Corriere Fiorentino 5.6.16
La Pazza gioia di Paolo Virzì /1
Giuseppe Dell’Acqua
«È il film delle emozioni. Sul disagio mentale si può ridere e piangere»
intervista di Antonio Montanaro
De
La Pazza gioia è stato consulente per la sceneggiatura. Anzi, qualcosa
di più: «Nel 2013 ho ricevuto una gentilissima telefonata da Paolo Virzì
che aveva avuto il numero da un amico comune, mi ha parlato dell’idea
del film e voleva sapere dei manicomi giudiziari, in pratica con molta
ironia mi ha chiesto di aiutarlo perché non voleva raccontare cazzate». E
così Giuseppe Dell’Acqua, psichiatra, collaboratore di Franco Basaglia
fin dai primi giorni triestini (così recita il suo curriculum), i
personaggi di Donatella e Beatrice li ha visti nascere e crescere,
contribuendo a delineare i luoghi di cura dove si muovono e dai quali
fuggono: «C’è – sottolinea — più di una citazione al Viaggio di Marco
Cavallo , un docu-film che racconta gli oltre cinquemila chilometri che
abbiamo fatto tre anni fa per entrare in tutti gli ospedali psichiatrici
giudiziari italiani».
Dunque, il suo giudizio sull’opera di Virzì non può che essere positivo...
«Sì,
perché nella narrazione emergono le persone, le tensioni, i dolori, le
passioni, il divertimento. Ed è lì che possiamo emozionarci. Perché
anche se una persona uccide, se una persona nel delirio fa determinate
cose, se si riescono a mettere insieme i pezzi della sua storia, se non
si fanno fratture esistenziali con le diagnosi, diventa tutto
comprensibile, tutto umano».
Ma non pensa che venga fuori, come ha
fatto notare la psichiatra Liliana Dell’Osso, una visione stereotipata e
caricaturale della malattia mentale?
«No, non c’è questo rischio.
Basaglia voleva scappare dagli ospedali psichiatrici perché con la
psichiatria non poteva far altro che confermare quello che vedeva e cioè
l’assenza dell’altro: la malattia mentale è assenza, sancisce
l’assenza. Allora lui ha messo tra parentesi la malattia. Attenzione:
non l’ha negata, ha semplicemente messo in secondo piano la diagnosi per
incontrare l’altro e portarlo alla cura che è soprattutto fuori dalle
cliniche e dagli ospedali: nel lavoro, nelle relazioni, nella coscienza
dei propri diritti. Piuttosto la caricatura la fanno certi psichiatri
con le loro diagnosi, che caricano le persone di stigma, di destini
tragici».
Così lo psichiatra viene descritto più come un accudiente che come un medico...
«Per
anni noi che andavamo in giro a cercare i pazienti che scappavano, a
portarli in giro, a farli lavorare venivamo chiamati dalla scuola di
Pisa e di Milano “assistenti sociali” non psichiatri. Io sono convinto
che il lavoro terapeutico, la recovery, la rimonta, può esserci solo se
c’è vicinanza, calore umano all’esterno della persona. L’interno lo
tocchiamo con i farmaci, con la psicoterapia, ma è il mondo esterno che
dobbiamo rendere accogliente. Questo film dovrebbe essere visto con
attenzione dagli studenti, perché Virzì rappresenta la psichiatria che
parla di futuro».
Invece c’è chi pensa che sia legata al passato,
perché sia la ricerca farmacologica che quella terapeutica ha fatto
tantissimi passi in avanti...
«Non sono d’accordo. La pazza gioia
parla di salute mentale, di una psichiatria gentile, che cerca di
collocare il disturbo all’interno di un discorso molto più complesso che
si allontana dall’immagine clinica della malattia. Evidentemente
qualcuno si è risentito perché nel film si parla di liste di farmaci, di
elettroshock che in Italia si pratica ancora, certo per casi
eccezionali, in 9 strutture, tra cui una in Toscana. Oggi la cura si fa
dentro equipe multidisciplinari, lo psichiatra è importante ma non è più
il deus ex machina».
Non vede il pericolo di una sottovalutazione
della malattia mentale e di una sua percezione lontana dalla realtà da
parte della società?
«Nel nostro Paese la chiusura dei manicomi è
stata prima di tutto una riduzione dello stigma, perché prima i pazzi
erano lontani, se avevi una figlia matta la tenevi chiusa in casa. Oggi
non è più così e si è fatta anche una grande operazione di prevenzione,
perché le persone cercano più facilmente le cure, qualsiasi tipo di
cura. Allo stesso tempo vedo un’aggressione formidabile delle medicine e
delle psicologie che in qualche modo vanno a governare le nostre vite e
si arriva al paradosso che anche la disoccupazione per essere
combattuta ha bisogno dello psicologo, una volta si combatteva con la
bandiera rossa, oggi si invoca lo psicologo...».