Repubblica 5.6.16
I tabù del mondo
La triste parabola dell’arte politica ha generato mostri
Per
i populisti ogni differenza deve essere annullata ogni dissenso
appianato Tutto nel nome di una coincidenza assoluta tra il Bene e il
Popolo
Secondo Aristotele il governo della polis richiedeva
un’abilità superiore a tutte le altre, una continua opera di
mediazione. Ma già Platone metteva in guardia dai rischi della demagogia
Bisogna fare attenzione al medico che offre dolci senza preoccuparsi di
trovare la cura giusta
di Massimo Recalcati
Il
discredito che ha colpito l’arte della politica è sotto gli occhi di
tutti e trova una delle sue ragioni più evidenti nel comportamento
corrotto di molti politici. Ma esiste una ragione ancora più profonda
della sua perdita di prestigio: il nostro tempo è infatti allergico a
tutto ciò che impone qualunque differimento alla soddisfazione immediata
della pulsione. La politica come difficile arte della mediazione di
interessi differenti e conflittuali per il bene comune della polis
appare come un intralcio fastidioso alla realizzazione del programma
della pulsione che esige il suo soddisfacimento senza differimenti. Di
qui – più profondamente che non a causa della sua corruzione –
l’accanimento critico che colpisce l’arte della politica. Nondimeno è
proprio la sua vocazione al confronto con la pluralità dei protagonisti
della vita della città e della loro necessaria mediazione che la rendeva
già agli occhi di Aristotele un’arte superiore a tutte le altre. Questo
significa che la vita della città non scaturisce dalla spinta
affermativa di interessi particolari che diventano egemoni, ma dal
concerto delle loro differenze. Senza la faticosa opera di mediazione
alla quale l’arte della politica è votata, la vita della città sarebbe
facilmente preda della demagogia populista o della tentazione
autoritaria. Mentre la seconda elimina le ragioni della politica con il
ricorso al potere sovrano del padre- padrone, della prima, oggi di
grande attualità, Platone ne fornisce un ritratto efficace quando
equipara il politico degno di questo nome ad un medico che si preoccupa
della salute di bambini malati (la città) prescrivendo ad essi le giuste
diete e i giusti rimedi nonostante possano nell’immediato risultare
difficili da digerire, paragona il demagogo-populista a colui che
anziché seguire la linea difficile e severa della cura ammalia i suoi
piccoli pazienti offrendo loro i dolci più prelibati.
L’immagine
di Platone è lucidissima nell’isolare la scaltrezza del demagogo, la
quale consiste nel dare al popolo quello che il popolo chiede senza
preoccuparsi del destino della città. Tutto il suo operare è asservito
all’ottenimento del più largo consenso nel più breve tempo possibile. È
l’essenza anti-politica del populismo che comporta una disgregazione
falsamente libertaria del concetto di rappresentanza. Il politico
dovrebbe essere soppresso dal Popolo o dovrebbe coincidere con il Popolo
stesso in una simbiosi che, in realtà, ha storicamente sempre generato
mostri. È il sogno sbandierato qualche tempo fa da un movimento
populista nostrano: ottenere il 100 per cento del consenso parlamentare
per realizzare l’identificazione integrale dei cittadini con lo Stato.
Non deve sfuggire il carattere seduttivo e incestuoso di questa
ambizione: ogni differenza deve essere annullata, ogni dissenso
appianato, ogni cultura particolare estinta nel nome di una coincidenza
assoluta tra il Bene e il Popolo. La difficile arte dell’integrazione di
soggetti e interessi differenti di cui si incarica l’arte della
politica deve lasciare il posto ad una fusione tra Stato e cittadini che
vorrebbe liquidare la politica come un vecchio tabù da dimenticare. I
Partiti sono una casta che il capo carismatico di quello stesso
movimento populista nostrano ha una volta definito “letame”.
L’anti-politica cavalca l’illusione di identificare il Popolo col Bene
contro la politica come difficile pratica della mediazione dei
conflitti. Il conflitto politico in quanto tale viene sostituito dalla
lotta tra il Bene (il popolo) e il Male (la politica e i politici) senza
rendersi conto che la demonizzazione della politica coincide con il
collasso della vita stessa della città. La retorica populista odia la
sfumatura, l’analisi, la complessità, la contraddittorietà, gli
intellettuali, il pensiero critico, il disordine che accompagna la vita
della città. La sua inclinazione paranoica si sposa con una
idealizzazione infantile di sé stessa che esclude il disagio che
comporta il confronto con il dissenso sia interno che esterno. In un
recente libro intervista titolato
Corpo e anima (Minimum fax
2016), curato da Christian Raimo, Luigi Manconi, ex-leader di Lotta
continua, protagonista del movimento Verde in Italia e attualmente
senatore per il Pd, prova a restituire, nel tempo dell’antipolitica, la
giusta dignità all’arte della “politica” ripensandola radicalmente dai
piedi”, sottraendola alle chimere totalitarie degli universali: la
politica non si occupa dell’Uomo, del Popolo, della Storia, della
Solidarietà astratta, ma solo di nomi propri, di persone in carne e
ossa, di corpi, di esistenze reali, plurali, soprattutto di quelle che
appaiono ai margini della vita sociale. Dal vertice di questa allergia
verso l’universalismo, Manconi propone una definizione lucida e precisa
della politica come “governo del disordine”, sforzo per “trovare un
posto al disordine”. È l’esatto contrario del sogno paranoico- populista
dell’affermazione assoluta del Bene contro il Male. Non si tratta né di
imporre l’Ordine con la violenza (tentazione autoritaria), né di
annullare la rappresentanza seguendo la retorica dell’ideale benefico
del Popolo (tentazione populista), ma di prendere atto che la vita della
polis implica necessariamente il disordine della vita: «Intrecci,
innesti e contaminazioni e non un’autarchica sistemazione di tratti
originari esclusivi ed escludenti».