Corriere La Lettura 5.6.16
L’uomo migrante
La
prima espansione «fuori dall’Africa», la rapida diffusione di Homo
sapiens, i grandi movimenti di oggi Sin dalle sue origini la nostra
specie tende a spostarsi La spingono, ieri come oggi, la demografia e il
bisogno
di Giorgio Manzi
A partire da
circa due milioni di anni fa, con i più antichi Homo abbiamo la prima
grande diffusione geografica della nostra evoluzione: una diffusione
out-of-Africa , come si dice. La documentazione fossile successiva ci
racconta infatti che uomini dal cervello relativamente piccolo, ma dalle
gambe buone, con in mano manufatti paleolitici davvero elementari,
erano ormai usciti dall’originaria culla africana. Li incontriamo quando
si sono disseminati in gran parte dell’Africa, ma anche nel Vicino e
nel Medio Oriente, fino ai lembi orientali dell’Asia. Poi li vediamo
raggiungere le latitudini più settentrionali della Cina e disperdersi
verso l’Europa.
Dunque, quasi subito il genere Homo (ben prima di
Homo sapiens ) si rese protagonista di un’inedita diffusione geografica,
tanto da attraversare nell’arco di un numero ragguardevole di
generazioni una traiettoria che si sviluppa lungo un asse di oltre 10
mila chilometri. A seguito di una diffusione così vasta e in ambienti
differenti, i nostri antenati si differenziarono in varietà geografiche.
Da questa variabilità emersero forme umane con storie e destini
differenti, compresi i Neanderthal, padroni delle terre a nord del
Mediterraneo per molti millenni. Compresi noi Homo sapiens : uomini
dalle mani divenute molto abili, dal grande cervello globulare e da una
mente che brulica di simboli, nuovamente in diffusione dall’Africa.
Si
trattò di migrazioni? Non proprio, meglio precisare. Può apparire una
mera questione di termini, ma invece ha una certa importanza. Una
riflessione su questo punto ci consentirà di capire meglio il fenomeno.
È
vero che in molte narrazioni dell’evoluzione umana — come nei bei libri
Inquietudine migratori a a firma di Guido Chelazzi (Carocci) e Libertà
di migrare di Valerio Calzolaio e Telmo Pievani (Einaudi) — si parla di
migrazione/i. Si tratta però di una semplificazione. Viene usato il
termine più comune e, pertanto, di immediata percezione, ma può essere
fuorviante. Tecnicamente, il fenomeno che più volte vide fuoriuscire,
quasi sempre dal continente africano, popolazioni e popolazioni di
esseri umani — i primordiali primi Homo (a partire da due milioni di
anni fa) come i più antichi Homo sapiens (successivamente all’origine
della specie, 200 mila anni fa) — non dovrebbe essere chiamato
migrazione/i, ma piuttosto «espansione/i d’areale».
Meno
tecnicamente, si trattò di fenomeni di diffusione geografica. È un po’
come immaginare i cerchi concentrici che si formano lanciando un sasso
in uno stagno, come una macchia d’olio che si spande sulla tovaglia,
come il suono di una campana che si diffonde in tutta la valle. Quella
dei primi Homo , quella di Homo sapiens , ma anche quella dei primi
agricoltori del Neolitico (negli ultimi 10 mila anni) furono diffusioni,
non migrazioni, con tutte le modalità e i tempi del caso. Possono
sembrare migrazioni perché ne simulano le traiettorie geograficamente
possibili, ma non furono certo compiute da popolazioni che si misero in
viaggio, dall’Africa verso altrove, magari inseguendo la selvaggina
(come talvolta si sente dire). Furono l’espansione di un’intera specie o
parte di essa, con popolazioni che si diffondevano in nuove regioni
inesplorate, per colonizzare le quali fu spesso necessario attendere che
la selezione naturale facesse il suo corso (in tempi lunghi), premiando
le varianti genetiche più adatte al nuovo ambiente.
È vero
d’altra parte che, sottese ai fenomeni di diffusione, ci furono tante
migrazioni su piccole distanze, probabilmente dovute a un successo
adattativo e demografico delle singole popolazioni. Ciascun gruppo
umano, ciascuna banda di cacciatori-raccoglitori divenuta
sufficientemente numerosa, tendeva a frazionarsi e a disperdersi sul
territorio. Del tipo: noi rimaniamo qui, voi andate al di là del fiume,
voi oltre la collina... Sui grandi numeri, e nella dimensione del tempo
profondo, tutti questi episodi hanno assunto le dimensioni di un
fenomeno epocale: un fenomeno che è corretto chiamare diffusione o, per i
palati più fini, espansione di areale.
Così, a partire da un
piccolo centro di origine, la nuova umanità di successo (adattativo,
ecologico e demografico) inizia a diffondersi. Quando un gruppo diventa
troppo numeroso per le risorse dell’ambiente circostante, esso si
fraziona e una parte della comunità originaria si sposta altrove, alla
ricerca di territori più favorevoli e più sgombri. Da una popolazione se
ne formano due, da due quattro, da quattro otto, da otto sedici, da
sedici trentadue e così via. Il fenomeno assume l’aspetto di
un’imponente espansione di areale, come sommatoria della combinazione di
tante piccole emigrazioni. Avanti di questo passo, il fenomeno si
ripropone un numero di volte tale che nel suo insieme diventa una vera e
propria «onda demica» — come piace giustamente dire a Luigi Luca
Cavalli Sforza, che ha coniato questa espressione per la diffusione
degli agricoltori del Neolitico — ovvero una diffusione di portata prima
continentale e poi planetaria. È così che la nuova specie si espande;
così hanno sempre fatto le popolazioni in possesso di una nuova
strategia o risorsa bio-culturale. E lo avrebbero fatto come una macchia
d’olio se non vi fossero stati fattori limitanti a rallentarne la
corsa.
È questa la storia della nostra specie. Noi Homo sapiens ,
pur frenati da vari fattori geografici e bio-ecologici o dalla presenza
di altre varietà umane — come i Neanderthal, gli ultimi Homo erectus o i
cosiddetti «denisoviani» (quell’umanità arcaica dell’Asia continentale
che ci è nota sulla base del Dna estratto da un frammento di falange di
dito mignolo o poco più) — ci siamo diffusi a un ritmo incalzante. Come
ci viene mostrato dai dati archeologici, paleontologici e genetici, la
specie compare in Africa sub-sahariana intorno a 200 mila anni fa e le
occorre circa la metà di questo tempo per «saturare» il continente e
«traboccare» in Asia sud-orientale. I primi Homo sapiens extra-africani
sono stati rinvenuti in grotte dell’attuale territorio di Israele —
proprio lì, alle porte dell’Eurasia — e hanno datazioni che oscillano
intorno a 100 mila anni fa. Poi tutto avviene ancora più in fretta. La
diffusione tende a mantenersi in un primo momento a latitudini basse,
tanto che uomini di aspetto e capacità culturali moderne sembrano quasi
«scivolare» lungo le coste meridionali dell’Asia e li osserviamo
arrivare in Australia verso i 60 mila anni fa, ben prima che in Europa,
dove li troviamo intorno a 45 mila anni fa. Sappiamo anche che gruppi di
uomini moderni passano dall’Asia orientale alle Americhe, attraversando
un ponte di terra dove oggi c’è lo stretto di Bering, 20 mila anni fa
circa.
Nel corso della successiva storia evolutiva della specie,
la tecnologia e la cultura hanno costituito il veicolo di una
distribuzione geografica pressoché ubiquitaria, attenuando le pressioni
della natura intorno a noi e favorendo l’adattamento di un’unica specie
(le altre a questo punto si sono estinte) ai contesti più disparati e
abitabili: dalle pianure alle alte montagne, nelle foreste tropicali
come nei deserti più aridi, in prossimità dei ghiacciai circumpolari o
ingabbiati in affollate metropoli, con tanto di smog. La capacità che
abbiamo avuto di rispondere alle pressioni selettive, utilizzando
diverse modalità e strategie di adattamento, sono la chiave di questo
successo, ma anche dell’attuale drammatico livello di sovrappopolazione.
La
comparsa della specie moderna del genere Homo segna dunque un momento
importante di discontinuità, una sorta di «punto zero» da cui si è
originata la diversità biologica e culturale che oggi è sotto i nostri
occhi. È come se, con la comparsa di Homo sapiens , un evento piuttosto
circoscritto, un singolo punto nello spazio e nel tempo, si
concentrassero tutte le acquisizioni di quella «genealogia di prodigiosa
lunghezza» di cui scriveva Charles Darwin nel libro L’o rigine
dell’uomo e la selezione sessuale (1871). Qui si concentrano tutte le
caratteristiche che abbiamo ereditato dalle origini della vita sulla
Terra e poi dai vertebrati, dai mammiferi, dai primati e, non ultime,
quelle acquisite nel corso dell’evoluzione umana. Così la nuova specie,
portando con sé questo formidabile bagaglio, ha iniziato la sua storia
di diffusione e diversificazione. Da questo «punto zero» l’evoluzione ha
creato un feedback , quasi un cortocircuito, dove una sola specie ha
nelle sue mani — le mani di un primate — il destino di tutte le altre.
Che sia un circolo vizioso o invece, come speriamo, un circolo virtuoso
starà tutto nella nostra capacità di governare noi stessi e di gestire
il ruolo determinante, il potere che abbiamo per la nostra sopravvivenza
e per il futuro dell’intero pianeta.
E questo futuro ci appare
oggi per molti versi problematico. Se, ad esempio, guardiamo al profondo
divario che esiste e che aumenta sempre più tra i popoli più ricchi e
quelli poveri. Così come se pensiamo alle migliaia, anzi ai milioni,
meglio alle centinaia di milioni di migranti che si spostano, anzi
dilagano — come la tracimazione di un lago, come un bacino idrico che ha
rotto la diga di contenimento e colma d’acqua i territori più a valle,
travolgendo strade, ponti e centri abitati — verso di noi, cioè
nell’unico senso possibile: dai territori dei popoli poveri verso quelli
dei ricchi.
Ci possiamo allora domandare: esistono un nesso e una
continuità tra l’espansione di areale, le diffusioni geografiche di
intere specie che abbiamo imparato a conoscere nel tempo profondo del
Paleolitico e queste nuove migrazioni dei tempi brevi della storia
contemporanea? Molto meglio di me, rispondono alla domanda sia Guido
Chelazzi che Valerio Calzolaio e Telmo Pievani nelle loro lucide e
dettagliate analisi, dove passano in rassegna il fenomeno migratorio ben
aldilà delle preistoria antica, esaminando il fenomeno anche nel corso
della preistoria recente e nei diversi periodi storici. E in effetti i
punti di contatto sono parecchi. Soprattutto la spinta demografica
sembra essere un «motore» attivo ieri come oggi, ma anche la
direzionalità a senso unico è simile: dalla povertà di risorse verso una
maggiore ricchezza di risorse, dal territorio più affollato verso
quelli relativamente meno affollati. Così come i primi Homo o i più
antichi Homo sapiens si spostavano verso nuove regioni dove praticare
più agevolmente la caccia e la raccolta, ora i poveri si spostano dove
pensano di poter trovare migliori e più agevoli risorse per la
sopravvivenza.
Vedo però anche importanti differenze. Certamente
c’è una questione di numeri. La sovrappopolazione oggi tocca livelli che
sono ben maggiori di quelli anche solo di pochi decenni o di un secolo
fa. A spostarsi non sono oggi piccole bande che, crescendo di numero, si
frazionano sempre più nel corso del tempo. Qui il livello di guardia è
già stato superato da tempo (e di parecchio); non parliamo certo di
bande, bensì di un fenomeno che, semmai, assomiglia di più a un fiume in
piena.
Poi ci sono le risorse tecnologiche del terzo millennio,
che — sia pure a costo di viaggi disperati e di devastanti quantità di
morti lungo la strada o in mare aperto — rendono il fenomeno molto più
rapido e non più transgenerazionale, come era stato solitamente in
passato. Qua davvero possiamo usare il termine «migrazione/i», visto che
a spostarsi sono masse di individui nell’arco di un tempo decisamente
inferiore all’aspettativa di vita di ciascuno di loro.
Ma
soprattutto, a mio avviso, il fenomeno attuale segna un’inversione di
tendenza nei rapporti fra le parti in gioco. Nella preistoria a
diffondersi erano i vincenti — quelli più adatti, quelli ecologicamente e
demograficamente di successo — oggi invece a diffondersi sono i poveri
della Terra, che dalla loro hanno solo la sovrappopolazione e la
disperazione. In questo vedo un aspetto paradossalmente positivo. Se in
passato l’effetto di una diffusione dei più «forti» finiva per
comportare la marginalizzazione delle popolazioni che incontravano, oggi
a governare la scena ci sono, ci devono essere da parte nostra altre
parole-chiave: accoglienza e integrazione.