lunedì 6 giugno 2016

Corriere Fiorentino 5.6.16
La Pazza gioia di Paolo Virzì /2
Letizia Del Pace
«Racconto di parte Un tentativo di suicidio non è romanticismo»
intervista di Gabriele Ametrano

«La Pazza Gioia è un film che ti lascia una sensazione di perplessità. Non posso dire che mi è piaciuto: quel sentimento di divertimento e quella commozione che vuole creare nello spettatore li trovo inadeguati se trattiamo temi complessi e sensibili quali la malattia mentale».
Letizia Del Pace è psichiatra e psicoterapeuta, formata con la teoria di Massimo Fagioli nell’analisi collettiva. Libera professionista, collabora anche con alcuni istituti scolastici nella prevenzione dei comportamenti a rischio degli adolescenti.
In cosa è inadeguata la ricostruzione della storia di Virzì?
«Innanzitutto il film è espressione della psichiatria democratica nata da Basaglia. Il cavallo azzurro che a un certo punto viene inquadrato è il simbolo di questo approccio alla malattia, secondo il quale il malato di mente dev’essere libero di esprimere la propria soggettività».
Ci spieghi meglio...
«Partiamo dalla comunità terapeutica in cui le protagoniste sono ospiti: l’approccio al malato è pieno di empatia e compassione. Dicono ti voglio bene, si abbracciano. Viene rappresentato il prendersi cura e non la necessità di curare la malattia mentale. Il prendersi cura è di per sé negazione dell’esistenza della malattia. L’equipe di psichiatri sembra marginale e contornata addirittura da suore. In questo il regista rappresenta, credo inconsapevolmente, l’alleanza tra l’esistenzialismo della psichiatria democratica, che si rifà al concerto di male radicale insito nell’uomo, e il cattolicesimo che parla di peccato originale. Da qui deriva un concetto di rassegnazione all’ incurabilità».
E quali possono essere invece altri approcci alla malattia mentale?
«Il malato ha perso la propria sanità originaria, quindi la propria identità. Se partiamo da questo assunto la cura significa far ritrovare al paziente questa identità e non essere con lui caritatevoli. Infatti alla base della terapia c’è la frustrazione della violenza che deriva dall’odio e dall’anaffettività. Queste ultime dimensioni sono la causa dell’etero ed auto distruttività come il gesto estremo di Donatella, interpretato dalla Ramazzotti. Rifiutare l’idea di un male/malattia originaria consente di individuare la causa nei rapporti interpersonali, in particolare quelli dei primi anni di vita».
Quindi come dobbiamo leggere la scena del tentativo di suicidio/omicidio?
«La donna che tenta di uccidersi e uccidere il proprio figlio è una donna gravemente malata. Il regista, invece, ne fa una scena romantica, con inquadrature in acqua che sembrano voler comunicare dolcezza e serenità. In quel momento la donna è caduta nella più completa anaffettività che travolge il bambino. Una donna si ammala e diventa anaffettiva quando le viene negata l’identità, allora può arrivare ad uccidere il proprio bambino, perché questo rappresenta quella sanità che lei ha perso. Dobbiamo commuoverci davanti a simile gesto? No, non può esserci romanticismo in tutto questo. Nel film l’unica nota positiva è che si mette in relazione la malattia delle due donne con rapporti malati vissuti in famiglia e con gli uomini».
E cosa pensa dell’equipe che segue le donne nella comunità?
«Gli psichiatri sono rappresentati marginalmente, ed è inverosimile che insieme agli operatori rincorrano le due donne nel centro commerciale. Esistono precise procedure da seguire in caso di fuga, soprattutto se c’è una pericolosità sociale. Diciamo che la fiction ha prevalso sulla realtà, ed anche questo può diventare fuorviante. C’è solo un soggetto nell’equipe multidisciplinare rappresentato nel film che interpreta veramente il ruolo dello psichiatra, quello che agli occhi del pubblico risulta il più antipatico perché si oppone alla libera uscita delle due donne».
Dunque, è un film di parte?
«Dal punto di vista psichiatrico non mi ci riconosco perché vedo un vuoto teorico. Da psichiatra che cura con la “teoria della nascita” ritengo necessario affrontare la realtà non cosciente del paziente, in quanto è questa che si ammala prima ancora che emergano i sintomi comportamentali. Inoltre, oggi c’è troppa paura della diagnosi quando invece è un momento essenziale dello psichiatra affinché possa avviare un valido percorso di cura, solo così si può pensare a una cura per la guarigione».