Repubblica 6.6.16
Il grande errore laico dei padri fondatori
Da Ben Gurion a Nehru gli statisti hanno sottovalutato la religione
Il saggio di Michael Walzer
di Giancarlo Bosetti
David
Ben Gurion, il fondatore e primo capo di governo di Israele era un
convinto sostenitore dell’“ottimismo laico”, apparteneva cioè al novero
molto diffuso dei politici e degli intellettuali che nel secolo scorso
ritenevano la religione una forma di cultura tradizionale destinata a
lasciare il passo alla modernizzazione dei costumi e alla razionalità
scientifica, cose che il nuovo stato avrebbe incoraggiato. Da primo
ministro concesse facilmente la esenzione dalla leva militare ai giovani
delle scuole ebraiche “yeshiva”, perché era convinto che in pochi anni
le redingote nere degli haredi sarebbero rimaste poco più che un
ricordo, o una piccola enclave, come negli Stati Uniti
quella
degli Amish o dei Mennoniti. Raramente previsione è stata più sbagliata.
E raramente un errore è stato così diffuso tra le classi dirigenti di
tanta parte del mondo. Israele non è in questo per niente una eccezione.
Gli
sviluppi degli ultimi vent’anni del Novecento e l’avvio del nuovo
secolo hanno proposto il revival e la radicalizzazione delle religioni
in un modo che ha spinto Michael Walzer a interrogarsi su tutte le
possibili radici del fenomeno. In The Paradox of Liberation, Secular
Revolutions and Religious Counterrevolutions, (Yale University Press) il
filosofo di Princeton ritrova il medesimo errore in tre casi esemplari
(insieme a Israele, India e Algeria) che esamina più in profondità, ma
che presentano somiglianze con tanti altri (dall’Egitto di Nasser alla
Turchia di Ataturk, passando per la Siria del Baath): élite secolari
(autoritarie o democratiche) ispirate dalla stessa fiducia modernista e
decise a utilizzare lo Stato come strumento della secolarizzazione.
Ebbene nei tre casi esaminati il fondamentalismo religioso ha oggi un
potere che avrebbe sconcertato non solo Ben Gurion, ma anche Jawaharlal
Nehru, alla guida dell’India indipendente nel 1947, e Ahmed Ben Bella,
primo presidente della Algeria liberata nel 1962.
In Israele la
forza politica dell’estremismo religioso condiziona ora tutta la vita
politica; in India il partito confessionale induista è al governo; in
Algeria una dittatura militare ha messo fine alla guerra civile contro
le milizie islamiche. Michael Walzer è tentato da una teoria generale —
gli errori di quelle élite e il distacco giacobino dalla cultura del
loro popolo sono tra le cause del fanatismo religioso oggi avanzante —
ma tiene sotto controllo la tentazione, perché, dice di sé stesso, con
esagerata modestia «ho sempre avuto difficoltà a sostenere un argomento
astratto per più di poche frasi». E dunque si vuole attenere ai fatti.
Ed eccoli.
L’India: Nehru teorizzava la battaglia contro la
religione perché essa insegna «una filosofia della sottomissione…
all’ordine sociale prevalente e a tutto quello che c’è», comprese le
caste e il comando degli inglesi. Qui fuori posto è Gandhi. Questi
condusse la sua battaglia contro la discriminazione degli Intoccabili (
Dalit), ma preoccupandosi di non rompere con la spiritualità induista e
di integrarla in una visione pluralista con il cristianesimo e con
l’islam. Ma determinante fu il fatto che il Mahatma concesse la
successione a Nehru. E il leader Ambedkar ( Dalit), altro padre della
moderna India, accentuò ulteriormente il tratto politico antireligioso.
L’Algeria:
qui Frantz Fanon, il filosofo terzomondista, portavoce del Fronte di
Liberazione parlava di «un nuovo tipo di algerino ». Il gruppo dirigente
era composto per lo più da laici, marxisti o socialisti, anche se il
manifesto iniziale del movimento faceva riferimento ai principi
dell’islam. Ben Bella, lettore di Sartre, Lenin e Malraux, parlava di
socialismo islamico, ma i suoi critici vedevano in lui molto socialismo e
poco islam. Israele: del credo secolarizzante e modernizzante di Ben
Gurion abbiamo detto. Ma lo stesso fondatore del sionismo Theodor Herzl,
aveva una cultura tipicamente nazionalista in tensione con la religione
ebraica in quanto tale. E la stessa cosa, paradosso nel paradosso, si
può dire per Arafat, il leader dell’Olp: era una marxista e un
nazionalista e si ispirava molto più a Fanon e al Fnl algerino che al
Corano. E anche in Palestina il radicalismo di Hamas scala il potere
negli anni Ottanta. L’analisi di Walzer scopre con la consueta
sorprendente semplicità di linguaggio fatti e idee che documentano come
le rivoluzioni che hanno fondato nuovi Stati hanno visto condottieri in
conflitto culturale con le genti che hanno guidato (cosa vera già a
cominciare da Mosè, educato alla corte del faraone). Un distacco che non
era lontano dal disprezzo (Nehru per l’induismo, per esempio). La
teoria da cui il filosofo ebreo-americano è tentato, e che lascia al
lettore il desiderio di formulare, è che il mondo contemporaneo sta
pagando il prezzo di quell’errore.
Dove i “padri fondatori” di
quei paesi sbagliarono gravemente non fu nel correggere i vizi della
tradizione religiosa (le caste, la sottomissione della donna, il rifiuto
della modernità), ma nel modo in cui lo fecero. Invece di impegnarsi e
sfidare queste tradizioni a trarre dal loro interno le ragioni per
superare pratiche e idee contraddittorie o aberranti, usarono un metodo
“archimedeo” (datemi una leva…), esterno. In questo modo quelle élite
non conquistarono una vera egemonia, “imposero” una cultura, ma non
negoziarono con essa. E hanno fallito, non sapendo riprodurre la loro
modernità nelle nuove generazioni. E anche nelle loro promesse di
eguaglianza e pluralismo offerte allora, agli arabi in Israele, ai
musulmani in India, ai berberi in Algeria.
Michael
Walzer insegna a Princeton. Il suo ultimo libro è The Paradox of
Liberation. A destra, Ben Gurion ritratto su una banconota israeliana