Repubblica 4.6.16
La democrazia senza velo
di Paolo Flores d’Arcais
LA
SOCIETÀ belga “G4S Secure Solutions” ha come norma che i dipendenti non
possano esibire segni di appartenenza religiosa. Samira Achbita dopo
tre anni di lavoro pretende di indossare il velo islamico e l’azienda la
licenzia. Il “Centro belga per le pari opportunità e la lotta al
razzismo” fa causa alla società e la Cassazione del Belgio investe del
problema la Corte di giustizia europea, il cui avvocato generale,
Juliane Kokott, conclude a favore dell’azienda.
Sumaya Abdel
Qader, leader musulmana “progressista” e candidata del Pd al Consiglio
comunale di Milano, si indigna: «Mettersi il velo è una pratica
religiosa, che dovrebbe essere garantita dall’ordinamento giuridico a
tutela della libertà religiosa». Sumaya Abdel Qader ha torto, e con lei i
moltissimi “multiculturalisti” di una “sinistra” anti-illuminista che
ha completamente perduto la bussola dell’eguaglianza e
dell’emancipazione. In una società democratica i simboli religiosi
dovrebbero anzi essere vietati in tutti gli uffici e servizi pubblici,
scuola in primis (e il divieto dei privati non dovrebbe essere
considerata discriminazione).
Un ufficio pubblico è infatti un
bene comune, deve appartenere a tutti, non solo ai cittadini
diversamente credenti ma a tutti i diversamente miscredenti e atei.
Laddove si esibisca o campeggi un simbolo di appartenenza religiosa
quello spazio è sottratto a quanti non vi si riconoscono, è confiscato e
privatizzato. Che i simboli religiosi consentiti siano più di uno non
cambia nulla, lottizza la confisca tra alcune fedi, ma una
prevaricazione plurale sempre prevaricazione resta. Per garantire
eguaglianza bisognerebbe che ogni possibile religione (compreso il “Dio
degli spaghetti volanti” la cui Chiesa è ufficializzata negli Usa) e
ogni possibile ateismo avessero i propri simboli appesi alle pareti, ma
così non saremmo allo spazio comune bensì al bailamme delle identità in
conflitto. Esattamente l’opposto dell’eguale cittadinanza, l’unica
appartenenza che una democrazia riconosce.
Sumaya Abdel Qader e i
“multiculturalisti” di “sinistra” naturalmente sono in buona compagnia,
il Papa, niente meno. Non solo il fondamentalista Karol Wojtyla e il
teologo della crociata contro la modernità Joseph Ratzinger, per i quali
l’aborto è “il genocidio del nostro tempo” (medici e infermieri che
rispettano la volontà della donna all’interruzione della maternità messi
moralmente sullo stesso piano di un Ss, del resto l’anatema di Wojtyla,
perché non vi fossero dubbi, fu pronunciato in Polonia a pochi
chilometri da Auschwitz), ma anche il buonissimo e apertissimo Francesco
che manda ormai in estasi fior di “laici” in debito di “Senso” e
marrani del valore fondante e irrinunciabile della sinistra,
l’eguaglianza sostanziale.
Ma questa convergenza, che vorrebbe le
fedi religiose come humus per la democrazia contro il pericolo
nichilista, e che ha affatturato anche pensatori un tempo di riferimento
come Habermas, non fa che rendere esplicita e improcrastinabile per
l’intera Europa (se ancora ha una chance di nascere) la necessità di
radicarsi in una laicità coerente e adamantina, quella “alla francese”,
rettificata anzi in alcune sue “concessioni” (scuole private, ad
esempio).
La democrazia per funzionare, infatti, e più che mai per
uscire dalla sua devastante crisi attuale, ha bisogno di decretare
l’ostracismo di Dio dalla sfera pubblica. Valga il vero.
L’eguale
sovranità non consiste nella mera conta delle volontà, ma
nell’argomentazione reciproca con cui i cittadini mettono capo alla
decisione della legge attraverso la scelta dei loro rappresentanti. Se
la sfera pubblica si riduce alla semplice conta di volontà irrelate e
non vincolate al dovere di “fornire ragioni”, il terreno è già fertile
perché si passi dal “perché sì” del voto al “perché sì” del manganello.
Un cittadino, e un politico, devono argomentare le proprie scelte,
condizione pregiudiziale (benché non sufficiente) per essere tutti
concittadini. Ma ogni argomento-Dio nega il dialogo, è autoreferenziale,
ne esclude i non credenti o i diversamente credenti, ecco perché il
ricorso alla fede non deve avere spazio nella sfera pubblica. Solo i
fatti accertati, la logica, e i valori fondamentali della Costituzione
(per la nostra, nata dalla Resistenza, suonano “giustizia e libertà”).
Se invece si può “argomentare” perché “Dio vuole così” (lo hanno fatto
fin troppi presidenti americani) siamo già alla sharia. Che non a caso,
con la benedizione di governi “cristiani”, è ormai vigente in molti
ghetti delle metropoli europee.
L’autore è direttore della rivista “ MicroMega”