.6.16
Così al giovane cattolico s’insegnava a uccidere
Uno studio di Francesco Piva sulla pedagogia nelle associazioni vicine alla Chiesa fra fine Ottocento e Secondo conflitto mondiale
di Umberto Gentiloni

Come si può educare a uccidere all’interno di una grande associazione giovanile cattolica? E si può arrivare a uccidere senza perdere la propria dimensione di fede, la propria identità cristiana? Ama il prossimo tuo come te stesso o partecipa attivamente alla grande carneficina delle guerre della prima metà del XX secolo? Un interrogativo che attraversa un segmento significativo della società italiana tra Otto e Novecento, almeno fino all’epilogo della catastrofe, con la conclusione del secondo conflitto mondiale. Si è molto indagato sulle ragioni del pacifismo di stampo cattolico, sulle parole dei pontefici, sulle sovrapposizioni pericolose tra ambiti e competenze, tra potere politico e presenza religiosa. Ma poco si sa di quello che avveniva nel corpo vivo del movimento cattolico, in quelle forme di pedagogia collettiva che caratterizzano la fase di nazionalizzazione dell’Italia post unitaria.
Le dense pagine del volume di Francesco Piva,
Uccidere senza odio. Pedagogia di guerra nella storia della Gioventù cattolica italiana 1868- 1943 (Franco Angeli), offrono un contributo importante da un punto di osservazione del tutto originale. La Gioventù Cattolica assume dimensioni di massa (negli anni ’20 del secolo scorso oltre 400 mila tra studenti, contadini e operai) e partecipa alla costruzione della nazione italiana, si rende protagonista di quelle strategie che caratterizzano parte della trasformazione del Paese nei primi decenni del nuovo secolo. Il buon cattolico s’ispira ai valori della purezza e della giovinezza, tiene insieme l’amore per la patria, la virilità maschile e le aspirazioni a diventare un buon soldato. Ma tale pedagogia non emerge come un dato accessorio al percorso di fede cristiana, tutt’altro: «Viene elaborata una strategia per guidare i giovani», scrive l’autore, «non solo ad accettare il sacrificio con disciplina e abbandono in Dio, bensì a non avere remore nell’infliggere violenza e morte. Da cristiani. Non più soldati passivi, cioè obbedienti e non impauriti dalla morte, ma protagonisti attivi, esempio ai compagni in armi per audacia e, al tempo stesso, lucidità operativa, controllo delle emozioni e dell’istinto di fuga nelle contingenze più rischiose».
E così si saldano piani e percorsi separati artificiosamente, spesso con eccessiva semplicità: il cammino del singolo e il ruolo delle organizzazioni, il confine mobile e flessibile tra le identità in movimento, quella di cattolico in formazione e quella di giovane italiano pronto alle sfide più impegnative. Un insieme di messaggi che convivono e si alimentano a vicenda: «Esaltando e divulgando queste virtù belliche, l’associazione si vantò di offrire alla patria, il soldato migliore, anzi l’ufficiale più adatto a guidare le micidiali guerre di massa, proprio in quanto pronto anche sul piano personale a reggere la fatica dell’uccidere».
Un modello da raggiungere nel tempo basato sul maschio prestante e ben allenato con una volontà ferrea fondata sull’autocontrollo repressivo degli istinti sessuali; un incontro tra nazionalismo, interventismo e fascismo con il nucleo portante dell’educazione morale cattolica: l’incitamento alla purezza. Un itinerario che trova nelle guerre un banco di prova, la strada per crescere, una verifica possibile del messaggio che compare nella documentazione della Gioventù cattolica: «Il giovane che si addestra a mantenersi puro, si distinguerà in guerra per coraggio e supererà le naturali resistenze ad ammazzare e a farsi ammazzare. Di più sarà un ottimo leader e, avendo imparato a comandare su se stesso, sarà pronto ad assumersi responsabilità nelle gerarchie militari. Lui solo è in grado di uccidere senza odiare».
Tutto si tiene tra la fase preparatoria (l’educazione) e l’impatto con la realtà (la morte in azione) fino alla resa dei conti nelle disfatte della guerra fascista che riduce l’orizzonte delle ambizioni e penalizza l’ascesa del nuovo soldato cattolico. Si chiude una fase, la parabola dell’onnipotenza inarrestabile viene messa da parte: «Crolla il mito del giovane cattolico come soldato migliore, la baldanza del maschio vincitore svanisce, l’umiliazione di una sconfitta militare non era ammissibile né compatibile con quella retorica».

IL LIBRO Francesco Piva, Uccidere senza odio. Pedagogia di guerra ( Franco Angeli, pagg. 320, euro 35)