Corriere Fiorentino 5.6.16
L’archivio (mai visto) della psichiatria
La malattia mentale prima dei farmaci, scoperti nella clinica di Pisa rarissimi documenti
La psichiatria prima dei farmaci A Pisa c’è un archivio mai visto
La scoperta nella clinica diretta da Liliana Dell’Osso: «Patrimonio unico che descrive una realtà complessa»
di Cinzia Colosimo
PISA
Marisa chiede all’amica di Forte di descriverle il suo campo da tennis,
di cui sembra avere nostalgia, e le scrive: «Ho trovato anche qui una
compagnia, però non tanto allegra». Qualche pagina più avanti c’è la
storia di una donna pisana di 38 anni, ritratta come «clamorosa,
logorroica, scomposta». Dalle carte si sa solo che ha subito una
tragedia familiare, «continua a stare sul letto, di nulla chiedendo, di
nulla interessandosi». È stata ricoverata sei mesi per «frenosi
isterica». La storia di Corrado invece è del 1925 e di lui si sa che ha
partecipato alla grande guerra ed era affetto da psicosi post-bellica.
Una vita avventurosa, descritta con dovizia da parenti ormai stanchi di
inseguirlo in tutta Italia, dove scappava continuamente da Genova, a
Lucca, a Bari. Addirittura lo trovarono a Vienna, da cui mandò una
cartolina, quasi per burla, ai familiari: «Si spiritus pro nobis, quis
contra nos?».
Centinaia di documenti che sembravano sepolti stanno
riemergendo dalla clinica psichiatrica di Pisa, dove sono stati
recentemente recuperati e sottratti al macero. Sopravvissuti ad anni di
allagamenti e abbandono, li ha trovati per caso la professoressa Liliana
Dell’Osso, direttore della clinica, su segnalazione della caposala Mara
Mori, quando ha visto passare il carrello con i volumi: troppo
«vintage» per passare inosservati. «Mi sono accorta subito di avere in
mano del materiale prezioso, e l’ho recuperato», racconta, mentre apre
gli scaffali.
Cosa c’è
L’archivio va dal 1906 alla fine
degli anni ‘60. Una decina di volumi coprono gli anni più suggestivi, i
primi vent’anni del ‘900 quando l’orizzonte della psichiatria era
ancora, come lo definisce Dell’Osso «quello del nichilismo terapeutico».
L’approccio alla salute mentale era pieno di lacune, e gli anni sono
quelli che precedono l’avvento della terapia farmacologica. Tra i
documenti ci sono i registri dei pazienti ricoverati, referti,
comunicazioni di natura amministrativa e giuridica, lettere di medici,
pazienti, familiari, disegni, fotografie e persino foglietti
pubblicitari di farmaci. «Materiali complessi e strutturati a diversi
livelli», spiega Dell’Osso. «Per questo ho costituito un’equipe di
ricerca multidisciplinare per studiarli al meglio». Sotto la sua
direzione, «la raccolta dei dati è stata affidata a Barbara Carpita,
allieva della Scuola di Specializzazione in Psichiatria. La
ricostruzione più strettamente storica e l’analisi delle fonti è stata
invece affidata a Dario Muti, dottorando in Storia della Scienza». Una
volta completato l’inventario, sono in programma diverse pubblicazioni,
in attesa di una collocazione definitiva dell’archivio.
Il ritratto
Anche
se lo studio è ancora in corso, è già possibile tracciare qualche
profilo di un ritratto, seppur parziale, della psichiatria di quegli
anni. L’immaginario è quello di una realtà associata immediatamente ai
manicomi e ai reparti dai nomi angoscianti, come «Pazzeria uomini». «Si è
spesso considerata la clinica psichiatrica pre-farmacologica come
prevalentemente detentiva — conferma Dell’Osso — per tutelare la cosa
pubblica, si tratteneva il malato all’interno della struttura, perché
potenzialmente nocivo per il tessuto sociale. Da un’analisi preliminare
emerge invece una dinamica diversa. La clinica sembrava svolgere
piuttosto un lavoro di accreditamento legale della malattia».
La
clinica, spiega, «doveva certificare lo stato morboso, ed eventualmente
ricollocare il malato sul territorio sotto la tutela di un familiare che
ne prendeva la responsabilità». Sono centinaia infatti le pagine con
elenchi di pazienti e la nota: «Consegnato al padre, consegnato alla
moglie, consegnato al figlio». È fitta anche la corrispondenza fra le
procure, le amministrazioni provinciali, i Comuni e la clinica. Questa
certificazione, aggiunge, «era sempre reversibile, e l’opzione manicomio
era certo prevista per pazienti molto gravi, privi di parenti,
particolarmente agitati. In assenza di una valida terapia, e di un
affidamento legale, questa risultava allora l’unica scelta possibile».
Ma in alcuni casi, come emerge dai registri, si tornava anche indietro:
«Una dinamica che si allinea a quanto di recente è stato pubblicato
riguardo alla storia della psichiatria, che mette in luce una realtà ben
più complessa di quella delle ricostruzioni storiografiche classiche».
Le storie
La
clinica serviva prevalentemente la popolazione della provincia e della
città di Pisa, ma anche delle province di Livorno e Firenze e accoglieva
persone un po’ da tutta Italia, di ambo i sessi e di tutte le
estrazioni sociali. Uno sguardo più ampio, svela «problemi di natura
sociale sull’affidamento di categorie vulnerabili, la cui criticità è
ancora attuale». Sono ancora le storie dei pazienti a confermarlo. In un
carteggio ecco che una madre e un figlio discutono del ricovero; lei è
scontenta, vorrebbe tornare a casa e promette al figlio «che sarà
buona», ma lui non ne vuole sapere: «Non c’è luogo migliore di cotesto
per la cura della tua malattia». Giulio invece era infuriato con i
genitori che lo avevano ricoverato in clinica, anche se solo per 15
giorni di osservazione: «Mi avete tagliato le mani e le gambe e mi avete
scorciato la vita di 10 anni; era meglio mille volte in galera che in
un fondo del manicomio in mezzo ai matti». Poi i saluti, quasi sempre
affettuosi, pieni di fiducia o di richieste, talvolta di ascolto; più
spesso, allora come oggi, di necessità: «Mi raccomando non mi fate
mancare le sigarette».