Il Sole 5.6.16
Microcosmi le tracce e i soggetti
Una prospettiva oltre l’emergenza dei popoli migranti
Milano, Piccolo Teatro, “Dialoghi di vita buona” promossi dalla Curia di
Milano sul tema Confini e migranti: paure e soluzioni. Si ragiona del
salto d’epoca globale. L’Onu stima in 244 milioni i migranti a livello
mondiale nel 2015, il Mediterraneo non è che un microcosmo. Abbiamo
assistito in questi ultimi giorni ad un nuovo dramma di olt re 700 morti
annegati nell’attraversata del braccio di mare che ci separa dalla
vicina Libia. E ciò, nonostante il grande sforzo profuso dalla Marina di
trarre in salvo quante più persone possibile.
Al di qua della faglia, quella di approdo, il tema interrogante è oggi
quello della paura, che rischia di trasformare i confini in muri,
l’essere in comune in comunità rinserrate, come sembrano indicare anche i
dati raccolti dall’Istituto Toniolo in relazione all’atteggiamento dei
millennials italiani verso i “non nationals” permeato da timore e
diffidenza, il 70% dicono “sono troppi”, pur essendo altrettanto
convinti (64%) che i migranti debbano essere accolti, a prescindere
dalla loro patente di “profugo” o “migrante economico”. Distinzione,
quest’ultima, che rimanda a quell’insieme di cavilli giuridici dietro i
quali si nasconde l’impotenza, la mancanza di coraggio o l’incapacità
della politica di farsi carico del salto d’epoca.
Ma quando è nata e come si è diffusa la paura? Nel 1991 fu organizzata
la prima ed unica Conferenza Nazionale sull’Immigrazione dalla quale
scaturì la prima legge che riconosceva e regolava i flussi dei migranti.
A quell’epoca, come potei constatare di persona, il clima sociale, da
Como a Trapani, era predisposto all’accoglienza, forse anche perché non
sapevamo a cosa stavamo andando incontro. Infatti in quello stesso anno
sbarcarono in pochi giorni a Bari 27.000 albanesi, un salto di confine
di massa che produsse la scintilla della sindrome da invasione che
incendiò la politica nazionale.
Negli anni successivi si sono succeduti diversi tentativi di regolare i
flussi, prima con la legge Turco Napolitano del 1998 che riconosceva i
ricongiungimenti familiari, quindi la legge Bossi-Fini del 2002 che
istituiva il reato di clandestinità. Il tutto scandito da una serie di
sanatorie. Le diverse regolazioni sono restate però sempre all’interno
del perimetro giuslavoristico, senza considerare che, come ebbe modo di
constatate il filosofo svizzero Max Frisch a proposito degli immigrati
italiani in Svizzera, “avevamo bisogno di braccia, sono arrivate
persone”.
I luoghi della paura del migrante non sono tanto i luoghi di lavoro, ma
sono quelli fuori dalle mura i quartieri , la casa, i luoghi di
socialità, di culto e il rapporto con la sicurezza. Il processo di
diffusione dei flussi migratori sul territorio italiano ha seguito la
geografia diffusa dell'economie territorializzate, con un’inclusione
molecolare che ha scongiurato la creazione di banlieues metropolitane,
pur con la creazione di piccoli e grandi ghetti come Padova, Sassuolo,
Prato, ed enclave nei quartieri delle aree metropolitane.
Con il nuovo secolo il tema delle migrazioni ha assunto una connotazione
più complessa, con un articolazione altrettanto complessa delle paure.
Il Mediterraneo diventa un luogo soglia ma anche enorme cimitero (3.771
morti accertati nel 2015). La via balcanica è diventata un percorso ad
ostacoli, con muri sempre più alti. La geoeconomia ci restituisce la
crisi finanziaria, la crisi del debito, e una prospettiva da stagnazione
secolare dalle conseguenze imprevedibili. La demografia ci restituisce
squilibri globali sempre più ampi: l’età media in alcuni paesi sub
sahariani oscilla tra i 15 e i 20 anni, quella degli europei intorno ai
45 anni e più. La crisi ambientale, d’altra parte, prepara una nuova
figura, quella del “migrante ambientale”.
Questo salto di complessità ha fatto saltare i confini e posto sotto
pressione il significato del nostro essere in comune. Crescono le
comunità del rancore, che da fenomeni locali rischiano di diventare
fenomeni nazionali, resistono con difficoltà le comunità di cura
imperniate sul welfare state e sul tessuto dell’associazionismo e del
terzo settore, entrano in crisi le comunità operose: la Ue, la
Statualità e la società, che non riescono ad esprimere una visione ed
una prospettiva dello sviluppo di lungo periodo, oltre l’emergenza.
Senza questa visione i confini diventano facilmente muri, ai piedi dei
quali prolifera un’ambigua economia del margine che oscilla tra
accoglienza e speculazione sull’emergenza a livello basso nei territori e
in alto si discute senza esito, per ora, di Migration Compact. Occorre
partire dal presupposto che il meticciamento è il nostro destino e,
ancor più, dei giovani.
A questo tema potrebbe essere orientato il servizio civile. Di questo
devono essere consapevoli le grandi istituzioni, i territori, le città
che se da una parte solo 600 comuni su oltre 8.000 hanno accettato di
accogliere qualche profugo con il sistema Sprar, in altri casi sono
stati stipulati accordi con realtà locali e con centrali del terzo
settore molto significative e con prospettive che guardano oltre
l’emergenza.
Queste esperienze locali hanno fornito più e migliori risposte della
agenda di re-location dell’agenda Juncker, ferma al palo dei 600
ricollocati, segno di un’Europa in cui il sogno della casa comune va
sempre più trasformandosi nell’incubo del ritorno ai rinserramenti, di
un’Europa, per citare una previsione del presidente Delors, che pare
avere smarrito la memoria del senso del tragico, da cui è rinata nel
tardo Novecento.
Il Sole 5.6.16
L’inchiesta di Roma. Concluse le indagini
Concorsi pilotati, i pm valutano se sentire Barbera
di Ivan Cimmarusti
ROMA Il giudice costituzionale Augusto Barbera potrebbe essere ascoltato
dalla Procura della Repubblica di Roma. Un atto dovuto, dopo la
notifica dell’avviso di chiusura delle indagini preliminari per il
giurista, accusato con una dozzina di docenti universitari di aver
controllato tra il 2008 e il 2010 alcuni concorsi per cattedre in
diritto pubblico.
L’inchiesta è solo una parte della più ampia indagine avviata nel 2008
dalla Procura della Repubblica di Bari, la quale, in un primo momento,
aveva ritenuto esistente un’associazione per delinquere col fine di
controllare i concorsi negli istituti di diritto Pubblico alle facoltà
di Giurisprudenza di Bari, Milano, Roma, Bologna, Napoli, Reggio
Calabria, Teramo, Messina, Macerata, Piacenza e Firenze. Un’ipotesi che,
però, non ha retto. Il fascicolo, così, è stato spezzettato in diversi
filoni d’indagine stralciati ai vari uffici giudiziari competenti, tra i
quali Roma.
Nella Capitale è giunto il fronte legato a Barbera che, stando
all’impostazione accusatoria, avrebbe esercitato pressioni per favorire
uno dei candidati al concorso, Federico Pizzetti, figlio di Franco, ex
Garante della Privacy. Agli atti del fascicolo risultano anche alcune
conversazioni telefoniche dello stesso ex garante col professore di
diritto Costituzionale di Bari, Aldo Loiodice. In particolare, il primo
chiede «garanzie» sul sostegno che sarebbe dovuto essere assicurato al
figlio, in vista di un concorso che, tuttavia, non supererà mai. Tra gli
indagati risultano anche la giurista, candidata del Movimento 5 stelle
alla Corte Costituzionale, Silvia Niccolai, e Luca Mezzetti, docente di
diritto Costituzionale all'Università di Bologna.
C’è da dire che l’accusa riguarda fatti accaduti nel 2010 e, dunque, la
prescrizione dei reati potrebbe già giungere a settembre prossimo.
Inoltre non è escluso che la memoria difensiva depositata nei giorni
scorsi dai legali di Barbera possa indurre la Procura capitolina a
chiedere l’archiviazione dell’indagine.
Allo stato, però, il nome di Barbera risulta iscritto con l’accusa di
corruzione. «L’ipotesi di corruzione - hanno commentato i legali del
giudice, Filippo Sgubbi e Vittorio Manes - non riguarda alcun passaggio
di denaro, né scambio di favori, ma solo un collegamento tra diversi
concorsi universitari nell’ambito dei quali sarebbero intervenuti aiuti
vicendevoli per sostenere i vari candidati». Inoltre, aggiungono che «la
Procura di Roma ha semplicemente ripreso un’ipotesi di accusa di
corruzione formulata dalla Procura di Bari, che, a sua volta, l’aveva
ripresa da una informativa della polizia giudiziaria».
Spiegano, infine, che Barbera «non era nemmeno commissario in tali
concorsi, e che si è sin da subito messo a disposizione della
magistratura inquirente per essere sentito. Anche a seguito della
notifica dell’avviso di conclusione delle indagini da parte della
Procura di Roma, comunicato solo poche settimane fa, abbiamo
immediatamente presentato una memoria esplicativa a sostegno della
richiesta di archiviazione della posizione del professor Barbera, e al
tempo stesso ribadito la sua piena disponibilità ad essere interrogato».
Il Fatto 5.6.16
Gli 80 euro da restituire: il problema spiegato a Renzi
di Marco Palombi
Matteo Renzi non si fa capace. È incredulo. C’è gente, si la- menta,
che sottolinea con rancore che 1,4 milioni di italiani do- vranno
restituire il bonus da 80 euro al mese illegittimamente percepito nel
2014. Dice il premier: avevamo detto che i soldi andavano ai lavoratori
di- pendenti con redditi tra 8 e 26mila euro l’anno e l’abbiamo dato a
11,2 milioni di persone. Non senza qualche danno collaterale, però: il
numero totale dei percettori è infatti la somma dei 9,6 mi- lioni che
lo hanno preso avendone diritto, cui vanno aggiunti altri 1,6 milioni
che hanno scoperto che gli era dovuto solo a consuntivo. E poi ci sono
gli 1,4 milioni: loro l’hanno preso, ma a fine anno hanno scoperto di
aver guadagnato più (o meno) della soglia. Risultato: devono restituire
i soldi, tutti, pure i 350 mila incapienti, cioè quelli con reddito
inferiore a 8 mila euro. Tradotto: uno che guadagna una miseria deve
ridare indietro i soldi o aspettare che glieli richieda non gentilmente
il Fisco. Problema: se questi 1,4 milioni non avevano diritto al bonus,
va anche detto che non l’avevano chiesto. Il pasticcio si crea per il
modo in cui Renzi ha scelto di dare gli 80 euro: uno normale avrebbe
agito sulle aliquote Irpef, ma lui voleva la scritta “bonus” in busta
paga, voleva che fosse chiaro che il regalo era suo. I datori di lavoro,
a quel punto, si sono basati sul reddito presunto, che però qualche
volta - cioè 1,45 milioni di volte nel nostro caso - non è quello
finale.
La faccenda è tutta qui: se vuoi governare dando brioches agli affamati, capita che si incazzino se gliele togli.
Corriere 5.6.16
«Meno reddito in famiglia. Cresce la diseguaglianza»
di Enrico Marro
Negli ultimi quarant’anni il reddito degli italiani si è ridotto. Le
famiglie dipendono sempre di più dalla ricchezza dei pensionati; il ceto
medio si è assottigliato; mentre le diseguaglianze risultano aumentate.
È quanto si ricava da un capitolo aggiunto quest’anno alla Relazione
della Banca d’Italia che accompagna le Considerazioni finali del
governatore, lgnazio Visco.
Quello che è successo alla famiglie italiane dal punto di vista
economico negli ultimi 40 anni è sintetizzabile in tre formule:
dipendono sempre di più dalla ricchezza dei pensionati; il ceto medio si
è assottigliato; le diseguaglianze sono aumentate. Lo si ricava da un
capitolo aggiunto quest’anno alla Relazione della Banca d’Italia che
accompagna le Considerazioni finali del governatore, lette martedì
scorso da Ignazio Visco. Il quindicesimo capitolo si intitola: «I
bilanci delle famiglie italiane, uno sguardo di lungo periodo». Che è
possibile, sottolinea la banca centrale, perché la specifica indagine
annuale che Bankitalia dedica a questo tema, «sin dalla metà degli anni
Sessanta, è tra le più longeve al mondo».
Come negli anni 70
Un primo paradosso che si osserva è che nonostante in quarant’anni ci
sia stato un «aumento delle risorse umane disponibili», dovuto
soprattutto all’incremento delle donne che lavorano (ma anche al flusso
di immigrati) e nonostante i livelli di istruzione siano fortemente
cresciuti, «la capacità del Paese di impiegarle in modo efficiente (
queste risorse, ndr ) ha progressivamente smesso di espandersi». E così
«la produttività totale dei fattori, che approssima l’efficienza
complessiva del sistema produttivo, ha rallentato da una crescita media
annua dell’1,4% nel periodo 1974-1993 allo 0,3% nei vent’anni
successivi». Di conseguenza, il reddito annuo medio netto pro capite da
lavoro dipendente, dopo essere salito fino alla fine degli anni Ottanta,
ha invertito la rotta ed è tornato al livello di fine anni Settanta. A
prezzi 2014, calcola Bankitalia, il picco fu toccato nel 1989 con circa
20 mila euro l’anno. Nel 2015 è sceso invece sotto i 17 mila. Un
andamento sul quale ha pesato, dice la relazione, anche «la diffusione
di forme di occupazione meno stabile», il precariato insomma. Nello
stesso arco di tempo, i redditi netti dei pensionati sono invece
raddoppiati, da 7 mila a oltre 13 mila euro l’anno. I lavoratori
autonomi, come è logico, hanno avuto un andamento altalenante: con la
recessione post 2007 sono tornati ai redditi di quarant’anni prima e
solo ora si stanno riprendendo, con redditi medi netti di poco oltre i
19 mila euro l’anno. In generale, gli italiani hanno compensato gli
effetti della crisi col vecchio e caro mattone.
Il ruolo del mattone
«Nonostante l’andamento complessivamente contenuto del reddito, la
ricchezza delle famiglie è cresciuta nell’intero periodo dell’indagine,
in modo sostenuto». Le famiglie proprietarie di immobili sono salite «da
poco più della metà nel 1977 al 72% nel 2010». Facendo le somme, il
reddito disponibile netto pro capite, che tiene conto anche dei canoni
d’affitto percepiti e del valore d’uso della prima casa, «è cresciuto,
tra il 1977 e il 2006, di circa il 75% in termini reali». Ma la
successiva recessione «e i ritmi ancora modesti della successiva ripresa
hanno eroso circa un quarto di questo aumento». Così l’aumento
complessivo del reddito netto disponibile pro capite fra il 1977 e il
2014 è stato del 54%. Insieme alle case, in soccorso delle famiglie sono
arrivati i pensionati. Infatti, dicono i dati di Bankitalia, la quota
di popolazione che vive in famiglie con reddito derivante per almeno due
terzi da pensione è raddoppiata, passando dall’11% nella fine degli
anni Ottanta a quasi il 20%, mentre la quota di chi vive in famiglie con
reddito per almeno due terzi da lavoro è scesa dal 74% a circa il 50%.
Numeri che dicono molto di come sia cambiata la società. È vero, nel
2014 «sulla base delle statistiche ufficiali, la ricchezza netta delle
famiglie ammontava a circa sei volte il prodotto interno lordo», cioè la
bellezza di 8.730 miliardi di euro — pari a 145.500 mila euro per
ognuno dei 60 milioni di italiani — di cui 5.848 miliardi di euro in
immobili e 3.793 miliardi di euro in depositi, conti correnti, titoli e
altre attività finanziarie. Ma le distanze tra ricchi e poveri sono
aumentate. Sia sui redditi sia sulla ricchezza. Le persone a basso
reddito (comprensivo dei proventi da attività finanziarie),
rappresentavano il 16% del totale nel 1989, sono salite al 21%,
sottolinea Bankitalia, e detenevano meno del 4% della ricchezza netta
complessiva, tre punti meno che nel 1995. La classe media, quella con un
reddito tra il 60% e il triplo di quello mediano, è invece scesa
dall’82% al 76%. La classe ricca (reddito almeno triplo di quello
mediano) è passata da poco meno del 2% a poco più del 2%, ma la loro
quota di reddito sul totale è salita dal 6% del totale al 9% circa.
L’indice di Gini, una misura di disuguaglianza che varia tra zero e 100,
dove zero significa uguaglianza totale, è sceso fino alla prima metà
degli anni Ottanta, arrivando a 28.
Il passo del gambero
Poi ha ripreso a salire e ora è vicino a quota 33, come quarant’anni fa.
Anche qui, il passo del gambero. E fa impressione notare che nelle
famiglie «con capofamiglia di età non superiore ai 30 anni, oltre una
persona su tre è in condizione di basso reddito». Era «solo una su dieci
alla fine degli anni Ottanta». I giovani però «possono attendersi una
maggiore ricchezza ereditata» rispetto alle precedenti generazioni. Ma
anche l’eredità non fa che accentuare le diseguaglianze, conclude la
relazione, visto che in Italia c’è scarsa mobilità sociale e il
benessere finisce per essere determinato più dalla ricchezza ricevuta
dai genitori che dal lavoro esercitato .
Il Sole 5.6.16
Fisco. Evasione Iva al 30%, in Europa la metà
Orlandi: siamo la struttura più telematizzata d’Europa, la percezione del Paese sotto il profilo fiscale è lontana dalla realtà
di Alessandro Galimberti
Trento La cartina geografica dell’Italia che evade le tasse restituisce
un paese molto più complicato e molto meno omogeneo di quanto potrebbe
suggerire la tripartizione storica, meno che mai i luoghi comuni. Pur
con dei fondamentali ancora in evidente difficoltà - dall’evasione Iva
al 30%, unico dato raffrontabile per omogeneità con l’Ue, dove è al 15,2
%, fino al Tax Gap ancora oltre i 91 miliardi - il rapporto degli
italiani con il Fisco va migliorando, nonostante tutto, e la stessa
agenzia delle Entrate si scopre (fonte Ocse) la più telematizzata
d’Europa. Tanto da far dire a Rossella Orlandi, ospite al Festival
dell’Economia di Trento, che “la percezione, quando non il racconto
stesso del Paese, almeno sotto il profilo fiscale spesso sono molto
lontani dalla realtà”.
Molta acqua è passata sotto i ponti da quando una giovane donna
caponucleo dell’Intendenza di finanza svolgeva la sua prima verifica a
Certaldo - singolare premonizione dantesca - scoprendo un grande
calzaturificio evasore pressoché totale, perché da allora, anche se con
fatica, “l’idea che pagare le tasse e’ doveroso, che il nero non è
furbizia competitiva ma alterazione e infezione del mercato ha preso
progressivamente piede anche da noi”. Certo, ha detto la Orlandi, il
paese va guardato e capito intrecciando i dati economici con quelli
sociali e pure con quelli criminali. Perché se è vero che il Nord si
carica il 53 % dei 91,5 miliardi di Tax gap, ciò è dovuto solo ai volumi
del Pil sopra la linea del Po’, perché qui la propensione ad evadere
non sfiora mai lontanamente i livelli del Sud (dove arriva a toccare il
60%). Ma sarebbe ingeneroso inchiodare il Mezzogiorno alle sue
performance senza capire che quello è il prodotto di difficoltà
economiche, sociali e criminali che richiedono, semmai, “un intervento
coordinato delle istituzioni, ognuna nel suo ruolo, per ridare
prospettiva” alle aree più depresse del paese.
Ma la platea numerosa e attenta che riempie Palazzo Geremia, nel centro
del capoluogo della provincia autonoma ex austriaca, e’ interessata
soprattutto all’attualità: non è che questo tasso di evasione dipenda da
stato di necessità, alias da un fisco troppo vorace? Sul tema la
Orlandi la prende da lontano, ma non perde il punto: “Questo è un
aspetto che abbiamo molto approfondito” con metodologie e approcci
integrati, dice il direttore delle Entrate, per scoprire che “l’anomalia
non è la pressione fiscale, alta ma non al top in Europa, ma il fatto
che in Italia le tasse le paga un numero di cittadini inferiore a quello
dei contribuenti tenuti a farlo”. E allora il dibattito si sposta su
evasione e controlli: “Un mito” che l’agenzia possa scovare l’evasione (
e l’elusione) “pigiando un tasto del computer”, e “ con 11 mila addetti
ai controlli e’fisicamente e umanamente impossibile controllare 40
milioni di dichiarazioni fiscali “. Quindi? “Lavorare sulla repressione
e’ imprescindibile, e noi e la Finanza lo facciamo penso anche
abbastanza bene” (15 miliardi la riscossione effettiva del 2015, ndr)
“ma il vero cambio di passo sono le precompilate, le centinaia di
migliaia di lettere dell’agenzia che segnalano incongruenze (lo scorso
anno il 50% di adeguamenti spontanei senza contraddittorio)” in sostanza
lo sviluppo e l’implementazione di un sistema di compliance sia con le
imprese sia con i privati.
Non può mancare un riferimento, sempre chiesto dal pubblico, ai Panama
Papers (”stiamo incrociando i dati con i gruppi di lavoro dell’Ocse, e
tra poco forse anche dell’Ue. Ma certo questa inchiesta da’ l’ultimo
spintone al segreto bancario”) che ovviamente e automaticamente porta
con se l’ultimo interrogativo: quando riapre la voluntary disclosure
(data ormai per molto imminente)? “Ah no, non è a me che dovete fare
questa domanda”.
Corriere 5.6.16
E Visco: 500 euro garantiti a chiunque ogni mese? Insostenibile
di Francesca Basso
TRENTO L’ipotesi di garantire un reddito minimo nell’eurozona «non è
sostenibile dal punto di vista finanziario». Per il governatore della
Banca d’Italia, Ignazio Visco, se si ipotizzasse di dare 500 euro al
mese ad alcune specifiche categorie sarebbe disincentivante nella
ricerca del lavoro e se venisse dato a ciascun cittadino, inclusi
bambini e anziani, «per 12 mesi» avrebbe un peso «pari al 20% del Pil».
La ripresa di crescita e occupazione in Europa passa per altre vie, che
intrecciano politica monetaria e scelte politiche (da leggere riforme),
come hanno messo in evidenza Visco e il governatore della Banca centrale
francese François Villeroy de Galhau, che al Festival dell’Economia
hanno risposto alle domande di Ferruccio de Bortoli. La crisi del 2008
ha insegnato che «dobbiamo puntare di più alla stabilità finanziaria, al
completamento del mercato e tener conto delle contingenze — ha spiegato
Visco —. Abbiamo però bisogno anche di maggiore vigilanza». In questo
scenario un ministro unico delle Finanze dell’eurozona sarebbe per Visco
un «passo molto importante» per «avere una politica di bilancio
coordinata», però a condizione che disponga di «un suo bilancio, anche
virtuale» e un «debito unico». Per Villeroy de Galhau quello è un punto
d’arrivo, una fase intermedia potrebbe essere attribuire al ministro
delle Finanze Ue il potere di elaborare «una strategia collettiva e di
coordinamento delle politiche fiscali». Un «negoziato complicato», ha
ammesso Visco, tenuto conto che la Germania è molto scettica. Però ormai
è chiaro che il futuro della Ue passa dal cambiamento della governance e
dal completamento dell’Unione economica, come sostenuto nel Rapporto
dei cinque presidenti di un anno fa. Il referendum sulla Brexit sarà uno
spartiacque. Per Visco se vincesse l’ipotesi di addio alla Ue «anche
tra i Paesi dell’eurozona ci potrebbero essere tentazioni di fuoriuscita
giustificate con la possibilità di regolare i tassi di cambio». Il
rischio è di «tumulti sui mercati finanziari: noi dovremmo contrastare
queste forze».
Repubblica 5.6.16
Perché avanza il popolo contro
di Ilvo Diamanti
ALLA vigilia di ogni consultazione avanza, minacciosa, l’ombra
dell’astensione. Se ne parla anche in questa occasione, in vista delle
elezioni amministrative di oggi, che interessano oltre 1300 Comuni, di
cui 150 “superiori”. Cioè, oltre i 10-15mila abitanti. Compresi tredici
“superiori” a 100mila. In questi Comuni l’affluenza nel 2011 fu del 65%,
circa. Se facciamo riferimento alle città dove si vota oggi, a Milano
nel 2011 si recarono alle urne poco più di 2 elettori su 3, come a
Torino. A Napoli 6 su 10 e a Bologna oltre 7 su 10. Al contrario, a Roma
(nel 2013) la partecipazione elettorale si fermò poco sopra il 50%.
Dovunque, d’altronde, l’affluenza alle urne è calata in modo continuo e
costante, da oltre vent’anni. Anche se ogni volta, in occasione delle
scadenze elettorali che si susseguono frequenti, l’allarme “democratico”
risuona. Ma non c’è nulla di cui allarmarsi. L’astensione non è una
minaccia che incombe sulla nostra democrazia. È, invece, fisiologica.
Anche se, fino agli anni Novanta, in Italia votavano tutti. Almeno: alle
elezioni politiche. Meno — appunto — alle amministrative. Ancor meno
alle europee. Ma allora il voto rifletteva ideologie politiche profonde e
radicate. Poi è caduto il muro di Berlino, Tangentopoli ha affondato la
classe politica insieme ai partiti di massa della Prima Repubblica.
Così il voto ha cambiato significato. Non più un atto di fede, ma,
semmai, una scelta di campo. Pro o contro Berlusconi. E poi: pro o
contro i partiti e i politici. La stessa astensione ha mutato segno.
Spesso è una scelta “contro”. E per votare servono, comunque, buone
ragioni. In ambito comunale: occorrono candidati e liste capaci di
mobilitare gli elettori. A proprio favore. O contro. Ma non è facile.
Perché non ci sono più partiti che selezionano i leader. E fanno
campagna elettorale. Dovunque è un fiorire di liste civiche e personali,
spesso sconosciute ai cittadini meno informati. Cioè, la maggioranza.
Poi, mancano risorse. Fateci caso: manifesti e volantini sono una
rarità. Il “porta a porta”: lo fanno solo i venditori ambulanti. Invece,
spira un sentimento di sfiducia che neppure il M5s e la Lega riescono a
trasformare in un clima anti-politico capace di coinvolgere.
Siamo, dunque, lontani dal 1993, quando venne istituita l’elezione
diretta dei sindaci, salutata come la rivincita del territorio nei
confronti dello Stato centrale. E dei leader locali sui partiti
nazionali. Oggi i sindaci hanno perduto risorse e poteri. Non sono più
attori (politici) ma esattori. Per conto dello Stato.
D’altronde, in questa campagna elettorale non si è parlato di problemi
del territorio, ma del referendum costituzionale. Pro o contro Renzi.
Così, l’astensione diviene normalità, non un fenomeno in-atteso.
D’altronde, se votare è un diritto e lo è anche non votare. Chi non vota
accetta — e subisce — la scelta di chi vota. A Londra, di recente, è
stato eletto sindaco il laburista di origine pachistana Sadiq Khan. Ha
votato meno della metà degli aventi diritto. Ma a nessuno è venuto in
mente di discutere legittimità del voto. Né il fondamento della
democrazia in Inghilterra.
Repubblica 5.6.16
Al voto con rischio astensione
A Roma test chiave Pd-M5S.“Un milione può disertare”
Chiamati al voto 13 milioni di cittadini per 1.342 amministrazioni. Ma incombe la disaffezione verso la politica
I sondaggisti: prima veniva colpita la destra, ora è trasversale
di Carmelo Lopapa
ROMA. Le hanno provate tutte, i candidati sindaci e l’esercito di
aspiranti consiglieri, pur di trascinare oggi al voto almeno buona parte
dei 13.316.379 elettori dei 1.342 Comuni che in tutta Italia vanno al
rinnovo. Venticinque capoluoghi, cinque tra le più grandi città del
Paese, Roma e Milano su tutte. Nella Capitale lo scontro di punta.
Sarebbero chiamati all’appello anche 18.318 diciottenni. Ma quanti di
loro si presenteranno al seggio tra le 7 e le 23 di oggi?
L’astensionismo è la grande incognita, che gli studiosi tutti
definiscono oramai trasversale. Un tempo penalizzava solo la destra, non
è più così, in una tornata che segna come mai in passato la fuga della
politica, le sigle tradizionali sparite in due Comuni su tre. Complice
quella che Roberto Saviano ha definito «la resa delle istituzioni» e
della politica stessa, ma anche la disaffezione generalizzata e
crescente. Sta di fatto che, come scriveva ieri l’Osservatore Romano,
«il massiccio astensionismo sembra essere uno dei pochi dati certi di
questa consultazione », che giunge al termine di una campagna che,
«fatta qualche eccezione, è stata piuttosto incolore» sentenzia il
quotidiano della Santa Sede. Del resto è il trend conclamato anche
secondo politologi e sondaggisti. Restano da indagare le ragioni
profonde del malessere, del quale la crisi economica costituisce solo
una delle spiegazioni possibili. Forse davvero molto dipende da quel che
il presidente dell’istituto Ixè Roberto Weber definisce il «tasso di
rancorosità sociale» diffuso nel Paese. Alla domanda “ritieni di aver
dato al Paese più di quanto hai avuto”, spiega, «fino a qualche anno
rispondeva sì il 40 per cento, oggi la percentuale tocca il 65». Due
elettori su tre appartengono proprio a quella categoria dei “rancorosi” e
buona parte di loro sarebbe intenzionata a trasformare la rabbia in
“non voto”. E mentre in passato si poteva inserire la categoria degli
astensionisti nelle caselle “anziani”, “donne” e Sud”, continua Weber,
oggi è tutto più «trasversale e confuso ». Perché ampio è il ventaglio
di popolazione «sofferente sotto il profilo economico e dunque
insofferente sotto quello politico». Una tagliola che secondo gli
studiosi incombe anche su partiti a spiccata vocazione populista come
Lega e M5S.
Forse pesa non poco anche l’innalzamento dell’età media di coloro che
rispondono alla convocazione ai seggi. «È stata di 54 anni alle ultime
primarie Pd», ricorda Antonio Noto che presiede Ipr Marketing e che, se
costretto a una previsione, stimerebbe l’affluenza di oggi tra il 58 e
il 60 per cento, comunque meglio del 54 delle regionali dell’anno
scorso. «Quando nel ’97 l’affluenza è scesa al 67 per cento divenne un
caso nazionale ». Sembra un secolo fa. «In questo scenario elettorale,
per paradosso, il proliferare di liste civiche non corrisponde a un
maggior desiderio di coinvolgimento del cittadino comune, in grado di
trainare l’affluenza – spiega ancora Noto – Tutt’altro: quelle sigle
sono espressione di singoli politici locali, veri e propri ras, che
vogliono testare la loro forza, pesarsi in vista dell’Italicum, per
conquistare posti di prestigio quando saranno stilate le liste per le
politiche. Più che un avanzamento della democrazia, una sua distorsione:
vedrete infatti che da Cosenza a Roma, dove le civiche spadroneggiano,
l’affluenza non ne beneficerà affatto».
Dunque astensionismo «assolutamente trasversale» prevede anche Pietro
Vento di Demopolis. «Un tempo si sarebbe detto che avrebbe penalizzato
il centrodestra, oggi non è più così. Inciderà su Roma e sul Mezzogiorno
più che altrove» dice. Con picco proprio nella Capitale, «dove minaccia
di non votare oltre un milione dei 2,3 milioni di elettori». Quasi la
metà. Le ragioni del non voto? «Oltre un terzo dei potenziali
astensionisti attribuisce la propria scelta a sfiducia e delusione verso
i partiti e i candidati». C’è anche il fatto che la campagna elettorale
«è stata meno sentita rispetto alle altre - è l’opinione di Renato
Mannhaimer – con un coinvolgimento dei cittadini inferiore a un tempo e
su temi di politica generale anziché sulle città, addirittura mesconado
il referendum con le amministrative».
Che il pericolo sia trasversale e avvertito come tale lo si intuisce
dalle contromosse di leader e partiti. Silvio Berlusconi ha fatto
diffondere anche via social nelle ultime ore il suo appello finale al
voto lanciato su Whatsapp, proprio a caccia degli under 40. Luigi Di
Maio ha messo le mani avanti, nel suo ultimo intervento: «È stato scelto
dal governo un week end strategico che è un invito all’astensione »,
con riferimento alla prossimità col 2 giugno. «Queste amministrative
saranno un banco di prova anche per verificare se prosegue la crescita
dell’astensionismo – spiega il senatore pd Federico Fornaro, area
Bersani, appassionato di statistica – Nei 25 capoluoghi, alle precedenti
consultazioni votò solo il 61,2 per cento, fenomeno esploso poi alle
regionali del 2014 e del 2015».
Tutto lascia intendere che oggi non andrà molto meglio.
Repubblica 5.6.16
La sociologa Chiara Saraceno
“La disaffezione colpa anche degli ex del ’68”
Giudicano i più giovani con il metro del proprio passato dicendo: non siete bravi come noi
intervista di G. C.
ROMA. «Il disimpegno riguarda i più giovani. Ma forse gli ex
sessantottini hanno contribuito a creare le cause dell’astensione ».
Chiara Saraceno, sociologa, giudica che non venga dalla “generazione
dell’impegno” il rischio astensione.
Saraceno, è nella generazione del Sessantotto, che voleva cambiare il
mondo e si ritrova “rottamata”, che si annida il massimo della
disaffezione elettorale?
«Credo al contrario sia la generazione che mantiene una motivazione più
forte o rabbiosa. Nelle élite è quella che stava in coda dietro i grandi
vecchi, aspettando il suo turno, e invece è stata fatta fuori».
La generazione dell’impegno ora si è disimpegnata?
«Direi di no. Il disimpegno riguarda i più giovani. Piuttosto è una
generazione senza più radici. Si è impegnata ma non sa più bene per che
cosa, non sa più bene a cosa riferirsi, è attraversata dal “pentitismo”,
solo le femministe lo sono un po’ meno».
Meno astensionista?
«Sì, però ha delle responsabilità rispetto all’astensione perché manda
in generale messaggi contraddittori. Glorifica il proprio passato,
tuttavia ne nega la validità nel presente. E giudica i più giovani con
il metro del passato, dicendo “non siete bravi come eravamo noi».
Lo spettro dell’astensione incombe?
«Non lo giustifico, ma ha un fondamento. I partiti si nascondono dietro
le liste civiche e si camuffano. Comunque dipenderà città per città.
Roma è reduce da un disastro; a Milano l’addio di Pisapia potrebbe aver
prodotto una disaffezione; a Torino, con tutto l’apprezzamento per Piero
Fassino, l’idea della ripetizione un po’ stanca, soprattutto che siano
sempre gli stessi gruppi sociali a dare le carte. E poi il discorso
pubblico sulla politica nazionale ha come cancellato queste
amministrative con continui proclami sul referendum di ottobre».
Il Sole 5.6.16
L'unica sorpresa di questo voto sarà Roma
di Lina Palmerini
qui
Corriere 5.6.16
Qui Roma
di Sergio Rizzo
Non s’illudano. Con quella macchina amministrativa obesa, inefficiente,
appesantita dalle clientele sindacali e politiche, infarcita di rendite
di posizione e talvolta non insensibile a interessi esterni, tutti
dovranno fare i conti. Perciò suggeriamo ai candidati un rapido ripasso
sui tre anni passati.
Sarebbe ingeneroso non riconoscere che i guai di Ignazio Marino sono
cominciati quando ha preso di petto la macchina amministrativa. Prima lo
scontro con i vigili urbani: seimila e potentissimi. Una guerra di
logoramento andata avanti un anno e mezzo, culminata con la clamorosa
defezione dì massa della notte di San Silvestro del 2014. E conclusa con
l’unico esito possibile: nessun vigile ci ha rimesso il posto. Mentre
il sindaco ha fatto le valigie. Non basta. La rotazione, sacrosanta,
degli incarichi dei pizzardoni è naufragata miseramente grazie a una
sentenza del tribunale che ha accolto un ricorso sindacale. Quindi
l’altra sconfitta nella battaglia sul salario accessorio, che per prassi
consolidata negli anni veniva, e ancora viene, distribuito a pioggia:
alla faccia del Tesoro che l’ha dichiarata illegittima.
Poi c’è il capitolo degli apparati dirigenziali. Quando l’ex assessore
alla mobilità Stefano Esposito parlò di amministrazione «compromessa»,
non si riferiva solo ai livelli più bassi. Citò anche il caso di una
delibera per bloccare l’ingresso dei pullman turistici nel centro
storico che uscì dagli uffici competenti scritta in modo da ottenere il
risultato esattamente contrario alle istruzioni impartite. Una micidiale
cartina al tornasole. Per non parlare degli appalti al rallentatore,
degli affidamenti in perenne proroga, dei conflitti d’interessi… I
trasporti sono al collasso: girano poco più della metà degli autobus a
disposizione.
L’Atac è in coma. Le statistiche europee dicono che Roma è la più sporca
fra le 32 capitali europee, nonostante un costo del servizio superiore
del 51,9% (ha calcolato Confartigianato) alla media italiana. Il
traffico è infernale: qui c’è il record mondiale del rapporto fra
abitanti e mezzi a motore. Le periferie sono in condizioni
inaccettabili. L’ombra della criminalità affaristica si è allungata su
Ostia. E la linea C della metropolitana esibisce costi astronomici e
ritardi equivalenti. Non si sa quando e se verrà completata.
Impensabile che in questo stato di cose non ci siano responsabilità
dell’amministrazione. Quindi è impensabile che Roma si possa rimettere
in piedi senza intervenire duramente sull’amministrazione. Così anche
sulle municipalizzate dove il partito trasversale, nel quale si saldano
interessi politici e sindacali, quando non affaristici, dispiega tutta
la propria incontrastata potenza.
Tutti, dicevamo, dovranno farci i conti. Ma ci sono due modi. Il primo è
quello del compromesso. Pochi rischi, zero grane, tanto consenso,
nessun cambiamento. Il secondo è l’esatto contrario: ristabilire le
regole, costi quel che costi. Ristabilirle negli uffici capitolini, dove
lavorano 24 mila persone, e nelle partecipate, dove ce ne sono altri 37
mila. Molti rischi, un sacco di grane, zero consenso (nel Comune,
forse, ma tantissimo fra i cittadini), cambiamenti radicali. Finalmente.
Quello che serve alla capitale d’Italia per non doversi più vergognare.
Ma chi è pronto per questo passo?
Repubblica 5.6.16
Se Berlino ritorna al marco Renzi che farà?
di Eugenio Scalfari
OGGI 13 milioni di italiani vanno ai seggi elettorali per votare i
sindaci e i consiglieri comunali di 1342 Comuni, alcuni dei quali molto
importanti: Roma, Napoli, Torino, Milano, Bologna, Cagliari e molti
altri.
Il voto avrà inevitabilmente un doppio significato: locale e nazionale.
Avviene sempre così, ma questa volta il senso nazionale è reso più
evidente per la sua connessione politica con il referendum
costituzionale del prossimo 2 ottobre il quale a sua volta è
strettissimamente collegato con la legge elettorale già esistente e
pronta ad essere usata quando l’intero popolo “sovrano” sarà chiamato ad
eleggere un Parlamento di cui fino al referendum non sappiamo se sarà
ancora composto da due Camere o soltanto da una.
Situazioni così complicate si verificano raramente, ma questa che
abbiamo qui tratteggiato guardabile da un punto di vista nazionale lo
sarà molto di più se teniamo conto anche del quadro internazionale:
quello europeo di cui facciamo parte e che ha raggiunto una situazione
che dir drammatica è dir poco; quello americano che affronterà tra pochi
mesi le elezioni del presidente; quello dei Paesi emergenti, Cina,
India, Indonesia, Brasile, Sudafrica. Infine last but not least una
situazione economica che sta coinvolgendo l’intera società globale e in
particolare alcune Banche centrali: la Federal Reserve americana, la
Banca centrale europea e quella cinese.
Non s’era mai visto un intero mondo di fronte a svolte così decisive e così interconnesse tra loro.
L’ABBIAMO più volte scritto su queste pagine: siamo di fronte alla crisi
di un’epoca che stravolge l’intero pianeta. La stessa ci racconta
analoghi eventi avvenuti nel corso di millenni, si comincia dal Tremila
a. C. (prima era preistoria, più immaginata che documentata) ma non era
mai avvenuta una crisi d’epoca che coinvolgesse l’intero pianeta, la sua
politica, la sua economia e perfino il suo clima e non era mai avvenuto
che una tecnologia estremamente sofisticata fosse diffusa e usata in
tutto il mondo come strumento e talvolta addirittura come regista che
impone le sue scelte alle comunità che la usano.
In un quadro di questo genere è chiaro che il voto italiano di oggi
conta assai poco. È chiaro, sì, ma altrettanto chiaro è che la realtà si
muove a piccoli passi, ciascuno dei quali è compiuto da singole
comunità e da singole persone, alcune più significative di altre.
Bisogna cercar di capire quali siano gli elementi determinanti. Le
religioni ne sono uno, le filosofie un altro, l’interesse proprio un
altro ancora; infine l’esperienza consapevole che forse è lo strumento
fondamentale ma che pochi sono disposti ad usare. La lealtà e la storia
di una specie come la nostra, sarebbero molto diverse se le persone
consapevoli fossero numerose, ma non è così. Sono gli istinti a dominare
e quello più forte di altri è l’Interesse. Come il proprio? Ecco la
domanda centrale ed è questa cui siamo chiamati a rispondere.
***
Non vi aspetterete certo che sia quella risposta il tema di questo
articolo domenicale, ma mi piaceva ricapitolare un quadro al quale
personalmente ho dedicato gran parte della mia vita. Ora l’ho fatto e
vengo ad alcune situazioni più vicine ad un commento giornalistico che
scrivo con cadenza settimanale.
Comincerò con un intervento di venerdì scorso di papa Francesco mentre
partecipava ad un convegno di giuristi. Francesco è una figura
estremamente singolare. Essendo nemico giurato d’una Chiesa che per
secoli è stata dominata dal potere temporale e lo è ancora da quanti non
condividono le posizioni del Papa attuale, Lui ha la capacità di
spiazzarli e la usa all’improvviso quando nessuno se lo aspetta; è il
suo carattere che lo guida. All’improvviso ha preso la parola e ha detto
che la Chiesa deve occuparsi di politica alta. I presenti sono rimasti
sbalorditi: Francesco predica la politica? Alta, sia pure, ma politica?
Sì, ha proseguito Lui, la Chiesa deve schierarsi politicamente affinché
la politica sostenga il bene comune, l’interesse generale e il valore
della misericordia. Leggi, iniziative, mobilitazione di risorse
materiali e loro impiego affinché il bene comune sia tutelato e la
misericordia diventi non soltanto una verità religiosa ma una politica
sociale verso i deboli, gli esclusi, i poveri. Questa è la politica alta
di papa Francesco. A me sembra che dovrebbe essere la politica di tutti
i responsabili consapevoli. Il bene comune è esattamente il contrario
dell’interesse proprio. Accade spesso che chi è mosso dall’interesse
proprio lo camuffi da bene comune. I demagoghi sono maestri di questa
pratica e sono loro gli avversari da individuare. Non è facile. Ma
accade spesso che la persona dominata dall’interesse proprio creda
veramente di essere portatore del bene comune. Non lo dice soltanto, ma
lo pensa. Qual è il rimedio? La libertà e la divisione dei poteri.
Questa è la politica alta: tutelare la divisione dei poteri e dei
contropoteri.
Papa Francesco due settimane fa ha addirittura esortato le nazioni
europee a dar vita ad un potere federato, in mancanza del quale le
singole nazioni rispettano soltanto l’interesse proprio e non quello
comune d’una delle più alte civiltà del mondo. Venerdì scorso ha
ricordato papa Montini che la politica alta l’aveva sempre praticata. E
papa Giovanni che promosse il Concilio Vaticano II e una delle sue
finalità che fu l’incontro della Chiesa con la modernità intellettuale e
culturale.
Questa è la politica alta e questa caratterizza il Pontificato di Bergoglio.
Tra i vari punti di crisi ce n’è uno che sta sconvolgendo l’economia in
genere e quella monetaria in particolare. Si sta profilando in Usa e in
Germania. È inutile dire che le ripercussioni si diffondono sulla
politica economica e monetaria di tutto l’Occidente.
In Usa c’è stata una netta caduta dei nuovi posti di lavoro. Può
dipendere da molti fattori, ma il primo soggetto a dover affrontare
questa svolta è la Federal Reserve e i tassi che attua sul dollaro.
Qualche mese fa furono aumentati di un quarto di punto. Secondo il
programma già allora stabilito dovrebbero aumentare ulteriormente di un
altro quarto entro i prossimi due mesi e entro un anno arrivare
addirittura ad un punto. Le ripercussioni sono un rafforzamento del
dollaro, ma la Fed ha ora congelato il programma. Tutto è rinviato al
2017 in attesa e con la speranza che l’andamento dell’occupazione torni
ad aumentare.
Nel frattempo la Germania attacca duramente la politica di Draghi che
continua ad aumentare la liquidità nelle forme più varie. Ha abbassato i
tassi di interesse per i depositi delle banche dell’Eurozona, si
appresta ad acquistare direttamente titoli emessi da imprese private e
forse addirittura a fornire liquidità direttamente ai cittadini con
potere di acquisto medio-basso, disponibili ad aumentare la domanda dei
consumi e la disponibilità ad investimenti privati. Infine suggerisce
sgravi d’imposta che incoraggino investimenti pubblici. Per l’Italia la
Commissione suggerisce una politica di forti tagli del cuneo fiscale da
praticarsi immediatamente.
La Germania giudica malissimo questa politica. Schäuble vorrebbe
addirittura un “german-Brexit”, appoggiato dall’olandese vicepresidente
del Consiglio. La Merkel, che un tempo appoggiava Draghi, stavolta tace e
lascia parlare Schäuble. Un “german- Brexit” che tornasse al marco o ad
un euro con diverse velocità?
Personalmente avrò un incontro pubblico con Matteo Renzi al Festival
delle Idee di Repubblica la sera del prossimo 11 giugno, nella sala di
Santa Cecilia all’Auditorium. Lo dico qui per informare i nostri lettori
ma anche per sottoporre una delle domande, anzi la prima, che rivolgerò
al nostro presidente del Consiglio: non spetta all’Italia, cioè a lui,
diffidare la Merkel da un “german-Brexit”? E in quel caso non spetta
all’Italia di creare un fronte unico di tutti i Paesi dell’Eurozona che
fronteggi la Germania per la politica deplorevole che sta attuando?
Questa sarebbe una grande funzione politica ed economica, parallela o addirittura convergente con quella di Draghi.
Ascolteremo la risposta. Mi auguro sia positiva.
La Stampa 5.6.16
Mezzi uomini che uccidono le donne
di Gavriel Levi
Cerchiamo di pensare qualche altra mezza verità. Un uomo che, oggi, massacra e uccide una donna è (così giustamente si dice).
Un omicida incontrollato, un femminicida annunciato, un avanzo della
società medioevale o dell’orda preistorica, un cannibale del potere.
Potrebbe altrettanto essere: un suicida potenziale ma vigliacco, un
omofobo che non sa di esserlo, un prodotto outlet della modernità
affollata, gassosa e solitaria, un compratore insaziabile di
insicurezze.
Forse tutte queste mezze verità vanno confrontate e messe assieme, per
completarsi. Probabilmente, in ogni singolo caso, i diversi fattori si
compongono e si squilibrano in misture diverse e complesse.
Ad una prima analisi: un uomo che, per eternare e congelare un rapporto,
ammazza una donna, nebulosamente amata, ha un problema con il suo
immaginario femminile/maschile. Ma in controluce: un uomo che, per
aggrapparsi ad una donna che gli sfugge, la uccide è, comunque, un mezzo
individuo, che ha un problema con la sua individualità umana. Un
problema che questo individuo dimezzato cerca di spostare e di
nascondere in una sua guerra fantastica, segreta e miserabile fra tutti
gli uomini e tutte le donne.
Se, per prendere le distanze, parliamo di narcisismo distruttivo e di
odio sociale contro le donne, diciamo una cosa giusta ma corriamo il
rischio di confondere le dimensioni. Il narcisismo è una maschera
ingannevole, specie quando il narcisista identifica tutte le relazioni
umane con la relazione fra i due sessi.
Il narcisista a rischio, può diventare sempre più fragile e pericoloso
quando nella sua storia personale con una donna, cerca la segregazione e
costruisce ogni momento una scommessa fra avere tutto ed essere nulla,
fra dominazione ed umiliazione, fra rabbia vitalizzante e vergogna
mortale, fra idolatria e disgregazione, fra trionfo e disperazione.
Il narcisismo è una maschera ingannevole anche nel mito originario.
Perché Narciso, proprio per esistere, deve far morire Eco. E la Ninfa
Eco, terribilmente, almeno in parte, collabora, uccidendosi da sola.
Forse si uccide proprio per non essere uccisa. Lo fa in diversi modi:
qualche volta lo fa illudendosi che tutto potrà andare bene e quindi non
riconoscendo i segnali della violenza omicida; qualche volta donandosi
sempre di più, per curare chi non vuole essere curato; qualche volta
spegnendosi lentamente e fuggendo troppo tardi e senza prendere le
necessarie difese. Ma queste ultime considerazioni valgono di meno per
la ninfa Eco e di più per le donne reali di oggi.
Il punto è proprio questo. I fatti degli ultimi anni ci stanno parlando
di un femminicidio che riflette alcune tematiche dell’antichità, ma non
trova i suoi veri meccanismi nelle piccole logiche mediatiche della
modernità. Ovviamente nelle sue sacche sociali più paludose, dove molto
si gioca sempre più su immagini di sé più fittizie.
Ed è in questa area che possiamo e dobbiamo lavorare se vogliamo
combattere la fabbrica del femminicidio, oltre che deprecare i suoi
carnefici e santificare le loro vittime.
E’ l’immagine del femminicida che va compresa e presentata per quello
che è; un suicida senza coraggio che crolla quando si accorge che la sua
compagna non è un’ombra ma una persona.
Questa immagine tanto ridicola quanto dolorosa può essere individuata
direttamente dai tanti protagonisti di queste storie. Dai potenziali
femminicidi che possono imparare a conoscere in tempo la loro fragilità;
dalle loro potenziali compagne, che possono imparare almeno a non
cadere nell’illusione dell’io ti cambierò/io ti salverò; da coloro che
li hanno educati a crescere nell’altalena rabbiosa tra fantasie di
onnipotenza e fantasie di impotenza. A tutti noi che davanti ai problemi
della crescita umana dobbiamo pensare senza retoriche e schemi
prefabbricati.
La Stampa 5.6.16
Quelle processioni da abolire
di Lorenzo Mondo
Ultime notizie sul fronte della mafia. Anche quando si attenua il rumore
delle armi, essa manifesta la sua presenza in forme cerimoniali o
rituali che denotano un intatto prestigio sociale. Come accade in
occasione di festeggiamenti e funerali. Prendiamo Corleone, che ha una
triste nomea per avere dato i natali a Totò Riina (ad un suo figliolo
Bruno Vespa ha concesso recentemente l’onore di essere ospitato in
«Porta a porta»). Bene, c’è stata una processione e, guarda un po’, la
statua di San Giovanni si è inchinata davanti al balcone di casa Riina:
dove stazionava, con le sorelle, Ninetta Bagarella, la moglie del boss
condannato al carcere duro per le sue efferatezze. Il parroco Domenico
Mancuso ha detto di non saperne niente, che la fermata non era prevista,
anche se ammette, enigmaticamente, che «ci voleva più prudenza».
Risoluta la condanna del vescovo di Monreale, Michele Pennisi. Che deve
però mettersi le mani nei capelli se, per prevenire altre losche
sudditanze, arriva a suggerire un paradossale protocollo d’intesa. In
base al quale le soste devono essere concordate con le forze
dell’ordine. I poliziotti chiamati a fiancheggiare o sostituire i
parroci. Ed era stato lo stesso vescovo a chiedere che nessun
pregiudicato fosse accolto in confraternite e organizzazioni religiose.
Ma non sarebbe meglio, intanto, abolire queste sacrileghe processioni,
salvando la faccia a santi e madonne?.
Un’altra storia riguarda Cinisi,
provincia di Palermo. Là era nato Peppino Impastato, il giornalista
vittima della mafia, ma anche Procopio Di Maggio, morto centenario in
questi giorni. Apparteneva alla «cupola» di Riina, anche se è riuscito a
evitare i rigori della legge: è scampato però a due attentati, un suo
figlio è in galera e un altro è stato ammazzato. Il questore ha vietato
per lui i funerali pubblici. Con buoni motivi. In occasione del suo
compleanno, c’era stata una gran festa in paese, con molta gente e
fuochi d’artificio. Qui è stato evitato un sia pur laico «inchino»,
l’omaggio postumo all’uomo d’onore. Ma il fatto stesso che si sia dovuto
provvedere lascia intendere che tira brutta aria da quelle parti. Se ne
vanno, per fortuna, anche i boss, altri invecchiano dietro le sbarre,
ma non vengono meno l’omertà e complicità mafiosa. E ci tocca
confrontarci periodicamente con storie perfino stucchevoli, se non
fossero indizio di una trucida realtà che non vuole morire.
Corriere 5.6.16
TTIP
Europa e Usa , il difficile matrimonio d’interessi
di Jean-Marie Colombani
I l grande progetto di partenariato commerciale fra Europa e Stati Uniti
tende progressivamente a diventare un’occasione perduta, mentre si
profila nel prossimo mese di luglio una nuova fase di negoziati. Giunto
di recente sul suolo europeo, Barack Obama aveva auspicato che tale
partenariato (Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti)
fosse concluso prima del termine del suo mandato. Entro la fine
dell’anno.
È la Commissione europea ad avere il mandato dagli Stati membri di
negoziare in nome dell’Europa, e a chieder loro recentemente maggior
sostegno. «I due mercati saranno avvantaggiati se uniranno le loro
forze», ha sostenuto Jean-Claude Juncker a Parigi, meravigliandosi della
levata di scudi che il negoziato suscita, ancor prima che se ne
conoscano tutti i termini; il presidente della Commissione ha
soprattutto protestato contro i permanenti sospetti di tradimento degli
interessi europei che gli sono rivolti in maniera assurda e
caricaturale. Mentre la Gran Bretagna (a condizione che resti
nell’Unione) e l’Italia offrono un forte appoggio al negoziato, la
Francia si è distinta schierandosi immediatamente fra gli oppositori al
Trattato, così come si presenta nella fase attuale. Il governo si
allinea in tal modo con una parte dell’opinione pubblica che si nutre
sia di una ostilità verso tale o talaltra categoria professionale, sia
di un vecchio ed eterno antiamericanismo, sempre presente nella politica
francese, e tale da fargli ritenere, per principio, di poter esistere
solo opponendosi agli Stati Uniti. Anche se il Presidente americano è
Barack Obama, che continua a suscitare notevoli simpatie. La Francia non
è sola: Sigmar Gabriel, vice Cancelliere tedesco, ha ribadito che
secondo lui «un accordo affrettato sarebbe un cattivo accordo» che la
Germania non approverebbe.
La posta in gioco di questo negoziato è molto alta; e le difficoltà che
esso solleva sono ben reali. Viviamo un momento della Storia in cui è in
discussione il posto relativo di ciascuno nell’equilibrio del mondo nel
XXI secolo. Il progetto del Trattato è che Europa e Stati Uniti non
siano le vittime dello sconvolgimento in corso, ma che lo controllino e
ne escano addirittura rafforzati. Più che di utilizzare la leva
tradizionale di crescita e sviluppo che è il libero scambio (abbassando i
diritti doganali), si tratta di tener sotto controllo la chiave del
commercio mondiale, e cioè le norme ambientali, sociali e tecnologiche
(che proteggono i consumatori e i lavoratori dipendenti). Infatti, non
appena una comunità di 80 milioni di abitanti che rappresenta la metà
della produzione mondiale si accordasse su delle norme, con ogni
probabilità queste si imporrebbero sull’intero pianeta. Ecco in cosa
consiste il grande disegno. Ma è qui che cominciano le difficoltà.
Europei e americani non hanno affatto le stesse norme. Per esempio, gli
americani accettano le carni bovine agli ormoni che in Europa sono
impensabili. In maniera generale, da questo negoziato ciascuno cerca di
trarre i propri vantaggi. Così gli americani, che hanno un pesante
deficit commerciale agricolo con l’Europa, cercano di eliminare gli
ostacoli per esportare di più. Al contrario i francesi, che negli scambi
agricoli vogliono siano riconosciute le indicazioni geografiche
segnalando l’origine dei prodotti alimentari, cercano di preservare
territori e savoir-faire locali. Uno dei punti più importanti per gli
europei è ottenere l’apertura dei mercati pubblici americani (apertura
che è inferiore al 50 per cento), mentre i mercati pubblici europei sono
fin da ora ampiamente aperti alle imprese americane (apertura che va
oltre l’80%)! Ebbene, le regolamentazioni dei mercati pubblici negli
Stati Uniti sono una delle manifestazioni più evidenti di un
protezionismo celato.
Questo negoziato, che per l’interesse comune è ritenuto utile da Europa e
Stati Uniti, perché rafforzerebbe la loro posizione di fronte alla Cina
e ai Paesi emergenti, è quindi particolarmente complicato e difficile.
Se dovesse tuttavia essere concluso prima del termine auspicato da
Barack Obama (il che è poco verosimile), non sarebbe applicato in un
giorno. Come sottolineato da Pascal Lamy, ex direttore dell’Omc
(Organizzazione mondiale del commercio), occorrerebbero fra i trenta e i
quarant’anni per ottenere risultati tangibili. In questione è
l’avvenire dell’Europa nel mondo.
Ma più la campagna per le elezioni presidenziali americane avanza, più
il progetto di partenariato ha il piombo sulle ali: Donald Trump è
ferocemente protezionista e si è pronunciato contro; Hillary Clinton, a
sua volta, ha appena preso le distanze da quello che era l’ultimo grande
obiettivo della presidenza Obama. E che assomiglia sempre di più a un
progetto nato morto.
(Traduzione di Daniela Maggioni)
Il Sole 5.6.16
Quesito sul capitalismo
di Guido Rossi
qui
La Stampa 5.6.16
Come affrontare la doppia minaccia di Cina e Corea
di Bill Emmott
Contiene un regime isolato e brutale in possesso di armi nucleari, vale
a dire la Corea del Nord, e una nuova superpotenza che crede di avere
il diritto di possedere i mari che circondano le sue coste, sto parlando
della Cina, a prescindere dalle rivendicazioni degli altri Paesi che vi
si affacciano. La minaccia è reale. Ma oltre i problemi c’è un’altra
domanda ancora più fondamentale: in base a quali regole dovrebbero
essere governati la regione, e il mondo?
Come ogni anno degli ultimi 15,
il forum più importante per discutere di queste preoccupazioni si è
tenuto a Singapore, è il «Shangri-La Dialogue» (dal nome dell’hotel in
cui si svolge) ed è organizzato da un think-tank londinese, l’Istituto
Internazionale di Studi strategici. Quest’anno l’incontro si è aperto il
4 giugno con un intervento del segretario americano della Difesa Ashton
Carter, durante il quale ha usato 37 volte l’espressione «di
principio».
Non è stato un caso, come ha sottolineato l’analista
francese in tema di sicurezza che ne ha tenuto il conto, François
Heisbourg. Quello che l’America sta cercando di fare in Asia è di
presentarsi come il nobile difensore del diritto internazionale e dei
principi di buon vicinato cercando di stabilire, ha detto il segretario
Carter, una «rete di sicurezza di principio» aperta a chiunque voglia
aderire – in riferimento ovviamente alla Cina -, purché ne rispetti i
principi.
Ma non può farlo, o per lo meno non lo farà, ha borbottato
ogni ministro della Difesa presente, dai Paesi del Sud-Est asiatico al
Giappone. Da due anni nel Mar Cinese del Sud, la Cina sta costruendo
isole artificiali sopra scogliere sommerse per piazzarvi piste
d’atterraggio e altre strutture militari. Quelle nuove isole hanno
trasformato le antiche rivendicazioni teoriche della Cina per la
sovranità su tutto il Mar Cinese Meridionale in una realtà, con grande
costernazione in particolare delle Filippine, del Vietnam e della
Malesia, i suoi principali rivali.
Due anni fa al Shangri-La Dialogue un
generale cinese aveva cercato di giustificare questa pretesa facendo
riferimento a una dinastia imperiale di 2000 anni fa, un po’ come se
l’Italia rivendicasse gran parte del Mediterraneo sulla base dell’impero
romano. I partecipanti non credevano alle proprie orecchie. Eppure era
mortalmente serio. Probabilmente non in senso letterale in termini
giuridici, ma piuttosto nei termini dell’autopercezione che la Cina ha
di sé come superpotenza: 2000 anni fa era lo Stato più forte dell’epoca e
controllava il Mar Cinese Meridionale e così sente che dovrebbe farlo
di nuovo ora.
Da qui il ricorso americano ai «principi» e allo stato di
diritto. Durante le prossime settimane la Corte permanente di arbitrato
dell’Aia dovrà dirimere una controversia per un caso sollevato dalle
Filippine contro la Cina che, sostengono, ha violato il loro territorio
sovrano. Quella sentenza, ha detto il segretario Carter, rappresenterà
«un’opportunità» per tutti i Paesi di sedersi insieme e risolvere i loro
dissidi in base al diritto internazionale. Tranne che non sarà affatto
così, perché la Cina non riconosce la competenza del tribunale dell’Aia
nel merito della questione.
I dettagli di queste dispute marittime sono
tecnici. Ma le accompagnano un pericolo immediato e un problema molto
più fondamentale. Il pericolo immediato - dato che, da ogni parte, un
sempre maggior numero di navi e aerei militari transita attraverso le
acque contese, per cercare di dimostrare il proprio diritto - è una
collisione accidentale o, anche, un conflitto. La questione
fondamentale, però, verte sul se le superpotenze dovrebbero davvero
rispettare le regole.
La Cina è, per molti aspetti, un grande difensore
della legge internazionale e dell’uso di organizzazioni multilaterali
per disinnescare le tensioni - tranne quando tale legge entra in
conflitto con i propri interessi. La Cina ha sottoscritto la Convenzione
delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Unclos), che ironicamente è
la base di molte delle rivendicazioni territoriali fatte contro di essa
da altri Paesi asiatici. Semplicemente la Cina decide di ignorare
l’Unclos quando le serve.
La difficoltà per la nuova presa di posizione
«di principio» dell’America in Asia è che questo è esattamente il modo
in cui anche gli Stati Uniti operano. Gli Stati Uniti non hanno
ratificato l’Unclos. E per decenni hanno trattato il diritto
internazionale come qualcosa che si applica agli altri Paesi. Quello che
stiamo vedendo in Asia è che la Cina aspira a comportarsi nello stesso
modo. La Cina vuole essere come l’America, sotto questo e altri
aspetti.
Probabilmente è una fortuna che la Corea del Nord rappresenti
un grosso problema di sicurezza per la regione tanto per la Cina come
per gli Stati Uniti. Possono non essere d’accordo su tutto, ma è chiaro
ad entrambi che avrebbero preferito che la Corea del Nord non avesse
armi nucleari. Questo è almeno un principio che possono condividere. E
la necessità di cooperare nel trattare con la Corea del Nord ha fornito,
per quanto strano possa sembrare, l’unica ragione di ottimismo al
Shangri-La Dialogue di quest’anno. Non che qualcuno sappia quale
potrebbe essere la soluzione. Ma sono d’accordo sul problema.
Traduzione
di Carla Reschia
Repubblica 5.6.16
Riscrivere la Storia
Come le democrazie illiberali usano la cultura e il passato per legittimarsi
Da Putin a Erdogan, dalla Polonia all’Ungheria. Ma è l’India di Modi
il caso esemplare di un utilizzo strumentale della tradizione per
finalità identitarie
di Roberto Toscano
Uno dei fenomeni che caratterizzano il nostro tempo è quello dell’onda
montante delle “democrazie illiberali” — democrazie perché i governi si
basano sul consenso elettorale; illiberali perché una volta conquistato
il potere lo gestiscono senza rispetto per le minoranze, la libertà di
stampa, lo stato di diritto. Quello che le accomuna è la ricerca di una
legittimazione sul terreno della cultura e della storia: Putin solleva
le icone della Santa Russia ed esalta i valori conservatori di un popolo
chiamato a contrapporre quei sani valori alla modernità corrotta
dell’Occidente; Erdogan, novello sultano, rievoca le glorie ottomane e
promuove sistematicamente un’identità turca in cui religione e nazione
si fondono. E si potrebbe continuare con il caso della Polonia e
dell’Ungheria, impegnate in una rilettura identitaria della storia.
È vero anche nell’India del primo ministro Modi, dove sono in corso
“battaglie culturali” che riguardano soprattutto la definizione
dell’identità indiana, che il governo del Bjp pretende di far coincidere
con l’identità indù. Si tratta di un’offensiva ideologica
particolarmente pericolosa nella misura in cui mira alle radici stesse
della democrazia indiana nata sulla base di principi di pluralismo anche
religioso — gli unici che possano permettere la convivenza in un paese
così immenso e così straordinariamente diverso.
Alla base di questa ideologia e di questo progetto politico troviamo una
precisa (e distorta) visione della storia dell’India. In questa visione
la civiltà indù viene descritta non solo come antichissima, ma come
omogenea e avanzatissima. Intellettuali organici al Bjp non hanno remore
nel pubblicare demenziali libri e articoli su viaggi spaziali e
chirurgia estetica che la superiore civiltà indù sarebbe stata capace di
realizzare qualche migliaia di anni fa. Secondo questa “storia
ufficiale” questa età dell’oro venne interrotta dall’arrivo di feroci (e
inferiori) invasori. Per primi i musulmani seguiti, secoli dopo, dai
britannici. In un recente discorso Modi ha detto che non bastava
ricordare i «200 anni di schiavitù» patiti dall’India sotto il dominio
coloniale inglese, ma anche i «1.200 anni di schiavitù», quelli del
dominio musulmano. Emerge qui un cruciale nesso con la questione
religiosa. È da questa schiavitù, prodotto di conquiste e oppressione,
che viene fatta dipendere la presenza in India di milioni di musulmani e
cristiani, strappati con la violenza alla religione indù. Storia
ideologizzata, e come tale facilmente contestabile. Infatti, se è vero
che l’arrivo in India di islam e cristianesimo è legato alla conquista
musulmana e al colonialismo britannico, è falso che la conversione di
milioni di indù sia stata di natura forzosa. In realtà sia nel caso
dell’islam che del cristianesimo l’adesione alle religioni “importate”
dipese essenzialmente dall’aspirazione — da parte di numerosissimi
appartenenti alle caste inferiori, e ancora di più ai “fuori casta”, gli
intoccabili o Dalit — ad abbandonare una religione che li considerava
esseri inferiori, umiliati ed esclusi. Le conversioni, quindi, si
spiegano con la forza del messaggio ugualitario che caratterizza sia
islam che cristianesimo.
Proprio questa teoria della conversione forzata spiega la peculiare
linea di condotta del fondamentalismo indù nei confronti della questione
religiosa, una linea radicalmente opposta a quella dei fondamentalisti
islamici, con cui pure coincidono per molti altri versi, a partire dal
ricorso alla violenza in nome della religione. I radicali musulmani —
oggi egemonizzati dal wahabismo promosso e finanziato dai sauditi — sono
definiti takfiri (quelli che escludono, dividono) in quanto si arrogano
il diritto di dire chi è vero musulmano e chi invece è apostata
mascherato o eretico. I radicali indù, invece, vogliono includere. Per
loro, tutti gli indiani, anche quelli di altre religioni, sono in realtà
indù, e dovrebbero essere richiamati alla casa comune. Si chiama
infatti “ritorno a casa” la campagna condotta per promuovere le
ri-conversioni all’induismo.
Un progetto esclusivo che prende di mira il pluralismo religioso
dell’India come una patologia da curare, una violenza da invertire, e
che si estende anche a religioni che, avendo avuto origine dall’induismo
(i Buddisti, i Sikh, i Jain)gli ideologi contemporanei dell’induismo
tendono — indifferenti alle loro obiezioni — a considerare come
appartenenti al grande alveo dell’induismo.
Ma perché non immaginare che questa confluenza possa ricostruire quella
“galassia indù” capace di comprendere tante tendenze quante divinità, e
tanti riti e interpretazioni quante le lingue del subcontinente? In
fondo era questo l’induismo originale: “induismo” è un termine non-indù
inventato dai conquistatori musulmani per dare un senso a un fenomeno
estremamente plurale, senza una teologia, con un’etica complessa e
sempre aperta alla controversia, senza una liturgia unificata.
Abbracciare tutti per ricreare all’interno di un unico alveo una
pluralità di correnti: perché no? Ma che il pan-induismo pluralista sia
un’utopia lo rivelano vari fattori.
In primo luogo, i metodi con cui viene perseguito sono l’opposto del
pluralismo. L’Rss, il movimento dal quale proviene Modi, è un organismo i
cui dirigenti, fin dalla fondazione, non hanno nascosto le simpatie per
il fascismo italiano e poi per il nazismo. Non solo: esso si struttura
nella società in una serie di organizzazioni di militanti, dal Vhp,
fronte induista internazionale (con un forte appoggio nella diaspora
indiana) al Bajrang Dal, un gruppo squadrista in prima fila nelle
violenze settarie.
Vi sono poi clamorosi episodi d’intolleranza, come la distruzione della
Babri Masjid, la moschea del ‘500 rasa al suolo a colpi di martello nel
1992 da decine di migliaia attivisti capeggiati da dirigenti Rss e Bjp
e, molto più atroce, il pogrom di Ahmedabad, in Gujarat, quando
centinaia di musulmani vennero trucidati con la passività e
probabilmente la connivenza del governo locale, capeggiato da Narendra
Modi. Senza contare lo stillicidio di episodi locali, come il linciaggio
di un musulmano accusato di conservare nel frigorifero carne bovina, la
cui macellazione e consumo è oggetto di proibizione (alla faccia della
tolleranza) in alcuni stati della federazione indiana — una proibizione
che l’attuale governo intende estendere a tutto il paese.
La minaccia al pluralismo che è il nucleo essenziale della straordinaria
ricchezza e dello straordinario fascino della civiltà indiana si
estende al piano culturale. Si registrano infatti numerosi episodi di
epurazione ideologica ai vertici di organismi dello stato e della
società civile, dove qualificatissimi esponenti del mondo accademico e
intellettuale vengono sostituiti da ideologi nazional- induisti.
La censura, e ancora più frequentemente l’auto-censura di fronte alle
pressioni del potere, colpisce la produzione di saggi “sgraditi”
soprattutto in materia di religione e storia dell’India. La più grande
studiosa della storia antica dell’India, Romila Thapar, è oggetto di
attacchi per i suoi lavori e per la sua critica serrata a quella che
definisce «l’intepretazione settaria della storia» promossa dall’attuale
governo, che sta anche rivedendo in senso nazional-induista (come del
resto aveva iniziato a fare il governo Bjp in carica nel 2002) i libri
di testo scolastici.
Non mancano gli attacchi ai più qualificati studiosi stranieri di
induismo e sanscrito. È successo a Wendy Doniger, dell’Università di
Chicago. Il suo libro The Hindus è stato ritirato dalla vendita e
mandato al macero dalla Penguin India, timorosa delle possibili violenze
dei fondamentalisti indù, che avevano denunciato un’analisi “sacrilega”
(la studiosa utilizza anche strumenti psicanalitici per interpretare i
testi sacri indù).
È uno scontro sempre più duro da cui dipenderà lo stesso futuro
dell’India, un paese che potrà realizzare tutto il suo straordinario
potenziale in termini di crescita e peso internazionale solo se saprà
preservare quegli ideali e quel progetto di democrazia plurale e di
religiosità non settaria che fu proprio del mahatma Gandhi. In India, e
non solo in India, i veri patrioti non sono i nazionalisti, tanto meno
quelli che basano i propri disegni autoritari su un’interpretazione
integrista e settaria della religione.
Repubblica 5.6.16
Un morbo si diffonde in tutto il pianeta dai manuali ai musei
di Simonetta Fiori
A Danzica il memoriale della Seconda guerra mondiale deve celebrare solo
la Polonia. Ma anche in Italia si sono avviate revisioni a scopo
politico
Nel cuore dell’Europa la riscrittura della storia ha la forma di una
gru. A Danzica, simbolicamente sospesa su un edificio di mattoni rossi.
Se il governo conservatore di Varsavia non cambierà idea, presto
potrebbero essere prelevati dall’enorme palazzo un carrarmato tedesco,
un altro sovietico e una locomotiva tedesca. Il museo della seconda
guerra mondiale non s’ha da fare. Troppo globale e troppo poco polacco,
ha sentenziato il primo ministro di Diritto e Giustizia. E la comunità
internazionale degli storici è scesa nella piazza elettronica per
manifestare disappunto: «È in gioco il rapporto con la storia. E quindi
con la democrazia».
Ma prima di vedere cosa si nasconda dietro la gru di Danzica, simbolo
del nazionalismo storiografico sempre più aggressivo nell’Europa
centro-orientale, va detto che la riscrittura della storia è un
esercizio molto diffuso, a ogni latitudine e sotto qualsiasi regime.
Neppure le democrazie più illuminate ne sono immuni, come dimostrava
qualche anno fa un documentato saggio di Giuliano Procacci sui manuali
di storia: anche nella liberalissima Europa regole e protocolli marcano
stretto l’autore dei libri di testo. E più lo Stato è di recente
formazione, più forte è l’assillo identitario che porta a “reinventare
la tradizione”, per usare una felice formula di Hobsbawm.
Nessuno quindi si può dichiarare innocente, naturalmente con diversi
gradi di colpevolezza. Anche noi nel nostro piccolo abbiamo vissuto il
brivido revisionista, con la Padania benedetta da Bossi, i manuali
minacciati da Storace e il revanscismo borbonico di qualche studioso
meridionale. Ma sembrano storie minute e lontane rispetto a ben altre
guerre tra manuali come quella tuttora in corso tra Cina e Giappone. E
se i libri di testo giapponesi liquidano come un incidente senza vittime
il cosiddetto “stupro di Nanchino” (l’invasione nipponica dell’allora
capitale cinese, 300 mila morti nel 1937), la parata celebrata l’estate
scorsa a Pechino per i settant’anni dalla vittoria s’è svolta nel segno
di omissioni e falsità, con la cacciata di Chiang Kai-shek dalla storia e
onori resi solo al resistente Mao Zedong.
Oggi il fervore di riscrittura storica sembra animarsi soprattutto
nell’Europa illiberale, tra Russia, Ungheria e Polonia, energicamente
impegnate a ridefinire la loro carta d’identità. La tecnica è quasi
sempre la stessa, minimizzare le nefandezze di casa propria per
enfatizzare quelle degli altri. E spesso l’oggetto di revisione è la
seconda guerra mondiale, da cui è scaturito il successivo ordine
europeo. Sotto il severo controllo di Putin, la manualistica
nazionalista tende a riabilitare Stalin come pezzo importante della
grande storia russa, edulcorando gli orrori dei gulag e della
repressione. Mentre in Ungheria il governo reazionario di Viktor Orban
tende ad attribuire la vergogna delle persecuzioni antisemite alla sola
Germania nazista, dimenticando la complicità del nazionalista Miklos
Horthy, proprio quell’antenato che viene spesso annoverato nel Pantheon
nazionale.
Il caso più interessante va però cercato a Danzica, dove il governo di
Beata Szydlo ha bloccato la realizzazione del museo della seconda guerra
mondiale, il più grande mai costruito prima, con il sostegno di una
équipe internazionale che vi ha lavorato per otto anni. Finalmente il
racconto del conflitto più devastante non più con uno sguardo nazionale
ma secondo una prospettiva comparativa e globale. Forse un progetto
troppo ambizioso per un esecutivo che agita la bandiera identitaria,
tanto da lamentare la mancanza di “un punto di vista polacco”. Cosa
voglia dire non è chiaro. È chiaro però che al posto del nuovo museo
globale, praticamente già pronto, sorgerà un allestimento incentrato
esclusivamente su una battaglia patriottica di resistenza ai tedeschi.
In altre parole, solo medaglie e nient’altro.
Perché il caso ha sollevato proteste autorevoli e un lungo articolo
dello storico Timothy Snyder sulla New York Review of Books? Il nuovo
approccio del museo di Danzica avrebbe messo fine alla presunzione
d’innocenza, avanzata dalla Polonia ma condivisa da molti altri. Non
esistono paesi colpevoli e paesi innocenti, ammonisce l’autore di
Terre di sangue. Anche la Polonia, pur vittima di due devastanti
occupazioni di segno opposto, nazista e stalinista, si rese responsabile
di un eccidio come il pogrom di Jedwabne. Furono i cittadini polacchi,
non i soldati tedeschi, a uccidere diverse centinaia e forse migliaia di
ebrei. Un capitolo poco nobile tra molti altri di grande eroismo. Ma
questa perdita d’innocenza alla premier polacca non piace, perché spezza
l’incantesimo che divide l’Europa e il mondo in comunità carnefici e
comunità vittime, giustificando risentimenti e rivendicazioni
nazionalistiche. La gru di Danzica minaccia non solo una prospettiva
storica ma anche il modo di guardare oggi all’Europa e alla democrazia.
Anche per questo, dicono gli storici, bisognerebbe fermarla.
Repubblica 5.6.16
L’ultima lezione di Oliver Sacks
di Piergiorgio Odifreddi
È appena uscito Gratitudine di Oliver Sacks, che raccoglie quattro
articoli scritti per il New York Times dal poeta- scienziato negli
ultimi due anni della sua vita. Nel primo gioisce per il suo 80°
compleanno, all’insegna del mercurio: l’80° elemento della tavola
periodica di Mendeleev, appunto. Sacks amava la chimica, come i lettori
di Zio Tungsteno ricorderanno, e agli amici regalava per i compleanni
campioni dell’elemento corrispondente ai loro anni.
Gli ultimi tre articoli sono invece successivi al compleanno al piombo,
l’82°. Sacks racconta in diretta i suoi ultimi mesi di vita, dopo la
scoperta della recrudescenza di un cancro che l’aveva reso cieco da un
occhio, ma gli aveva concesso un decennio di tregua. Teme di non vedere
il suo compleanno al bismuto, l’83°, come effettivamente sarà, ma
esprime la propria gratitudine nei confronti della vita: la stessa che
dà il titolo al suo ultimo libriccino. Che è un vero testamento
spirituale, perché i tre articoli di commiato dal mondo e dai suoi
lettori sono pieni di saggezza e vuoti di retorica. Sacks sa che dopo la
morte non ci sarà niente, e l’affronta con un misto di paura e di
tristezza per quello che non sarà più, da un lato, ma anche di gioia e
di riconoscenza per quello che è stato, dall’altro. E ci offre una vera
lezione di vita e di morte, a futura memoria per quando il nostro tempo
verrà.
Repubblica 5.6.16
Grande fisico o spia, il mistero della vita di Bruno Pontecorvo
di Simonetta Fiori
Ci sono biografie che non si risolvono mai del tutto. Troppo complesse,
ricche di zone d’ombra, misteriose per destino o vocazione. Storie
enigmatiche che non hanno mai fine. Una di queste appartiene a Bruno
Pontecorvo, uno dei più geniali scienziati italiani la cui esistenza fu
spezzata in due: la prima parte vissuta negli avamposti della fisica
nucleare, con ricerche in America e Gran Bretagna; la seconda più oscura
ed enigmatica, trascorsa in Unione Sovietica nel segno della devozione
comunista. Un prima e un dopo separati da una data — 1950 — con la
scomparsa improvvisa del trentasettenne Pontecorvo durante un campeggio
in Italia. Di lui il mondo avrebbe avuto notizia solo sei anni più
tardi: da Mosca, con la nuova identità di Bruno Maksimovic Pontekorvo.
Un’intricata vicenda degna di Graham Green anche perché tutta interna
alla guerra fredda e agli intrighi spionistici degli anni Cinquanta.
Tuttora i documenti dell’Fbi che lo riguardano sono in gran parte
cancellati con l’inchiostro nero. Questo spiega anche l’instancabile
ricerca intorno alla sua persona, con la nuova uscita di una biografia
anglosassone che di fatto riapre il caso Pontecorvo, senza però
approdare a conclusioni certe. Dopo il bel ritratto di Miriam Mafai e il
documentato saggio di Simone Turchetti, l’inedita ricerca di Frank
Close si annuncia interessante anche perché l’autore è un fisico, un
professore di Oxford, che ha cominciato a occuparsi dello studioso
italiano sotto il profilo scientifico. Ed è lo stesso Close a chiarire
fin da principio che, rispetto agli altri protagonisti della saga
spionistica, Pontecorvo era l’unico che aveva i requisiti per diventare
famoso, a prescindere dal sospetto di essere un agente di Stalin. E se
non si fosse ritirato in Urss, il suo lavoro sarebbe stato premiato con
il Nobel. Ma certo l’accusa di essere «la seconda spia più letale della
storia» — avanzata dal congresso americano — rende la sua vicenda più
romanzesca.
Contro Pontecorvo non è stata mai prodotta nessuna prova: niente e
nessuno, né l’Fbi né l’MI5, hanno mai documentato il passaggio di
segreti atomici ai sovietici. Ma Close non esclude che lo scienziato
possa essere stato ingaggiato dal Kgb. E successivamente sia stato
proprio il regime sovietico a sottoporlo a ricatto e poi a una
prolungata prigionia. Quanto alla rocambolesca fuga, varie testimonianze
conducono al ruolo chiave di Emilio Sereni. «Ed è difficile sostenere
che Bruno abbia agito così precipitosamente pur essendo del tutto
innocente », chiosa il biografo. Ma l’aspetto che sembra prevalere nel
libro è la tragedia umana dello scienziato comunista, ricostruita anche
grazie alla testimonianza del figlio Gil e della sorella Anna e grazie
ai diari di Marianne, la moglie svedese che più di tutti patì il
trasferimento a Mosca. «Voglio morire da grande scienziato, non come una
vostra fottuta spia», furono le ultime parole dette da Pontecorvo a un
funzionario russo poco prima di morire, nel 1993. L’Unione Sovietica non
c’era più, ma la sua vita ormai definitivamente segnata.
Una vita divisa in due. La storia di Bruno Pontecorvo, fisico o spia, a fine mese in libreria da Einaudi.
Repubblica 5.6.16
“Siate convinti” la grande lezione di Wittgenstein
di Franco Marcoaldi
Sottoposti ogni giorno alle più diverse e contrastanti sollecitazioni,
facciamo sempre più fatica a orientarci. Il rischio di seguire
passivamente l’onda prevalente, è alto. Come uscire dalla stretta,
riscoprendo quella libertà interiore e di giudizio che sola dovrebbe
guidare le nostre decisioni? Forse può aiutarci Ludwig Wittengestein —
proprio lui, il famoso filosofo — la cui storia compare in un bel libro
di ritratti di Giuseppe Marcenaro (Daguerréotype, Aragno). Rampollo di
una delle più ricche e influenti famiglie viennesi, Ludwig non aveva
paura delle scelte radicali, anzi ne sembrava attratto. Si liberò
progressivamente dell’immensa eredità, intraprendendo via via i mestieri
più diversi: ingegnere aereonautico, maestro di scuola elementare,
aiuto giardiniere, professore a Cambridge. E la domanda era sempre la
stessa: «Tu sai ciò che devi fare per vivere felice. Perché allora non
lo fai? Perché sei irragionevole? Una vita cattiva è una vita
irragionevole». Angustiato da vertiginosi problemi logici ed etici, ogni
volta Wittgenstein ripartiva da capo, in cerca della “parola
liberatrice”. Si dirà: ma qui stiamo parlando di un genio, un pazzo,
forse un santo. Che c’entra con noi, comuni mortali? In difficoltà a
trovare una strada tutta nostra nell’intricata selva contemporanea?
C’entra eccome, perché la sua vicenda ci costringe a tornare su una
parola non più tanto di moda: “convinzione”. Quando si seguono le
proprie convinzioni, il prezzo da pagare può essere salato. Però, che
bello liberarsi da inutili pastoie con la sensazione di aver fatto la
cosa giusta. Non si spiegherebbero altrimenti le ultime parole di
Wittgenstein, che malgrado gli infiniti strappi, a chi gli stava vicino
ordinò: «Dite che ho avuto una vita bellissima».
La Stampa 5.6.16
Occidente e Oriente. A ognuno la sua guerra
Dalle frecce dei Parti alle tattiche criminali dell’Isis, tra Est e
Ovest la concezione del combattimento diverge dall’inizio della storia
Per noi la gloria dopo il duello, per loro la vittoria grazie all’astuzia
di Antonio Scurati
Si potrà magari contestare che si tratti di uno scontro di civiltà, ma una cosa è certamente innegabile.
La lotta mortale tra Isis e Occidente manifesta una guerra tra due culture, e in particolare tra due culture della guerra.
Ogni volta che in cronaca leggiamo di un agguato terroristico in Europa,
o di un ribaltamento di fronte lungo l’Eufrate, leggiamo di una vicenda
storica millenaria che giunge al muro del tempo. La sua origine si può
far risalire al 12 settembre del 490 a. C., nel momento in cui sulla
piana di Maratona gli ateniesi, usciti dalla propria città per
difenderla dagli invasori persiani, sebbene meno numerosi e pesantemente
armati, entrati nel raggio di tiro degli arcieri, decidono di attaccare
lo schieramento del terribile nemico a passo di corsa (dròmoi). In
quella carica a perdifiato di uomini inferiori in numero, sfiancati,
privi di arcieri e cavalieri, gli aggressori persiani – scrive Erodoto –
videro il segno certo della follia e del destino di morte; il panico si
propagò, invece, nelle loro file. Il cozzo micidiale e la disciplina
della falange oplitica fecero il resto. Rimasero sul campo più di 6000
persiani e solo 192 fanti ateniesi. Il secolo d’oro della civiltà greca
poteva avere inizio.
Gloria solare
Ma già quella splendida carica riecheggiava una storia plurisecolare. La
cultura marziale degli opliti ateniesi era figlia dell’epica omerica la
cui autorità aveva stabilito il paradigma della guerra come monomachia,
duello risolutivo all’ultimo sangue tra due campioni appiedati che si
battono all’arma bianca e a viso aperto in uno scontro frontale di
violenza letale sotto gli occhi dei testimoni e dei posteri risaltando
sul fondo della mischia dove si uccide e si muore oscuramente. Da
allora, presso i guerrieri d’Occidente, la gloria è sempre stata una
qualità della luce, l’acme zenitale del suo splendore, dove tutto
accade, una volta e per tutte, nella pienezza di un chiarore meridiano.
Da allora l’Occidente pensa, rappresenta e narra la battaglia come un
duello su vasta scala – secondo la celebre definizione di Von Clausewitz
– e la guerra come una collezione di battaglie. Da allora l’Occidente
si attiene a una cultura militare che predica – e spesso pratica – la
ricerca della battaglia in campo aperto come urto violentissimo di
masse, cozzo micidiale, carica a fondo, attacco distruttore e risolutivo
che conferisca alla guerra la virtù di essere «decisiva», dispositivo
capace di risolvere i conflitti in modo inappellabile, senza sistemi di
valutazione tracciati dall’esterno, decretando in modo inequivocabile e
inappellabile un vincitore e un vinto. Da allora l’Occidente si
contrappone ideologicamente all’Oriente pensato come culla di una
cultura marziale che, all’opposto, predica e pratica la violenza
ingloriosa, la tattica dilatoria, l’attacco fraudolento, il rifiuto
dello scontro frontale in campo aperto, la disonorevole attitudine a
manovrare onde sottrarsi ai colpi del nemico nella linea della battaglia
per guadagnare un altro giorno e poter combattere ancora.
Alessandro
La storia millenaria delle guerre tra Occidente e Oriente fornisce anche
nella prassi militare ripetute conferme di questo schema ideologico.
Nel 331 a. C. Alessandro Magno schianta gli achemenidi guidando
personalmente la carica decisiva dei suoi migliori cavalieri (hetâiroi)
contro il centro dello schieramento nemico nel punto preciso in cui si
trova Dario, re dei persiani. Nel 53 a. C. il disastro di Carre – che
segna il punto di massima espansione a Oriente dell’impero romano – fu
determinato dalla cavalleria leggera dei Parti che, dopo aver provocato
l’attacco con un tiro a distanza, si ritirò di fronte all’assalto dei
quadrati nemici continuando, però, a bersagliarli con frecce scoccate
cavalcando voltati all’indietro. Da quel momento «la freccia del Parto»
diviene per gli occidentali proverbiale di comportamento guerriero
fraudolento e inglorioso.
La giornata del destino
E ancora: a Poitiers Carlo Martello riesce a fermare l’espansione degli
arabi in Europa perché impone ai suoi fanti di attendere i cavalieri
berberi a piè fermo per il corpo a corpo, evitando così la trappola
della tattica evasiva musulmana dell’«al-qarr wa al-farr», cioè
dell’attacco seguito da una programmata ritirata, mirante a illudere
l’avversario, per poi portare un improvviso e inatteso nuovo attacco. E
ancora: la gloria di Lepanto entra nella leggenda di Venezia non tanto
perché sia stata effettivamente decisiva nel confronto tra Europa
cristiana e Impero Ottomano ma perché sembra incarnare,
deterritorializzata in mare, l’idea archetipica per la cultura
occidentale di «decisive warfare», di battaglia campale come «giornata
del destino».
E’ una storia che dura ancora. Si prolunga ogni volta che sul suolo
europeo un terrorista islamizzato emerge dalla oscurità ingloriosa per
massacrare vigliaccamente civili inermi. Si prolunga nella nostra
reazione di sconcerto verso la violenza contro la quale siamo
personalmente inetti e, soprattutto, verso il suo carattere ai nostri
occhi ciechi scandalosamente fraudolento. E si prolunga in Medio Oriente
nella nuova tattica che il Califfato sta attuando dopo le recenti
sconfitte militari: costruire una rete di alleanze nascoste sfruttando
un principio antico del mondo musulmano – il «moubaya’a», la fedeltà
data in segreto –, un principio che arriva dalla dottrina della «taqiya
wal ketman», l’arte della dissimulazione e del sapersi mimetizzare.
La rappresentazione
Le culture marziali devono, senz’altro, molto a nuclei ideologici che
talvolta mistificano la realtà ma è altrettanto vero che le
rappresentazioni culturali della guerra non sono un mero fenomeno
derivato, secondario rispetto al loro oggetto. Spesso lo
precostituiscono e determinano. La storia sta a dimostrarlo. La cieca
fedeltà a se stessa della cultura bellica occidentale ha indubbiamente
causato enormi errori strategici, politici ed etici nei recenti
conflitti con il mondo arabo-musulmano, ma continuare a ingannarci sui
nostri nemici sarebbe un errore ancora più grande.
Corriere.it 5.6.16
«La trappola del romanticismo»
La tesi del filosofo e scrittore Alain de Botton: definiamo l’amore
meraviglioso o disastroso. Invece va pensato come una cosa normale
intervista di Serena Danna
«Perché si possa cominciare ad ammirare il gambo di una rosa o i petali
di una primula, bisogna che certe cose siano andate irrimediabilmente
male». Ventitrè anni dopo Esercizi d’amore , Alain de Botton — il
filosofo prestato al self-help — torna con un romanzo che vale più di
dieci sedute di terapia di coppia. Il corso dell’amore (in uscita per
Guanda a settembre)è l a storia di Rabih e Kirsten, entrambi architetti:
lui di origini libanesi, lei scozzese. Da un lato, un passato di
guerra, paura della miseria e idealizzazione della madre; dall’altro,
padre assente, determinazione nello studio, cuore chiuso in cassaforte.
Con una formula che incrocia i frammenti amorosi di Roland Barthes e i
casi clinici di Sigmund Freud, de Botton esplora la loro relazione per
restituire verità sui meccanismi che legano gli amanti. Perché il
presupposto — confessa il filosofo al telefono da Londra — è che quando
si tratta di amore ci riempiono la testa di bugie.
«La narrativa sui sentimenti si muove tra due estremi: la meraviglia e
il disastro», spiega l’intellettuale, 46 anni, un matrimonio, due figli e
13 best seller all’attivo. Si racconta troppo l’inizio e la fine,
tralasciando tutto il resto. Lui invece vuole «esplorare la via di mezzo
tra le giornate di sole e il tutto-grigio».
Nella chirurgia sentimentale di de Botton la costruzione dei personaggi
rispecchia l’odierna confusione dei ruoli. Rachel — sicura di sé,
centrata — è la «breadwinner», il pilastro economico e organizzativo
della famiglia; Rahid è insicuro, spesso insoddisfatto, irrisolto.
«È difficile definire chi detiene il potere nella coppia. Di certo la
mascolinità è molto più fragile di quello che impone la società e questo
si rivela principalmente nella coppia». Un presagio? Non proprio,
piuttosto un segnale di libertà: «Solo in amore possiamo esplorare la
nostra complessità mostrandoci per quello che siamo, molto più di quanto
faremmo con colleghi o amici».
Peccato che la principale eguaglianza raggiunta nelle coppie
contemporanee riguardi la sofferenza: «Gli uomini credono di fare per la
famiglia cose che mai i loro padri avrebbero fatto. Così anche le
donne, che a differenza delle loro madri hanno enormi responsabilità
fuori dalla famiglia». Rabih e Rachel sono segretamente convinti di fare
più dell’altro e di essere molto trascurati dal partner. Rabih e Rachel
non comunicano. Rabih e Rachel siamo noi: «Non sappiamo dialogare né
tanto meno spiegare noi stessi in un modo che non faccia arrabbiare il
partner — illustra de Botton— , un po’ perché siamo pigri ma anche
perché non capiamo noi stessi innanzitutto».
Nessuno pretende perfezione dall’amato: «Chi ama vuole solo che l’altro
sappia dire cosa sente davvero». De Botton è una specialista degli
esempi: «Lui/lei torna a casa dopo una giornata di lavoro orribile.
Invece di fare ciò che è giusto, ovvero dire “ho avuto una giornata
terribile, ti amo ma ho bisogno di stare solo/a”, si nasconde nel
giornale o nel cellulare. A quel punto, lei/lui comincerà a chiedere
cosa succede». Quei silenzi possono avere effetti devastanti sulla
psiche degli innamorati: sta male? Mi ama di meno? Ha un altro?
Patemi che derivano, secondo il filosofo, dalla grande truffa dell’amore
romantico. Quella che all’apparenza sembra una conquista della società è
in realtà una condanna: «Per secoli le ragioni che hanno guidato la
scelta del partner sono state pratiche e razionali: un’ascesa economica o
sociale, ad esempio. Solo negli ultimi decenni hanno preso il
sopravvento l’istinto e i sentimenti, un passaggio pericoloso».
Il batticuore, l’sms notturno, la sintonia perfetta dei primi tempi
hanno fatto un grande caos: «La cultura del dating fa sì che saltelliamo
da una relazione all’altra alla ricerca della persona giusta, e quando
l’abbiamo trovata pretendiamo che tutto funzioni alla perfezione
spaventandoci davanti agli ostacoli». Tocca rassegnarsi, avverte il
filosofo, la persona giusta non esiste: «Ogni persona è sbagliata e sarà
parecchio difficile vivere con lei». Internet ha aggravato la
situazione moltiplicando all’infinito il bacino delle false speranze:
«Fa credere che il segreto stia nella ricerca mentre io suggerisco di
convivere bene con la scelta che hai fatto». Anche sul tradimento il
filosofo sfodera un brutale pragmatismo: l’istinto ci porta naturalmente
a desiderare altre persone, ma la paura di restare soli ci tiene legati
alla monogamia. «L’amore libero non funziona: è distruttivo per la
famiglia e per almeno uno dei due. Allo stesso modo il rischio della
fedeltà è la noia». Quindi? «Bisogna scegliere la sofferenza più adatta a
noi e imparare a gestirla».
De Botton è consapevole di sembrare pessimista: «Ma il pessimismo —
assicura — è il migliore amico dell’amore: dobbiamo sapere che il dolore
e il conflitto sono la normalità, non l’eccezione».
Dopo le batoste, arrivano i consigli. Il primo: «Recuperare la visione
cristiana dell’amore. Se accetti davvero l’amore, puoi amare chiunque,
anche prostitute e ladri. Il vero obiettivo della coppia è dunque
trovare continuamente nel partner cose da amare». L’altra lezione
proviene dal nostro rapporto con i bambini: «Siamo capaci di grande
generosità con loro, disposti a perdonare qualsiasi cosa, sempre alla
ricerca di una giustificazione: un dentino che duole, mancanza di sonno.
Quando si tratta di adulti tutta la nostra tolleranza svanisce». Che
poi non vale solo con i figli. Siamo pronti a grandi mediazioni per
tutte le sfere dell’esistenza — geopolitica, finanza, crimini — ma
incapaci di applicare una briciola di compromesso alle nostre relazioni.
A complicare le cose si mette il sesso. Soprattutto quando si diventa
genitori: «È molto difficile coniugare l’identità genitoriale con quella
sessuale», avverte.
In un passaggio del libro, Rabih è a disagio nel pretendere performance
animalesche dalla stessa donna che la mattina dopo dovrà portare a
scuola i bimbi, fare la spesa e rassicurarlo per un progetto.
«L’eccitazione sessuale — spiega il filosofo — è un viaggio dalla
condizione di sconosciuto a quella di conosciuto. Per questo è
importante ricreare sempre con il partner condizioni che ci ricordino
distanza e mistero». Che il vuoto resti sempre un po’ vuoto insomma,
senza colmarlo con liste della spesa e promesse di amore eterno .
Corriere 5.6.16
La fine assurda di Sissi Imperatrice riluttante
risponde Sergio Romano
Non è che siano alte le probabilità che lei mi offre dato che la conosco
come un convinto maschilista. Ma ci provo. Avevo sempre avuto pena per
Sissi imperatrice d’Austria sposata con Francesco Giuseppe uccisa da
Luccheni con un punteruolo. I film interpretati da Romy Schneider sono
serviti a crearne una icona. La sua vita fu molto travagliata ed
infelice anche a prescindere dal suicidio del figlio Rodolfo. Una
lettura del libro Francesco Giuseppe di Franz Herre mi ha fatto
riflettere. L’autore è impietoso verso di lei, che viene dipinta come
fatua ed irresponsabile; anche se non esplicitamente parrebbe che avesse
cornificato il povero Franz Josef con Andrassy. Potrebbe fare la grazia
di affrontare questo caso umano?
Franca Piccinini
Cara Signora,
Non credo che il femminismo, oggi, scenderebbe in campo per difendere la
memoria di Elisabetta di Wittelsbach, consorte di Francesco Giuseppe,
imperatore d’Austria e re d’Ungheria. Negli anni della gioventù era
straordinariamente bella e consapevole della sua bellezza. Si racconta
che a Vienna, quando la sua carrozza usciva dal Palazzo imperiale, la
folla cercasse di bloccarne il percorso per rapire uno sguardo al suo
volto. Nella cattedrale di Santo Stefano, un giorno, quando la curiosità
dei fedeli divenne morbosa e invadente, scoppiò in lacrime e fuggì
nella sacrestia. Ma non appena la bellezza cominciò a sfiorire,
Elisabetta divenne il geloso custode della sua memoria nascondendo il
volto dietro veli, ombrellini e ventagli.
Fu una imperatrice altera e ribelle. Amava Budapest più di Vienna,
evitava le grandi feste ufficiali dell’Impero, parlava delle sorti delle
monarchie con una sorta di compiaciuto pessimismo, preferiva disertare i
palazzi imperiali e vivere sullo yacht con cui navigava tra le isole
greche, o nella grande villa che aveva fatto costruire a Corfù. In
questi viaggi e soggiorni era quasi sempre accompagnata da Costantin
Chrisostomos, un intellettuale greco, piccolo e piuttosto brutto, un po’
poeta e un po’ filosofo con cui discorreva di arte e letteratura.
La sua morte fu tragicamente assurda. Era a Ginevra il 10 settembre 1898
quando il suo destino incrociò quello di un anarchico piemontese, Luigi
Luccheni, che si credeva chiamato a liberare il mondo dalle teste
coronate d’Europa ed era nella città svizzera per attentare alla vita di
un Orléans, pretendente al trono di Francia. Quando apprese che la
vittima preferita aveva modificato i suoi programmi di viaggio e che la
città ospitava l’imperatrice d’Austria, Luccheni la attese nei pressi
del lago e la colpì al petto con un lungo ago, sottile e appuntito.
Mentre la polizia si impadroniva dell’attentatore, Elisabetta, sorpresa e
sconvolta, continuò camminare per qualche decina di metri prima di
perdere i sensi. L’ago di Luccheni le aveva attraversato il cuore
lasciando sulla pelle una sola goccia di sangue. Era poco più che
cinquantenne. Così morì una imperatrice che aveva intravisto la fine
dell’Impero austriaco e che della sua preveggenza fu la prima vittima.
Corriere La Lettura 5.6.16
Martin Walser
Tra dieci anni i movimenti xenofobi saranno finiti
Sociologia, filosofia, psicologia dormono. Resta la teologia
intervista di Danilo Taino
Un po’ meno d’ansia. Nervi più saldi. Soprattutto, visione più lunga:
non dobbiamo banalmente stabilire chi ha ragione, dobbiamo riscoprire la
forza di ciò che è giusto, della Giustificazione. Martin Walser dice
che, in fondo grazie a questa forza, tra una decina d’anni nessuno si
ricorderà più della Alternative für Deutschland e dei movimenti
illiberali che attraversano l’Europa e minacciano i governi. Sono
anacronistici, non hanno futuro. Quanto a Donald Trump, vedremo il
musical.
Naturalmente, la sua non è una previsione né di destra né di sinistra.
Walser, 89 anni, considerato da molti il maggiore scrittore vivente di
lingua tedesca, negli anni è stato definito comunista e poi
nazionalista, ha suscitato polemiche sia con le battaglie contro la
guerra del Vietnam sia con l’idea di Germania postbellica che doveva
riunificarsi e non rimanere per sempre prigioniera del suo passato
tremendo. In Italia ha da poco pubblicato un libro — Sulla
giustificazione, una tentazione (Edizioni Ariele) — che afferma
l’importanza di cercare il giusto, di giustificare. Non certo questione
di destra o sinistra. Qualcosa che è più Teologia, da Agostino a san
Paolo, che Filosofia — sostiene egli stesso — e che per secoli è stato
oggetto di ricerca — di fede religiosa e di sforzo umano — e che è
andato perso nel Novecento, nelle grandi battaglie ideologiche.
L’imponente intellettuale dalle sopracciglia lunghissime e la mente
intatta — si lamenta degli anni, ma cita a memoria — vive per lo più
sulla sponda tedesca del lago di Costanza, però ha anche una casa ai
margini di Monaco. Ha dato questa intervista a «la Lettura» proprio
nella calda sala di un ristorante bavarese immerso in una vegetazione di
castagni.
Cosa pensa di Alternative für Deutschland, AfD, il partito anti-immigrati che guadagna consensi in Germania?
«Nessuno saprà, tra dieci anni, ciò che è stato. Non si deve nemmeno
condannare: è un sintomo della malattia, perché al momento siamo in una
crisi dei rifugiati che non ha una soluzione immediata. Di questo vive
la AfD. Ma è impudentemente anacronistica. Per questo non esisterà
nemmeno. Lo stesso vale per Pegida (l’altro movimento anti-immigrati
tedesco, ndr ). All’estero li si osserva di più, ma si dovrebbe tenere
in maggiore considerazione la situazione di casa, in Germania. I media
vivono di questi movimenti e così ingigantiscono il sintomo».
Non è solo un problema tedesco.
«Quello che è successo in Austria è formidabile: un Verde presidente,
anche se con solo il 51%. È una gran cosa. In Germania, il meglio di ciò
che sta succedendo avviene nel Baden-Württemberg, con il
ministro-presidente Kretschmann (anch’egli un Verde, ndr ), il politico
più plausibile per saggezza, accanto alla signora Merkel. Si dice che,
avendo scelto una musulmana come presidente del Parlamento del Land,
provocherà una reazione e una spinta verso destra. In realtà è successo
quello che accadde in America, quando si scelse un presidente nero.
Dobbiamo ammettere che si fanno progressi in questo Paese: se in passato
mi avesse chiesto della possibilità di una presidente musulmana al
Parlamento di Stoccarda, avrei risposto “magari”. Naturalmente qualcosa
del genere non è possibile in Baviera, un’altra grande nazione che però
non è di mentalità politica lieta come il Baden-Württemberg».
Vuole dire che i partiti anti-immigrati porteranno a un governo tra i cristiano-democratici e i Verdi anche a livello nazionale?
«Dipende molto dalla signora Merkel. Con un verde come Kretschmann può
farlo. Se tra i Verdi di Berlino ci fosse qualcuno come lui sarebbe
meraviglioso, ma al momento non lo vedo».
Che cosa pensa di Trump?
«Lo guardo come guardo un musical».
È un pericolo per il mondo?
«Se è un problema per il mondo, allora io non sono il mondo. Io sono
evento-dipendente. Nel momento in cui gli americani votassero per lui,
non sarebbe più un problema. Questa è la mia fiducia nella realtà
americana. Non vi è nessun altro Paese in cui la democrazia è praticata
in modo così reale. Confido nel fatto che gli americani non lo votino,
ma se lo sceglieranno vuole dire che sanno perché lo stanno facendo. Poi
si capirà di più su di lui. Per come appare in televisione non lo
voterei. Ma sarebbe interessante osservarlo una volta eletto. Non
dobbiamo dire agli altri Paesi, di cui non conosciamo la realtà, come
devono agire politicamente. Tra l’altro, in Europa non c’è alcun primo
ministro che non accetterei come alleato».
Martin Walser, però, si annoia a parlare di politica e di affari
correnti. Meglio: preferisce parlare d’altro, di qualcosa a cui pensa da
molto tempo, già prima del discorso che pronunciò alla Harvard
University il 9 novembre 2011 e che è diventato la traccia del libro
sulla Giustificazione. Il curatore del testo in italiano, Francesco
Coppellotti, sostiene che «Walser parte dall’osservare che per mille e
più anni la Giustificazione è stata un bene tanto alto quanto difficile
da raggiungere, mentre nel XX secolo questo supremo irraggiungibile
scade nell’aver ragione. L’aver ragione, il vanto degli intellettuali».
Herr Walser, perché ha voluto scrivere sulla Giustificazione?
«Come la maggior parte dei miei coetanei di pensiero e come la maggior
parte degli intellettuali — sociologi, filosofi, psicologi — mi ero
addormentato sul concetto di “avere ragione”. Tutto ciò che fai come
scrittore, come intellettuale si riduce nel “devo avere ragione”. Quanto
primitivo e semplicistico è lo sforzo di volere avere ragione! È la
cosa più ridicola che possa succedere. Ciò è entrato nel mio pensiero
nel 1979».
Cos’è successo?
«Jürgen Habermas mi aveva invitato a scrivere qualcosa per un libro nel
decimo anniversario della morte di Karl Jaspers. Ero l’unico uomo di
lettere tra filosofi, sociologi e psicologi. Ho scritto un saggio dal
titolo Stretta di mano con i fantasmi , nel quale sostenevo che la
nostra famosa opinione pubblica, ritenuta fondamento della democrazia, è
una struttura carente, molto artificiale. Chi scrive nei giornali di
sinistra deve scrivere cose di sinistra perché chi scrive nei giornali
di destra scrive cose di destra. L’opinione pubblica viene formata
nell’unilateralità. Per essere giusti, invece, occorre scrivere anche
ciò che contrasta con le proprie convinzioni. In modo che l’opinione
pubblica possa considerare i pro e i contro di una posizione e decidere.
Poi sono andato al compleanno di Habermas, a Starnberg. Mi apre la
porta, mi saluta e dice: “Hai scritto un articolo orribile”. Sapevo che
non è consuetudine scrivere qualcosa di indipendente. Non basta,
sinistra e destra vogliono avere ragione. Ma per me volere avere ragione
è sempre ridicolo. È il contrario della ricerca del giusto. Poi mi sono
imbattuto negli scritti di Karl Barth».
Un teologo? Cosa le ha fatto scoprire?
«Lo avevo già letto, mi sembrava interessante per la sua capacità di
negazione, contro l’addormentarsi nel positivo di chi vuole avere
ragione. Così, quando ho preso in mano il suo libro sull’epistola di san
Paolo ai Romani, ho capito che cosa mi mancava. Di così chiaro, fino a
quel momento per me non c’era stato nulla, se non Nietzsche. In Barth ho
trovato molto di ciò che avevo letto in Kierkegaard. In Kierkegaard c’è
la frase “il credente è l’opposto del religioso”. Concetto che torna
incessantemente anche in Karl Barth. E che si ritrova anche in
Nietzsche. Così, ora ho il mio triumvirato. Le pagine di Barth sono
state la mia esperienza di lettura più commovente da quando avevo letto
Zarathustra . Devo dire che come credente sono cresciuto».
È cattolico?
«Mia madre era una cattolica medievale pura. La sua fede era perfetta e
temeva che suo figlio avesse meno fede di lei. Ecco perché non ho ancora
lasciato la Chiesa cattolica. Può sembrare buffo, ma non avrei mai
potuto far sapere a mia madre che lasciavo la Chiesa cattolica».
Torniamo alla Giustificazione.
«Per scrivere questa apologia sulla Giustificazione ho dovuto leggere
molto. E così si è aggiunto l’aiuto di Hölderlin sul linguaggio e sul
pensiero. Nelle belle poesie di Hölderlin succede quello che succede con
Karl Barth, Kierkegaard e Nietzsche. La radicalità di Karl Barth si
basa sul fatto che domina e supera il positivo. Tutto ciò che appare
immobile, già deciso, positivo è inganno, illusione. Questo mi ha
affascinato. Da lì è arrivata anche la frase “la fede è un salto nel
vuoto”: si può conoscere Dio solo come l’inconoscibile, alla
Giustificazione è possibile arrivare solo da una mancanza di
Giustificazione. Solo coloro che rimangono in movimento, per i quali un
No è la sola speranza, possono sentirsi giustificati».
È questo che non piacque ad Habermas?
«Durante la mia gioventù, nella Repubblica federale si era capaci di
intendere e di volere solo quando si era critici della società. Per
questo Habermas era scontento del mio saggio, perché si allontanava da
questa tradizione».
Aprendo le porte della Germania ai profughi, Angela Merkel ha cercato una Giustificazione?
«Non nel senso che abbiamo trattato finora. Ma come azione politica
laica ha indubbiamente spinto i tedeschi ad accettare i rifugiati. Anche
se nel suo stesso partito ci sono cupi reazionari che vogliono
approfittare di una crisi. Per come si è sviluppata la Germania dopo la
riunificazione e per come agisce oggi, innanzitutto con Angela Merkel,
questo è il primo periodo della storia tedesca con il quale mi sento
pienamente d’accordo. Il fatto che ci siano anche questi manifestanti
tetri contro i profughi dimostra solo che la società non è mai un unicum
, qualcosa di puro. La cosa bella, però, è che da noi non hanno alcuna
chance. Ora ci sono questi due movimenti che ancora hanno un nome: tra
dieci anni nessuno saprà più cosa ci fosse collegato a essi. Non è la
prima volta, abbiamo sempre avuto proteste anacronistiche».
Quindi la Germania può salvare l’Europa?
«Ho la speranza che altre nazioni europee si comportino di più come la
Germania. Quel che Frau Merkel è per la pratica politica, Karl Barth è
per il pensiero. Non voglio vivere in un continente in cui non vi è
alcuna possibilità di discutere la Giustificazione. È abbastanza grave
che questa mancanza si veda nelle cattedre di Sociologia, di Filosofia,
di Psicologia. Resta solo la Teologia, senza la quale saremmo
probabilmente al livello della barbarie. La Teologia è l’unica
disciplina che non ha permesso che la Giustificazione si estinguesse.
Tutti gli altri dormono».
Corriere La Lettura 5.6.16
Eroica e umana. La guerra di Ernst Jünger
di Ben Pastor
«Cadrò a terra subito, come ho già visto fare a molti. È finita. Fisso
la strada e riconosco le pietre sul suo fondo giallo…». Questa citazione
è tratta dal breve romanzo di guerra che Ernst Jünger pubblicò per la
prima volta nel 1925, col titolo originale di Feuer und Blut .
Ogni scritto, si dice, appartiene al suo tempo. Ma cosa accade quando la
vita di un autore supera il secolo, e le riedizioni dei suoi lavori si
susseguono incessantemente?
Il destino del visionario, avvincente Fuoco e sangue non è separabile
dalle sue riscritture. Pubblicato originalmente come commento romanzato
sulle trincee della Grande guerra, viene rieditato l’anno dopo, e poi, a
distanza di più di mezzo secolo, nel 1978. Sono rimarchevoli la
freschezza che il testo conserva, le immagini indimenticabili che
ricordano i quadri futuristi con il loro elogio grafico della velocità, e
al contempo la precisione attonita di un ralenti cinematografico: «…un
elmetto piatto… sale in alto nell’aria, ruotando». Per contrasto, viene
in mente il romanzo anti-jüngeriano per eccellenza, Niente di nuovo sul
fronte occidentale (del cui successo planetario il pur notissimo Jünger
ebbe invidia), ma anche, à rebours , l’impressionistico antenato moderno
della prosa di guerra, Il segno rosso del coraggio di Stephen Crane,
pubblicato proprio nell’anno di nascita di Jünger, il 1895.
Quando dà alle stampe per la prima volta Fuoco e sangue , lo scrittore
tedesco, benché non iscritto al partito nazista (e mai lo sarà), scrive
già da due anni sul «Voelkischer Beobachter», l’organo del Nsdap. Il
reduce trentenne, che ha già al suo attivo due testi di successo ( Nelle
tempeste d’acciaio e Il tenente Sturm ), si augura, pur vivendo da
bohémien con la giovane moglie a Lipsia, che dopo gli stanchi giorni
della Repubblica di Weimar la dittatura sostituisca «la parola con il
gesto». L’edizione dell’anno dopo coincide con la non-uscita di un
grande romanzo annunciato ( Ferdinand Dark, il lanzichenecco e sognatore
).
Nel 1935 (terza edizione), molta acqua è passata sotto i ponti,
politicamente e personalmente: il quarantenne Jünger ha già due figli,
si risente dei critici che lo danno come «finito», è profondamente
turbato dalla fine cruenta delle SA nella «Notte dei lunghi coltelli» e
dalla mancata realizzazione da parte di Hitler della «democrazia
operaia». La Gestapo lo tiene d’occhio.
Quarantatré anni più tardi, nel ’78, esce la quarta e ultima edizione di
Fuoco e sangue . Siamo a un decennio dalla contestazione studentesca.
Jünger è ottantatreenne. Ha perso la prima moglie e l’amato primogenito
(quest’ultimo sul fronte italiano della Seconda guerra mondiale), ma in
quel lungo lasso di tempo ha anche prodotto alcuni dei diari e dei saggi
più straordinari della sua carriera, nonché della letteratura
occidentale. Qualche mese prima era morto anche il fratello Friedrich
Georg, nel trentatreesimo anniversario dell’attentato contro Hitler
(Operazione Valchiria), in cui Ernst — uomo sempre ambiguo e geniale —
aveva giocato un ruolo forse periferico negli atti, ma dominante
nell’ideologia resistenziale conservatrice.
A mio avviso, Fuoco e sangue va letto in quest’ottica cronologica, per
capirne il posto all’interno dell’opera jüngeriana. È una fortuna averne
il testo (Guanda), magistralmente reso in italiano da Alessandra
Iadicicco, a ben novantuno anni dall’edizione originale tedesca!
Si legge con gusto, rapidamente. È scorrevolissimo, ricco di immagini
vivide, di pensieri straordinariamente acuti e profondi. Va letto e
riletto, per apprezzarne appieno il valore. I topoi jüngeriani che lo
caratterizzano colpiscono al cuore i lettori: l’ansia gioiosa della
morte in battaglia, la «grandezza e purezza» dei combattenti in marcia,
la potenza titanica del «materiale», l’ebbrezza «senza vino» dei
combattenti, il cui destino non è quello di morire in un letto. Al
contempo, questa prosa elastica, sensibile, non è solo una celebrazione
marinettiana della guerra come igiene del mondo. Se è vero che a un
certo punto i ragazzi del Kaiser sentono che è il «momento giusto» e che
sono «invincibili», c’è anche la sobria considerazione che la guerra è
un mattatoio. Il micidiale cecchino inglese viene finalmente ucciso, e
la sua arma «è quasi del tutto ricoperta da una montagna splendente di
cartucce vuote. L’aria che avvolge la canna rovente ancora trema». Come
non pensare al grande tumulo funebre di Achille, violentatore di città,
visibile dal mare ai naviganti greci? E ancora: ferito gravemente, il
giovane ufficiale protagonista del racconto considera: «Cadrò a terra
subito, come ho già visto fare a molti. È finita. Fisso la strada e
riconosco le pietre…, scuri frammenti di pietra focaia e un bianco
ghiaietto levigato. In mezzo alla tremenda confusione noto ciascuna di
esse, e le loro costellazioni si imprimono nella mia mente. Non prendo
più parte all’attività assassina che si svolge intorno a me».
Dunque, la guerra è una folle celebrazione di vita, ma anche un abisso
in cui il nemico abbattuto mostra tremante la fotografia dei suoi cari
per essere risparmiato. Per chi scrive romanzi di guerra, come me, è
impossibile prescindere da Ernst Jünger, e non solo perché anche il mio
protagonista, Martin Bora, è un ufficiale tedesco (e nell’imminente I
piccoli fuochi , per Sellerio, incontrerà proprio Jünger nella Francia
del 1940). Soprattutto perché chiunque voglia conoscere i sentimenti e
le reazioni emotive e intellettuali di un soldato sotto il fuoco nemico,
nell’ansia prima dell’attacco, o nella tristezza delle notti che forse
non vedranno mattino, deve leggere Jünger. E se non l’ha ancora fatto,
conviene che inizi proprio da Fuoco e sangue .
Viviamo in tempi ciecamente violenti, che Ernst Jünger avrebbe letto con
pessimismo, sia pur moderato dalla sua fede nelle qualità rigeneratrici
della volontà e dello spirito. Fuoco e sangue , travalicando la
celebrazione estetizzante della violenza, ci ricorda il valore
imperativo della nostra umanità.
Corriere La Lettura 5.6.16
Fozio, il santo che amava eretici e pagani
di Livia Capponi
Nunzio Bianchi e Claudio Schiano, insieme a una trentina di studiosi
coordinati e diretti da Luciano Canfora, offrono per la prima volta in
1.300 pagine la traduzione italiana integrale, con testo greco a fronte e
commento, della Biblioteca del grande teologo bizantino Fozio
(820-891), «vescovo di Costantinopoli e patriarca ecumenico», come è
definito nel suo manoscritto più prezioso, il Marciano greco 450,
allestito dalla stessa cerchia di Fozio alla fine del IX secolo e
portato a Venezia dal cardinal Bessarione a metà del XV secolo.
Quello che gli umanisti definirono «un tesoro, non un libro» è un
imponente repertorio che in 280 capitoli riassume, analizza, critica e
trascrive varie centinaia di autori, profani e cristiani, dal V secolo
a.C. al IX d.C., autori spesso inesorabilmente perduti, basti pensare
che per una novantina di essi Fozio è l’unico testimone. Una prima
traduzione latina fu realizzata dal gesuita André Schott nel 1607,
traduzione preziosa, ma macchiata dall’intento di epurare il testo da
formulazioni eretiche, specie su temi teologici. Fra i tentativi
successivi, una traduzione parziale in italiano a cura del giornalista e
letterato illuminista Giuseppe Compagnoni uscì a Milano nel 1836, e non
mancò di interessare Giacomo Leopardi.
Lo scontro fra Costantinopoli e il Papa di Roma, che i Carolingi avevano
dotato di un regno in cambio del titolo di imperatore dei romani a
Carlo Magno, verteva sulla supremazia territoriale per le province
dell’Illirico e della Bulgaria. Il risvolto dottrinale era stato
l’invenzione da parte di Papa Leone III (810) del dogma sulla
«processione» dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio, il filioque
sempre rifiutato dalla Chiesa d’Oriente. Fozio, capovolgendo le
posizioni, aveva dichiarato Roma eretica, scomunicando il Papa, misura
radicale che gli costò la scomunica e la condanna. Alla crisi con i
cattolici si intrecciò anche il conflitto interno alla Chiesa e alla
politica bizantina, che causò nell’888 la definitiva caduta del
patriarca, rinchiuso in un monastero nella cittadina portuale di Stenos,
sul Bosforo.
Grande battistrada dell’umanesimo, avversario delle aspirazioni romane
alla guida politica e spirituale della cristianità, Fozio fu a lungo
considerato dal mondo cattolico come un nemico, mentre gli ortodossi lo
fecero santo, seppure molto più tardi. L’avversione dei cattolici era
frammista a un senso di inferiorità culturale nei confronti del grande
erudito, attirato dalle opere pagane, dalle discipline matematiche e
astronomiche, e persino dai romanzi dell’antichità. Fozio era stato
condannato dall’VIII Concilio ecumenico (Costantinopoli, 869-870) in
quanto cultore e diffusore, in una cerchia di adepti, della sapienza
profana quae a deo stulta facta est , «resa stolta» cioè smascherata
come falsa, dall’autorità religiosa. Di Fozio si diceva, fra l’altro,
che aveva venduto l’anima a un mago ebreo, che praticava la negromanzia e
che recitava di nascosto i poeti greci durante la messa. È pur vero che
a quei tempi curiositas era sinonimo di passione per la conoscenza
scientifica, ma anche di pulsione verso l’occulto.
Attraverso l’analisi dei manoscritti sopravvissuti, Canfora ricostruisce
come Fozio e i suoi discepoli lavoravano. Dopo la lettura collettiva di
ciascun autore, a turno redigevano, dividendosi il lavoro, dei testi,
detti schedaria , che sintetizzavano i risultati della discussione, e a
cui il patriarca aggiungeva sue considerazioni, un procedimento che
Leibniz, lettore di Fozio, considerò come l’archetipo delle riviste
moderne di critica letteraria. La tattica argomentativa foziana era di
dare spazio al pensiero eretico, prendendone via via le distanze.
Teorizzava apertamente che si può leggere di tutto, e si può condannare
un testo solo dopo averne apprezzato le qualità o averne ricavato
qualcosa di utile. Inveire contro gli eretici si deve, ma prima bisogna
leggerli, farli leggere e commentarli.
La Biblioteca non fu mai un’opera scritta da Fozio per un «pubblico», ma
nacque come strumento di difesa della cerchia di studiosi sciolta
forzatamente al momento della caduta del patriarca. Per comprenderne la
genesi bisogna decodificare le due lettere che incorniciano l’opera, in
cui Fozio si rivolge al fratello Tarasio. In esse il patriarca allude
cripticamente a un’ambasceria in Assiria, e dichiara di voler
trasmettere al fratello il sunto di alcune letture a cui quello non era
presente, per consolarsi in un momento drammatico da cui non sperava di
uscire vivo. Canfora descrive questi documenti con un procedimento
esegetico rigoroso, che è anche un giallo ad alta tensione e una
dimostrazione assai istruttiva di come si scava in un testo antico.
L’Assiria non allude ad una reale missione di Fozio presso il Califfato
di Bagdad, come si riteneva in passato, ma è una metafora biblica che
indica la prigionia, così come l’ambasceria è il simbolo del tentativo
dal carcere di parlare contro gli «infedeli», cioè gli oppositori
religiosi. Il pretesto di aggiornare il fratello su letture a cui non
avrebbe presenziato, invece, è l’ escamotage per salvare il destinatario
del prezioso materiale dall’accusa di avere partecipato alla cerchia,
ormai dichiarata fuorilegge. In tal modo Fozio crea il pretesto per
mettere in salvo tutto ciò che gli era rimasto delle sue carte, il
surrogato della vasta collezione di libri che gli erano già stati
sequestrati e forse distrutti. Accosta capitoli rifiniti a materiali
ancora grezzi, in un processo di lavorazione reso incompiuto
probabilmente dalla sua morte.
L’opera non era, dunque, indirizzata ad un pubblico, ma a quel gruppo di
studiosi, accomunati da un sacro amore per la letteratura greca, vicini
al patriarca. Il titolo originale è, infatti, Catalogo dei libri letti
da noi . Una non-opera, meglio definibile come l’estremo tentativo di
salvare un patrimonio culturale in una situazione che, come si evince
dal tono altamente drammatico delle parole di Fozio, non lasciava
speranze.
La pubblicazione di questa miniera di erudizione è un traguardo
ambizioso, anzi impressionante. Dalla sua parte, Canfora ha una grande
storia di studi, che analizza e valuta senza tralasciarne alcuno, l’
expertise di una vita, la capacità di calarsi nella temperie storica
dell’autore per coglierne le minime sfumature, e infine l’indispensabile
collaborazione di un gruppo di studiosi competenti e affiatati. Una
nuova cerchia, più fortunata e libera, è stata in grado di regalarci un
«tesoro», restituendo al testo quell’integrità che, per tante ragioni,
stavamo ancora aspettando.
Repubblica 5.6.16
Riscoprire la sapienza nascosta negli oroscopi
di Marino Niola
«Il sole si trovava nel segno della Vergine, Giove e Venere assistevano
amichevolmente, Mercurio non era ostile, Saturno e Marte indifferenti.
Solo la luna era contraria”. Così Goethe racconta la sua nascita,
avvenuta a mezzogiorno del 28 agosto del 1749, attribuendo alle stelle
le ragioni del suo carattere e del suo talento. La concretezza
intellettuale, l’inclinazione all’autorevolezza e la propensione
all’amore. Insomma tutti quei tratti che hanno fatto del divino Wolfgang
il sole all’apogeo della cultura tedesca. Uno degli astri fulgenti
dell’illuminismo credeva dunque agli oroscopi? Ebbene sì, ma non per
sapere quel che gli sarebbe accaduto il giorno dopo. Ma per dare il
giusto peso a quelle corrispondenze segrete che armonizzano il corso
della vita. Il movimento dei corpi celesti e i moti dei corpi terrestri.
Rotazioni e attrazioni, mozioni ed emozioni.
È questo in fondo il senso più antico e più autentico dell’astrologia.
Che è la conoscenza dei pianeti e del loro influsso sulla vita.
Vegetale, minerale e animale. Che si tratti delle maree che obbediscono
al magnetismo lunare, o che si tratti dei nostri umori che certe volte
ristagnano, altre ribollono come il mosto nei tini. Oggi sulle stelle
pesa come un macigno l’anatema scagliato dall’incontentabile Theodor
Wiesengrund Adorno, francofortese e per di più vergine, proprio come
Goethe. Il più
choosy dei filosofi, infatti, considerava la credenza negli oroscopi una
superstizione capitalista. Ma, ancora prima della fatwa adorniana, le
disavventure dello zodiaco cominciano in Francia con l’illuminismo e la
sua fede assoluta nella ragione come unica dea, che fissa le nuove
regole della scienza e della conoscenza. Sono Voltaire e gli
enciclopedisti, come Diderot e D’Alembert a condannare senza appello il
sapere astrologico, confinandolo di fatto nelle segrete oscure della
ragione.
Ed è proprio quell’esclusione all’origine della banalizzazione attuale
dell’astrologia come predizione del futuro, come dispensatrice di
piccole profezie quotidiane. L’esatto opposto di quella che fu «una
scienza immensa che ha regnato sulle più alte intelligenze», per dirla
con Balzac. Sospesa tra conoscenza, arte e religione, l’astrologia era
in realtà un passepartout in grado di fornire le chiavi segrete della
realtà, di interpretare i ritmi e le rime che regolano l’unisono
dell’universo. Insomma, tutto tranne che predire il futuro e oroscoparsi
minuto per minuto. La fortuna dell’astrologia era legata all’idea che
la realtà ha più dimensioni nelle quali è compresa una quota di
indeterminazione misteriosa, non interamente calcolabile o spiegabile.
Una possibilità che una certa mitologia scientista, da non confondersi
con la vera scienza, non è disposta ad ammettere. Ecco perché qualche
anno fa, c’è stata un’autentica levata di scudi degli accademici
francesi contro la tesi di dottorato di Elizabeth Teissier, celeberrima
consulente astrologica del presidente François Mitterand, dedicata al
ruolo di astri e astrologi nella società postmoderna.
L’idea che la sensualità degli scorpioni, la lealtà dei leoni e la
testardaggine degli arieti fossero dibattute nell’aula magna
dell’Università Descartes di Parigi ha terremotato l’intellighenzia
d’Oltralpe. Per contrastare la mandria dei professori imbufaliti c’è
voluta tutta l’autorità del sociologo Michel Maffesoli, relatore della
tesi, e di Serge Moscovici, presidente della commissione giudicante.
Nonché di un maître à penser come il compianto Jean Baudrillard. E
pensare che la riflessione e la speculazione sono legate . Lo dicono
parole come considerare, che deriva da cum e sidera e significa guardare
l’insieme delle costellazioni. O come speculazione, filosofica o
economica, che è legata alla specola ovvero l’osservatorio astronomico.
In realtà credere ciecamente nell’influsso dei pianeti è una forma di
dabbenaggine, escluderlo categoricamente è una superstizione di segno
opposto. Un drago della logica come Tommaso d’Aquino diceva, « astra
inclinant, non necessitant » , ovvero gli astri influenzano ma non
obbligano. Tutto il resto dipende da noi.
Il Sole Domenica 5.6.16
Il valore economico della cultura
di Armando Massarenti
Venti anni fa, il 9 giugno 1996, la «Domenica» pubblicò il Manifesto di
bioetica laica, che conteneva, tra l’altro, una riflessione su ciò che è
“naturale”: «al contrario di coloro che divinizzano la natura,
dichiarandola un qualcosa di sacro e di intoccabile, i laici sanno che
il confine tra quel che è naturale e quel che non lo è dipende dai
valori e dalle decisioni degli uomini. Nulla è più culturale dell’idea
di natura». E se ne traeva anche una conclusione normativa: «se gli
uomini si renderanno conto che modificare quel che era considerato
immodificabile può condurre a uno stato di cose migliore, alla
diffusione di nuovi diritti, principi o valori, derivati
dall’affinamento stesso delle conoscenze e della consapevolezza morale,
allora ci si può attendere che essi cambieranno la propria percezione di
quel che è lecito fare». Perché è nella “natura” dell’uomo, come di
ogni animale, cercare, oltre che di riprodursi, il benessere ed evitare
dolori e sofferenze. Nell’articolo pubblicato in questa pagina però
Roberto Casati ci propone l’idea secondo cui proprio le cose naturali
sono quelle in grado di regalarci un po’ di pace mentale, sottraendoci
per un momento alla nostra tendenza ad antropomorfizzare ogni cosa e a
vedere cause e intenzioni laddove non ve ne sono. Ma anche rovesciando
la questione in questo modo, e ammesso che la tesi sia difendibile (non è
proprio osservando la natura che l’uomo si è scoperto animista e ha
visto ovunque spiriti e dei?), la natura rimane un concetto quanto mai
culturale.
La natura resta una riserva euristica per costruire, con mezzi tutti
diversi, beni che prima non esistevano. E ciò vale a maggior ragione se
pensiamo alla cultura nel senso del patrimonio dei beni culturali, la
quale, come la natura, si pensa che dovrebbe avere un valore intrinseco,
sacro, intoccabile, che sfugge alle logiche dell’economia perché è
difficile dargli un prezzo pur avendo un immenso valore. Ebbene, anche
in questo ambito le cose sono assai più sfumate, ma ciò non impedisce di
affermare con fondatezza alcuni valori che non sono disgiunti da una
pertinente comprensione dei fatti. È ciò che la Domenica si proponeva
con un altro Manifesto, quello per la cultura («Niente cultura, niente
sviluppo», 19 febbraio 2012), un manifesto decisamente impregnato di
idee economiche che rifiutava innanzitutto proprio la metafora
petrolifera dei giacimenti, semmai preferendole quella ecologica delle
energie rinnovabili. Per quanto riguarda la cultura (o la natura più o
meno incontaminata) è difficile pensare a un principio diverso da quello
per cui è proprio la volontà di conferire un valore intrinseco ad
alcuni beni o capacità (in primis la libertà della ricerca), selezionati
con saggezza e lungimiranza, a generare ricchezza, prosperità,
progresso, sviluppo.
Il Sole Domenica 5.6.16
L’incubo burocratico
Democrazia per non politologi
di Alfonso Berardinelli
Per sentire discorsi politicamente interessanti, spregiudicati e
concreti, la cosa migliore è che a farli sia un intellettuale che con la
politica non ha rapporti diretti: che non sia né uno specialista né un
militante affiliato a un partito, ma parli semplicemente come
osservatore coinvolto e cittadino responsabile. Questa mia vecchia
convinzione mi è stata confermata dalla lettura del libro di uno dei
nostri migliori linguisti e saggisti, Raffaele Simone, il quale, non
senza ambizione e con viva preoccupazione, si è chiesto Come la
democrazia fallisce.
Il tema non è da poco. È anzi, forse, troppo vasto. Ma in Simone, sotto
lo studioso di linguistica, c’è sempre stato il moralista e il filosofo.
Del resto la stessa linguistica è una delle fondamentali scienze umane:
una scienza sociale e storica, morale e cognitiva, il cui oggetto è sia
il funzionamento dei sistemi linguistici che le modalità e le
condizioni di una prassi centrale come quella comunicativa. Negli ormai
remoti anni Settanta si parlò con insistenza di “linguistica
democratica” e Simone, con De Mauro, ne fu uno dei più attivi
interpreti.
Ora, dopo diversi decenni, si chiede giustamente che cos’è la democrazia
e quali sono le ragioni attuali del suo possibile, temibile declino. Da
studioso capace e tenace quale è, Simone si è messo dunque a studiare
la cosa che, in età matura, lo preoccupa e lo angustia di più. Il suo
stato d’animo e la sua esperienza dicono a lui, come a tutti noi, che la
democrazia, non solo in Italia, è un alto e promettente ideale che di
fatto riesce ben poco a realizzarsi. Non solo perché ha dei nemici
dichiarati che fanno il possibile per ostacolare il mantenimento delle
sue promesse, ma perché queste promesse sono troppe, spesso
irrealistiche o assurde, e anche sbagliate. Come osserva Simone, è la
democrazia stessa a produrre di continuo su due opposti versanti, quello
dell’organizzazione burocratica e quello delle aspettative sociali,
molti degli ostacoli che ne paralizzano o ne vanificano un onesto
funzionamento.
Fra gli autori più doverosamente e proficuamente usati da Simone, oltre a
molti contemporanei, ci sono classici come Rousseau (Sul contratto
sociale), Montesquieu (Lo spirito delle leggi) e poi Max Weber, Hans
Kelsen, Norberto Bobbio. Ad alimentare sia realismo che pessimismo
intervengono poi il filosofo José Ortega y Gasset, l’economista Joseph
Alois Schumpeter e l’etologo Irenäus Eibl-Eibesfeldt. Per dare un’idea
della tematica privilegiata nel discorso di Simone, cito qualche titolo
di capitolo o di sezione. Si inizia con Democrazia in affanno e con Il
pensiero politico naturale (la comune percezione, cioè, secondo cui
l’uguaglianza non esiste in natura: cosa che la democrazia idealmente
tenta di sovvertire). Si passa a L’incompetenza resa competente (per cui
in democrazia si presuppone che i cittadini votino “in condizioni di
equilibrio e di razionalità”), L’inclusione illimitata (secondo cui
tutti i rifugiati, gli immigrati e i profughi “devono” essere accolti),
Esagerare nel bene (tipico sia della sinistra che dei cristiani), Spazi
impenetrabili e criptogoverno (lo Stato burocratico crea apparati
decisionali tutt’altro che trasparenti che si sottraggono alla vista e
al controllo). E si arriva ad Antipolitica (da intendersi non come
patologia ma «risposta naturale di chi è arrivato all’estenuazione per
impotenza»), e Tono Morale (tema classico non trascurato da Tacito,
Guicciardini, Machiavelli e Montaigne: la democrazia presuppone e
richiede che una serie di virtù civiche siano largamente coltivate).
Dopo aver pensato nel corso della lettura che Simone avesse esagerato
nella pretesa di spiegarci come e perché la democrazia è stanca,
inefficiente, ipocritamente promettente, sentimentale e infestata da
estenuanti parassiti che la dissanguano, alla fine questo difetto, come
ho suggerito all’inizio, mi è sembrato un pregio. Il non politologo, se è
uno studioso serio, può fare, con determinazione, onestà e perfino con
astuto candore, ciò che i politologi non fanno: mettere a confronto
diritto e sociologia, psicologia di massa e libertà individuali, istinti
antropologici primari ed enunciati costituzionali, critica del mercato
comunicativo e retorica democratica, miti ideologici e falsi ottimismi
politici.
Il mio solo o più forte dubbio riguarda l’ispirazione centrale del
libro: quella secondo cui difetti, limiti, debolezze della democrazia
sarebbero un allarmante fenomeno recente. Tendo a pensare che la
democrazia sia stata fin dall’inizio un’utopia e resti ormai la sola che
possiamo decentemente avere. Imperfetta, illusoria, ipocrita come ogni
utopia, il suo maggiore difetto e nemico è, credo, il mercato culturale
che favorisce il consumo dei prodotti mentali più scadenti e volgari.
L’industria della coscienza (dalla scuola alle comunicazioni di massa)
di cui si parlava mezzo secolo fa, esiste e trionfa tuttora. La
democrazia se ne serve per evitare che le proprie utopie diventino
pericolose per i notabili, le caste privilegiate e le élite del potere.
Il libro di Simone, comunque, su tutto questo rinfresca le idee, mostra
le contraddizioni fra principi e comportamenti, aiuta a ragionare
secondo logica e realismo, elenca dati innegabili sulla situazione
sociale presente. Infine, come effetto collaterale non secondario, fa
sembrare ancora più esasperanti, ottusi e faziosi i talk show politici
che la tv ci propina.
Raffaele Simone, Come la democrazia fallisce , Garzanti, Milano, pagg. 216, € 17
Il Sole Domenica 5.6.16
Judaica
Capire Giona con Scholem
di Giulio Busi
Immaginate una città in cui tutte le luci si spengono alle otto e mezzo
di sera. In giro per le strade non rimane anima viva, eccezion fatta per
gli stranieri. Poiché è tempo di guerra, e la Svizzera neutrale è un
buon posto per sfuggire a eserciti e battaglie, di forestieri a Berna ce
ne sono parecchi. Sono loro ad aggirarsi inquieti dopo il tramonto, a
discutere, a divertirsi, qualche volta a bere più del dovuto. Gershom
Scholem ha appena vent’anni. Se n’è andato dalla Germania per sfuggire a
un conflitto che non condivide. In Svizzera, assieme all’amico Walter
Benjamin, Scholem studia, sogna, s’innamora. È il consueto turbine di
curiosità e d’emozioni dei ventenni. Ma sono tempi straordinari, e i due
–Scholem e Benjamin - non sono certo giovanotti qualsiasi.
Irene Kajon, dell’Università la Sapienza di Roma, ha recuperato alcuni
scritti giovanili di Scholem, testimonianza di questo biennio bernese
(1918-19), e più in generale del lavoro intellettuale del futuro storico
della qabbalah durante il periodo bellico. Sono testi brevi, spesso
allo stato di abbozzo, con la freschezza che aleggia sugli incompiuti
letterari. Scholem è qui ancora brusco, squilibrato, e sciorina una
prosa curiosamente in bilico tra filosofia e romanzo tardo-romantico. Si
vede che ha letto e amato Nietzsche, e che è andato a scuola di stile
da Martin Buber. Ma si coglie anche che vuol liberarsi dai maestri, e
battere una strada sua, per quanto faticosa possa essere.
Quando riassumerà questo periodo, nella sua autobiografia Da Berlino a
Gerusalemme, dirà di aver creduto che il popolo ebraico si sarebbe
potuto rinnovare solo dopo aver incontrato se stesso. Il vero sé, la
coscienza collettiva, il mistero della storia ebraica, ecco i temi che
animano le pagine di Giona e la giustizia e delle Novantacinque tesi
sull’ebraismo e sul sionismo. È forse nella profezia, il nocciolo
dell’esperienza giudaica? «Dio è il maestro e il profeta è lo scolaro».
Di questa antichissima, enigmatica scuola, il giovane Scholem esplora il
metodo: «L’oggetto dell’istruzione – scrive - è l’idea di giustizia.
L’educazione è una categoria religiosamente profetica». Il libro biblico
di Giona è così scomposto in una curva, quasi un moto sussultorio che
cattura le fasi del racconto. Un comando giunge a Giona. Questi si
sottrae, fugge ed è punito. Il movimento, la tensione narrativa
s’inabissa, per poi innalzarsi nuovamente nell’inno con cui il
protagonista si rivolge in preghiera al Signore. Ninive si converte, ed
ecco il centro del libro. Quindi la lite tra profeta e Dio, l’istruzione
che questi impartisce al discepolo ribelle, e infine la domanda, che
chiude il testo: «Non dovrei, io, avere pietà di Ninive?». Per un simile
quesito non c’è risposta, o meglio la soluzione che il giudaismo
prospetta, davanti alle strettoie del bene, è l’infinita ripetizione
dell’interrogativo. Il bilancio scholemiano è lapidario: «Nella
risonanza … di questa domanda si chiude, nel non detto, il circolo
dell’accadere». Ancora più impervie sono le Novantacinque tesi. Pensate
come regalo per il ventiseiesimo compleanno di Walter Benjamin, il 15
luglio 1918, queste proposizioni, polemiche e dense, non furono in
realtà consegnate al destinatario. Scholem non era soddisfatto del
risultato, che pure è notevole da molti punti di vista. Quanto a
concisione e a coraggio ermeneutico, il nostro ragazzo cresciuto in
fretta mostra di avere pochi rivali. A cominciare dalla prima –
«L’ebraismo va dedotto dal suo linguaggio» – e per finire alla
novantacinquesima – «Il nuovo cielo è il cielo senza notte» – le
proposizioni sembrano voler misurarsi con il grande Benjamin, in un
dialogo degno di cotanto interlocutore. Vi si trova, in nuce, la
dottrina mistico-messianica del Scholem più tardo, e anche qualche
balenio del messianismo à la Benjamin. Si consideri, per esempio,
l'ottantacinquesima proposizione. «Il tempo del waw inversivo è il tempo
messianico», dove una peculiarità grammaticale diventa segno della
rivoluzione dei tempi. Come la lettera waw, preposta a una forma
verbale, può in ebraico invertirne il valore temporale, così l'età
messianica è il rovesciamento della storia. Tutto quello che è stato si
redime, così, in quanto deve ancora succedere. Vi ricordate l’Angelus
novus, quello che si lancia verso il futuro voltandogli le spalle? È
probabile che quel volatile apocalittico, dipinto da Paul Klee e
teorizzato da Walter Benjamin, abbia imparato a volare a rovescio in
qualche lunga sera di Berna, dopo le otto e mezzo, quando per strada
c’erano solo forestieri.
Gershom Scholem, Giona e la giustizia e altri scritti giovanili , a cura
di Irene Kajon, Morcelliana, Brescia, pagg. 88, € 10
Il Sole Domenica 5.6.16
Cardini. Padri della Chiesa
Contro Ambrogio, ma non troppo
di Armando Torno
Ambrogio, santo, patrono di Milano e dottore della Chiesa, già
governatore imperiale, fu uno dei protagonisti del IV secolo della
nostra era ma, ancor più, resta un uomo raro in ogni tempo. Agostino
subì il suo fascino e dal lui fu battezzato. Franco Cardini, storico e
specialista del medioevo, ce ne offre un ritratto agile e ricco di
questioni: Contro Ambrogio. In quel “contro” non si deve leggere un
attacco ma il vero bilancio della vita di un uomo che non ebbe mai
requie e fu inflessibile con tutti (e con se stesso). L’autore
nell’epilogo ammette che dopo il presente Contra Ambrosium vorrebbe far
seguire un libro dal titolo Pro Ambrosio, che magari preluda «a un più
corposo e consistente», forse rasserenante De Ambrosio.
Per ora, comunque, ci fermiamo al contra. Scrive Cardini: «È lecito
chiedersi se, astraendo dal modello e dal magistero ambrosiani, la
Chiesa sarebbe mai giunta a dover concepire i tribunali inquisitoriali,
ad affrontare scismi e riforme, a subire lo “strappo culturale” della
Modernità…». Domande che l’autore si pone, dinanzi a questo gigante
della storia, «con timore e tremore», ma anche «con molta umiltà» e «un
pizzico di autoironia». D’altro canto, la sua grandezza diventerà
esemplare e, al tempo stesso, tormentata; aggettivo quest’ultimo che nel
caso di Ambrogio va preso alla lettera: dal latino tormentum, derivato
di torquere, ovvero “torcere”.
Cardini esamina l’infanzia a Treviri, la giovinezza a Roma, il cursus
honorum, l’elezione a vescovo, le controversie di cui fu al centro, le
contese, il suo atteggiamento di «accorata ma inflessibile severità» nei
confronti di Teodosio per la strage avvenuta a Tessalonica, ma anche
l’atteggiamento – direbbe qualche politico – senza “se” e senza “ma” nel
combattere eretici, pagani, ebrei. Ricordò con fermezza che lo stesso
imperatore era membro della Chiesa, non sopra di essa; né la poteva
guidare o controllare. Ambrogio, inoltre, con il suo pensiero ha forse
favorito più di tanti altri Padri la concezione egemonica del papato
sulla Chiesa. Il suo magistero non fu proposta di convivenza e di
comprensione reciproca, al di là degli orizzonti restrittivi della
semplice tolleranza, che sarà poi ispirata da Francesco d’Assisi, dalla
lezione di Nicola Cusano e di Erasmo da Rotterdam, alle quali – nota
Cardini - non è estraneo l’attuale pontefice. Ma qui il discorso diventa
infinito. E conviene attendere prima di chiuderlo.
In margine è il caso di aggiungere che Ambrogio non è soltanto un
riferimento per la fede cattolica o il creatore dell’innologia liturgica
della Chiesa occidentale, ma resta un personaggio colto e sorprendente.
I suoi sermoni sono ricchi di citazioni di Virgilio, gli scritti
esegetici risentono della lettura di Filone, nelle opere morali segue
Cicerone. Inoltre gli studi di Pierre Courcelle (scomparso nel 1980) su
Agostino hanno rivelato la sua preparazione filosofica. Due esempi:
lunghe citazioni e parafrasi dalle “Enneadi” di Plotino (nel De Isaac e
nel De bono mortis), passi di Porfirio nell’Exameron. E non era digiuno
di mistica: c’è quella di Origene nel Commento al Cantico dei cantici.
Insomma, le sue scelte non furono quelle di un politico, ma le meditò
con dottrina. Forse perché la storia, a volte, non ama concedere altro.
Franco Cardini, Contro Ambrogio , Salerno Editrice, Roma, pagg. 136, € 11
Il Sole Domenica 5.6.16
Gli albori della modernità
Lumi della ragione medioevale
di Gianluca Briguglia
Nel XVIII secolo si sviluppano linee di pensiero contrapposte sull’età
di mezzo, poi integrata nel sistema delle istituzioni con il sorgere dei
sentimenti nazionali e con l’idea di Europa
Spesso si sente parlare di crisi dei saperi storici, non solo della
storia propriamente detta, ma di tutte quelle variegate discipline che
riflettono sul passato, ad esempio la storia della filosofia, dell’arte,
addirittura della letteratura. Tuttavia se guardiamo ai risultati, ai
metodi, alla capacità di produrre informazioni, di ricostruire e
indagare paradigmi intellettuali e materiali del passato, di generare
sapere, questa evocazione di una crisi non sembra giustificata. Viviamo
anzi in un’epoca che ha aumentato moltissimo la sua conoscenza del
passato, determinando campi di indagine nuovi, settori allo stesso tempo
più ampi e più profondi.
Se invece si pensa al rapporto che gli studi storici intrattengono con
la società nel suo complesso, e osserviamo il ruolo di tali studi nella
formazione contemporanea e nella capacità di riconoscimento collettivo,
al loro peso nell’epistemologia del presente, allora la crisi è
visibile. E si tratta di una crisi profonda. Gli studi storici hanno
infatti progressivamente perso il legame con le ideologie e le visioni
generali della società, anch’esse ridottesi o trasformatesi, che li
avevano se non proprio generati, almeno resi centrali nel sistema
dell’educazione, della formazione e della politica. Questa progressiva
perdita di rilevanza sociale della storia - proprio in un’epoca in cui è
evidente che le discipline storiche e i saperi critici ad esse
associate potrebbero dare un contributo civile e interpretativo
formidabile - pone moltissime sfide e a diversi livelli. E soprattutto
spinge a ripensare i fondamenti della relazione tra gli studi storici e
il più ampio perimetro della società, anche riflettendo sulla nascita e
sulla trasformazione di quelle discipline.
Uno dei libri di medievistica tra i più interessanti degli ultimi tempi,
uscito in francese per Vrin e di cui si auspica una traduzione in
italiano, Medievismo filosofico e ragione moderna, di Catherine
König-Pralong dell’università di Friburgo in Germania, può essere letto
anche come riflessione paradigmatica sulla nascita di una disciplina
accademica - in questo caso la storia della filosofia medievale - nel
più ampio costruirsi di ideologie e movimenti culturali in epoca
moderna, in particolare negli scambi e negli antagonismi tra la Francia e
la Germania del XVII-XIX secolo.
Anzi, la nascita del Medioevo come disciplina storico-filosofica
accademica a partire dall’età dell’Illuminismo, sarebbe proprio il
risultato della riflessione molteplice sulla modernità. A partire dai
Lumi il soggetto del racconto storico è infatti per König-Pralong la
ragione moderna e il suo oggetto è la genesi di questa ragione. Il
Medioevo non è solo immagine dell’alterità, le tenebre, ma anche un
campo di battaglia ideologico di tendenze diverse. Per il più grande
storico dell’Illuminismo tedesco, Jacob Brucker (1696-1770), la
filosofia medievale è razionalità minore, caratterizzata da una
patologica “aristotelemania” senza costrutto e nelle mani delle
istituzioni cattoliche. Per Brucker, pastore protestante, è proprio
l’impronta cattolica a deformare il pensiero filosofico, mentre per gli
storici illuministi francesi (ad esempio Deslandes) è la religione in sé
a impedire un sincero esercizio filosofico. È invece la nascita dei
sentimenti nazionali che integra il Medioevo nel sistema delle
istituzioni. Gli stati nazionali, o i movimenti che portano alla loro
costituzione, hanno bisogno di un immaginario condiviso, necessitano di
una tradizione. Il medioevo diventa medioevo nazionale. Non solo, dalla
fine del XVIII secolo fino a gran parte dell’Ottocento, è anche l’idea
di Europa, che comincia a nascere (o più precisamente un’idea di
appartenenza nazionale e di progetto sovranazionale), ciò che rende il
Medioevo filosofico non più sinonimo di difformità della ragione, ma
patrimonio da sfruttare. Per Herder (1774-1803) ogni nazione, ogni
popolo, ha una sua anima, una sorta di unità perenne, uno spirito che
non cessa di manifestarsi, ma l’Europa ha anche una sua unità spirituale
che le è conferita dalla religione, cioè dal Medioevo. Per Schlegel (e
Novalis) la filosofia medievale esprime un’unità europea, attraverso la
concordia di ragione e religione, che è in realtà manifestazione della
purezza originaria dell’anima germanica, in contrapposizione al
razionalismo illuminista francese. Si va delineando una dicotomia
ideologica sul terreno dell’insegnamento della filosofia medievale tra
mistica tedesca e scolastica francese. Del resto Victor Cousin
(1792-1867), il più importante storico francese della filosofia di metà
Ottocento e fondatore degli studi storici di quel Paese, fa del metodo
scolastico medievale l’inizio dello sviluppo moderno della filosofia, ma
fa anche del medievale (e francese) Abelardo l’inventore di quel
metodo: la razionalità moderna è dunque un’invenzione della Francia. In
questo quadro storico già complesso entra anche la valutazione del peso
della filosofia araba medievale nello sviluppo della razionalità
europea. Se la filosofia greca è il modello assoluto di razionalità, che
dire del ruolo degli Arabi che nel Medioevo portarono alla conoscenza
dell’Occidente i testi di Aristotele e la loro interpretazione? Anche
qui il contesto è complesso: il filosofo arabo Averroè è per taluni il
corruttore della filosofia greca, per altri il fautore di un ateismo
illuminista, per altri ancora l’inventore di una corrente, l’averroismo,
che solo nella sua storia latina, e non presso gli Arabi, incapaci di
filosofia in quanto di stirpe semitica (come in Renan), ha dato un
contributo alla ragione europea.
Ancora una volta quello che è in gioco in questi dibattiti, che hanno
contribuito a fondare una disciplina, è il presente, la ragione moderna,
e sempre in relazione con poste differenti, con ideologie, con visioni
complessive della cultura e con progetti di società. Il libro di
König-Pralong, oltre ad essere un importante dossier sulla costituzione
di una disciplina storica in due Paesi-chiave europei, ci ricorda di
fatto in forma paradigmatica che la nascita dei saperi storici e la loro
evoluzione non è un percorso neutro, non è modello di scientificità
astratta, ma è a sua volta una storia.
Catherine König-Pralong, Médiévisme philosophique et raison moderne. De
Pierre Bayle à Ernest Renan , Vrin, Parigi, pagg. 176, € 19
Il Sole Domenica 5.6.16
Sergio Luzzatto
Le vite che animano la Storia
Da San Francesco a Galileo, da Pietro il Grande a Marie Curie, fino ai tempi recenti
di Nelson Mandela e Malala: quindici biografie capaci di restituirci interi mondi
di Massimo Bucciantini
Ci sono parole che andrebbero messe a tacere e altre che avrebbero
bisogno di un lungo periodo di silenzio prima di tornare a circolare.
Ricordo che qualche tempo fa, su «la Repubblica», Guido Ceronetti ne
fece un gustosissimo e dettagliatissimo elenco. Lo stesso si potrebbe
fare per certe espressioni talmente abusate e stucchevoli che ancor
prima di essere pronunciate si sa già che arriverà il loro turno, perché
qualcuno immancabilmente le pronuncerà.
Una delle frasi che sembra calzare a pennello con questo libro è «Si
legge come un romanzo». Un modo per dire che non è un romanzo ma è come
se lo fosse. Per dire che gli assomiglia, perché la sua scrittura lo
rende quasi fratello di quelle pagine che di solito in libreria si
trovano in altre sale e su altri scaffali. Oggi pare che questo sia il
massimo riconoscimento a cui possa aspirare un libro di storia.
Ma forse le cose non stanno proprio così. Forse sarebbe più opportuno
dire che questo libro si legge come un romanzo perché è un libro di
storia. Una frase che può apparire strana e a molti incomprensibile, ma
che invece, a pensarci bene, non lo è. Per il semplice motivo che, da
Erodoto in poi, la storia è sempre stata narrazione, grande narrazione. E
quindi se stiamo sempre più perdendo il gusto e il piacere di leggerla,
la responsabilità è anzitutto di chi la scrive, che spesso non si
preoccupa del come scriverla, del tono e della forma che dà alle proprie
pagine. Senza capire, o facendo finta di non capire, che invece rientra
– e sempre più rientrerà – in uno dei suoi obblighi professionali,
soprattutto per chi ancora crede nella funzione civile di questa
disciplina. Verrebbe da aggiungere che come esistono scuole e corsi per
aspiranti romanzieri, analogamente dovrebbero nascere – pena
l’irrilevanza galoppante di questo mestiere – corsi di scrittura per
aspiranti storici.
«Come si studia la storia? E come si racconta?». Sei anni fa, Sergio
Luzzatto iniziava così la premessa a un libro che in copertina riporta
simbolicamente una Tour Eiffel in costruzione e che raccoglie saggi di
dieci storici italiani (Prima lezione di metodo storico, Laterza). Un
libro che entra nel vivo del lavoro dello storico, indagando in modo
ravvicinato l’uso delle sue fonti – da quella notarile, contabile,
epistolare, a quella orale, iconografica, elettronica – e la loro
interpretazione. Mi piace pensare che in Una febbre del mondo Luzzatto
abbia voluto riprendere in mano quel progetto e provare, questa volta da
solo, a rispondere alla seconda domanda. Senza però scegliere la strada
della discussione metodologica sul “narrare la storia”, ma accettando
in prima persona la sfida della scrittura, che pone degli obblighi
rigorosi, primo fra tutti quello di non venir meno al principio che
nulla deve essere inventato.
Il libro si apre con un omaggio a un non-storico, a un “dilettante”
spesso snobbato dall’accademia, ma che invece ha esplorato come pochi il
grande tema della funzione della personalità nella storia. Stefan Zweig
«è stato un interprete acutissimo sia degli stati febbrili in cui
capita al mondo di precipitare, sia di quegli uomini e di quelle donne
che portano nel mondo una febbre tutta loro». Ed è lui, lo scrittore
austriaco, ad avergli suggerito la struttura del libro. Non la
ricostruzione di vite a tutto tondo, i soliti noiosissimi medaglioni,
bensì «fette di vita», capaci però di restituirci «interi mondi, e mondi
rapinosi, palpitanti, febbrili». Storie di febbre, appunto. Storie che
sembrano romanzi, ma che invece sono storia (maiuscola o minuscola non
importa), la nostra storia, perché hanno dentro di loro la forza di
restituirci «destini collettivi».
Le quindici vite scelte da Luzzatto sono state estrapolate dal suo
manuale di storia per le scuole superiori appena uscito da Zanichelli.
Sono pagine pensate per la scuola e per l’insegnamento della storia. E
quindi il primo pensiero va a quei ragazzi che avranno il piacere di
leggerle. Ma, grazie a questa edizione, anche a coloro che si troveranno
di fronte inaspettatamente vite di persone più che di personaggi.
Alcune celebri, altre, invece, del tutto sconosciute. Ma tutte
accomunate da un’unica ossessione: quella di aver intrapreso una strada
nuova e di averla seguita senza moderazione. «Spesso nel bene, talvolta
nel male», tutti i quindici protagonisti «hanno ossessivamente provato a
cambiare il mondo».
Come nella prima storia, dedicata a Francesco, quello di Assisi. Che
inizia con un incontro, nel settembre 1219, quando si combatteva la
quinta crociata, tra il frate e l’allora capo dell’esercito saraceno.
Oltrepassando le linee nemiche, Francesco si presentò a mani nude
nell’accampamento del sultano al-Kamil, dove si trattenne per diversi
giorni a parlare di guerra e di pace. Lui, non ancora santo, «il primo
cristiano del Medioevo ad aver cercato, piuttosto che uno scontro, un
incontro con il mondo musulmano». Una vita appassionata come quella che
segue, di una giovanissima donna bruciata viva sulla piazza del Mercato
Vecchio di Rouen il 30 maggio 1431, la “pulzella” di Orléans, santa
Giovanna d’Arco. Una fine che fu un punto di svolta e l’inizio di un
mito, «o piuttosto di diversi miti: un mito nazionale, un mito
cristiano, un mito femminile».
E poi, subito dopo, ci si imbatte nella morte di Maometto II e nella
vita spericolata di uno dei suoi figli, Gem Sult?n. «A farlo fuori ci
avevano provato per decenni. Spendendoci una fortuna. I veneziani le
avevano tentate tutte per sbarazzarsi del loro nemico numero uno,
Maometto il Conquistatore». Un inizio così, c’è da scommetterci, sarebbe
piaciuto all’autore del Barone rampante e del Cavaliere inesistente.
Sicuramente si sarebbe divertito a immaginare le quattordici volte in
cui i veneziani avevano provato a ucciderlo. Seguono le tranches de vie
di Bernardino Ochino, Galileo Galilei, Pietro il Grande, Betsy Ross,
Ippolito Nievo, Marie Curie, Edmondo Peluso, Jurij Gagarin, Nelson
Mandela, Malala Yousafzai. Ma anche di uno “specialista”, un vero
professionista del male, e di un “diavolo nero”, un generale dalla pelle
scura.
Il primo lo incrociamo a Vienna, nelle fastose sale di Palazzo
Rothschild. Anno 1938. È un lavoratore instancabile, inappuntabile,
responsabile dell’Ufficio centrale per l’Emigrazione ebraica. «Roba
seria. Duecentomila ebrei austriaci che pendono dalle sue labbra, e che
tremano di paura solo a vederlo». La sua tessera è la 899895 del Partito
nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi, il suo nome è Adolf
Eichmann. Un vero esperto del “problema ebraico”. A tal punto che, per
conoscerlo meglio, decide di diventare «il migliore amico nazista degli
ebrei tedeschi» e d’imparare la loro lingua («per tre marchi all’ora,
era andato da un rabbino a lezione di yiddish e di ebraico»). «Ed era
entrato in contatto professionale con i militanti sionisti». E si era
persino recato in Palestina per studiare nei minimi particolari la
possibilità di un’emigrazione di massa degli ebrei tedeschi. «Ponti
d’oro, purché se ne andassero».
L’altro è invece il figlio di una schiava haitiana e… della Rivoluzione
francese. Thomas-Alexandre Dumas, bello come sua madre e «alto e forte
come il suo cavallo», nel giro di pochi anni salì rapidamente tutti i
gradini della gerarchia militare. Una carriera impensabile se la Francia
e le sue colonie non fossero state messe a soqquadro dai principi
dell’89. «Un mondo capovolto in cui l’impossibile era divenuto
possibile». E così fu, fino a quando Napoleone Bonaparte non riuscì a
ristabilire in parte il sistema schiavista. Quando pochi anni dopo, nel
febbraio del 1806, il generale Dumas morì, la Francia era completamente
mutata. Ma le sue gesta e il suo coraggio ispirarono uno dei maggiori
scrittori dell’Ottocento francese: suo figlio, il moschettiere
Alexandre.
Quindici vite. Ne avremmo desiderate di più. Chissà se in futuro qualche aspirante storico scriverà la sedicesima.
Sergio Luzzatto, Una febbre del mondo. Mille anni di storia in quindici vite , Einaudi, Torino, pagg. 228, € 13,50
Il Sole Domenica 5.6.16
«Esse» come Stendhal
Un dizionario spiega la vita dello scrittore. Alla lettera «E» c’è la
sensuale ballerina Elssler. Sotto la «T» il coreografo Taglioni
di Quirino Principe
La letteratura che abbia per oggetto la musica forte, e che la esamini,
la dichiari, la racconti, persino osi descriverla nei dettagli: quale
spinoso e imbarazzante tema per lo statuto non dichiarato della cultura
italiana ! Qui da noi, tolte forse due o tre eccezioni (D’Annunzio nei
limiti di velleità accese da autentica attrazione, Montale sul terreno
di autentiche ma piccole esperienze, Arbasino per insofferenza verso la
volgarità del “non sapere”) gli “hommes de lettres” non sono stati e non
sono oggi tecnicamente in grado di affrontare questa operazione
metalinguistica, ignorando assolutamente (e dichiaratamente!) tutto del
linguaggio di cui dovrebbero parlare. (Ma una benedizione del cielo è
per noi almeno Eugenio Scalfari, che sui Quartetti per archi di Chopin,
sulla cronologia comparata di Stravinskij e Schönberg e sul compositore
Claudio Abbado sa decisamente tutto).
Figuriamoci un “ego scriptor” e il suo imbarazzo al quadrato, se gli si
chieda lo sforzo, metalinguistico di secondo grado, di captare
annaspando qualche elementare informazione su ciò che scrittori non
italiani, con competenza qui da noi impensabile, hanno detto sulla
musica e sui musicisti (André Gide, James Joyce, G.B. Shaw, Hermann
Hesse, Anna Achmátova...). Eppure, due casi, almeno due, sono riusciti a
perforare la parete di buio pesto: non c’è’ “homme de lettres” italiano
che non citi, prima o poi, Thomas Mann e Doktor Faustus, oppure
Stendhal e la Vie de Rossini: e se è altamente improbabile che lo
“scriptor” non abbia letto il romanzo manniano, è statisticamente molto
probabile che della biografia stendhaliana magari parli o straparli ma
non l’abbia letta, poiché per gli “scriptores” nostrani il diavolo è
sempre interessante, Rossini molto meno o quasi per nulla.
Su queste considerazioni viene a cadere felicemente un libro dalla
finalità enunciata con discrezione e sottovoce: una sequenza alfabetica
di lemmi biografici. Ma è tanto pieno di energia concentrata da riuscire
ad essere, a nostro avviso, un avvenimento clamoroso e sovreccitante
per la cultura degli italiani musicalmente alfabetizzati. Centro di
gravità è Stendhal: un pianeta rotante nel cosmo, autonomo pur se in
relazione gravitazionale con gli astri e con le energie occulte, ma
illuminato da uno strano sole (dall’enigmatico “God” dei Privilèges
datati 1840?) unicamente nel suo emisfero musicale, dimidium animae
eius. Così, a loro volta, ruotano intorno al corpo celeste oggetti
cosmici eterogenei, teatri-galassie, impresari-stelle, orchestrali-lune,
cantanti-comete, danzatrici-meteoriti, coreografi-asteroidi,
scenografi-astronavi. La popolazione sterminata e brulicante della
musica occidentale tra la Grenoble del 1783 e la Parigi del 1842,
attraverso l’erotico eone della Milano 1800-1821, ci si presenta in
vivissime schede, ciascuna delle quali rende l’idea del Tutto. Come
sempre avviene, quanto più folto e ricco di notizie è il contesto, tanto
maggiori sono le occasioni di crocevia e d’intersezione secondo il
calcolo combinatorio. All’editore riconosciamo l’eleganza del volume (un
amabile 8° piccolo), alla valorosa curatrice-autrice la qualità
scientifica della ricerca. Ci è cara la collaborazione con il Centro
Stendhaliano della Biblioteca Comunale Centrale di Milano, in cui vive
ancora lo spirito dell’indimenticato Gian Franco Grechi.
Le intersezioni e i crocevia (potremmo dire: “i cruciverba”) sono
numerosissimi, poiché il calcolo combinatorio moltiplica in misura
esponenziale i canali di comunicazione tra un lemma e l’altro. Qualsiasi
lettore di questo libro può fabbricarsi interi mondi di relazioni,
quasi trame di romanzi possibili tra realtà e immaginazione. Basta
aprire un lemma, cogliere il nesso emotivo o il gancio narrativo più
forte, e transitare a un altro lemma e così via, con la certezza di non
violare mai la realtà storica. Per esempio, si può partire dalla
danzatrice Fanny Elssler, citata da Stendhal come «la divine Elssler»
nei Mémoires d’un touriste, bella e sensuale “danseuse païenne”, e
saltare a colei che le fu contrapposta, la bella ma sacerdotale Maria
Taglioni, “danseuse chrétienne”, e da costei come “trait d’union”
transitare allo zio di lei, Salvatore Taglioni, sommo coreografo, il
quale a sua volta ci conduce al più che sommo scenografo Alessandro
Sanquirico, a da costui all’altro coreografo e virtualmente drammaturgo
Salvatore Viganò, uomo che fu “trait d’union” tra la Milano di Stendhal e
la Vienna di Beethoven e di Schubert... e così via, lungo un regressus
ad infinitum.
Gli altri esempi possono essere a loro volta quasi infiniti, e il loro
numero è tutto contenuto, come nesso di universi possibili, in questi
libro, afferrabile e portabile con una sola mano. Come nota Suzel
Esquier nella prefazione, che è un bellissimo omaggio alla difficile
collaborazione franco-italiana resa più facile dall’ambito mobile della
musica e delle arti, sfera dell’Essere, al di sopra della triviale e
miserabile sfera dell’Avere, dalle schede biografiche emerge anche
l’alta qualità culturale dei Conservatorii italiani, nonché la mobilità
intellettuale della Milano d’età napoleonica e poi austriaca, e, non
ultima, la felice libertà sessuale che ferveva tra donne e uomini di
teatro e di musica nell’epoca d’oro dell’Opera. Si ha la sensazione,
chiudendo provvisoriamente questo libro, che la personalità di Stendhal
sia stata un a priori rispetto al suo tempo: che il suo “égotisme” abbia
modellato intorno a sé i modi di sentire e di esercitare l’intelletto
negli anni di quella generazione, in una Milano che oggi ci pare
incredibile.
Piccolo Dizionario Musicale Stendhaliano , a cura di Annalisa Bottacin,
prefazione di Suzel Esquier, La Vita Felice, Milano, pagg. 312, € 14,50