sabato 4 giugno 2016

Repubblica 4.6.16
I partigiani del referendum e il diritto di Benigni
di Nadia Urbinati

RISPONDENDO alla domanda di Ezio Mauro se non avesse paura di passare per renziano confessando di votare Sì al referendum costituzionale, Roberto Benigni ha rivendicato il diritto di votare come pensa e non per conformarsi a chi non si conforma. E il diritto di votare implica il diritto di schierarsi: “Non voglio rimanere neutrale, lavarmene le mani dicendo che faccio l’artista, voglio essere libero. E la libertà non serve a nulla se non ti assumi la responsabilità di scegliere ciò che credi più giusto”. Risposta pertinente perché coerente ai due principi aurei della democrazia liberale e non plebiscitaria: votare con la propria testa e non con quella del leader, e rivendicare il valore del voto che è e non può che essere partigiano. Voto schierato non voto plebiscitario. È questa la distinzione che oggi è difficile fare e mantenere. All’origine della difficoltà vi è stata la decisione di Matteo Renzi di identificare il Sì con la sua persona e il suo governo, trasformando il No automaticamente in un giudizio sulla sua persona e in una causa di instabilità politica.
Questa trappola ci impedisce di battagliare da “partigiani amici”, come direbbe Machiavelli, e ci fa essere “partigiani nemici”. I primi sono quelli che si schierano nella libera competizione delle idee per favorire o contrastare un progetto politico. I secondi sono quelli che personalizzano la lotta politica mettendo nell’arena pubblica non le ragioni pro e contro un progetto, ma le rappresentazioni colorite delle tipologie di chi sta da una parte e dell’altra. I primi si rispettano come gli avversari di una battaglia legittima, i secondi si offendo e creano le condizioni per un risentimento che sarà difficile da dimenticare.
È da anni, da quando Silvio Berlusconi “scese in campo”, che la lotta politica ha preso la strada dello stile teatrale, della rappresentazione estetica — con forme mediatiche che hanno lo scopo di colpire le percezioni per mobilitare le emozioni e rendere la contesa radicale, non dialogica. Di creare identificazioni non forti nelle convinzioni ideali, ma forti nella vocalizzazione e nella pittorica rappresentazione. Come se ogni battaglia fosse l’ultima, come se la catastrofe e il diluvio seguissero ad una vittoria o ad una sconfitta. È questo stile populista del linguaggio estetico e tutto privato (ingiudicabile con la ragione pubblica) che ha corroso negli anni la nostra abitudine alla lotta partigiana, trasformandola in un Colosseo, uno spettacolo che vuol vedere il sangue che colora di rosso l’arena.
Le ragioni a favore o contro passano in secondo piano. Questo succede oggi. Per cui i blog e i social network assalgono chi si schiera con il Sì come fosse un rinnegato, e offendono gravemente chi vota No come fosse un nazi-fascista, un “falso” partigiano. A chi vota Sì è affibiato il titolo di lacché del potere, a chi vota No è appiccicata l’immagine della “palude”. Chi vota No sarebbe per la conservazione e chi vota Sì sarebbe per l’innovazione e intanto non si riesce a spiegare senza essere sbeffeggiati e sbeffeggiare che cosa si vuole preservare e che cosa di desidera innovare.
Siccome i sacerdoti del Sì non possono vantare, proprio come quelli del No, alcuna privilegiata saggezza, mettiamo sul tappeto le questioni reali implicate in questa battaglia sulla nostra Costituzione: parliamo del carattere di questa nuova versione della Costituzione e degli effetti che potrebbe generare, soprattutto se accoppiata con l’Italicum. Dicevano i teorici e i politici settecenteschi che hanno teorizzato e/o scritto le costituzioni che queste devono essere scritte per i demoni non per gli angeli. E come Peter sobrio che scrive le regole per Peter ubriaco, le carte di regole e di intenti servono proprio per esorcizzare e contenere il potere, in particolare quello istituzionalizzato, nell’eventuale occorrenza che venisse tenuto da mani sconsiderate. Come Benigni, anche altri sostenitori del Sì riconoscono che il nuovo Senato è pasticciato; diversi, anche nel Pd, si preoccupano degli effetti combinati della riforma con l’Italicum, che contrariamente a quanto succede per i sindaci premia non chi ha raggiunto il cinquanta per cento, ma il quaranta per cento. È legittimo farsi queste domande e voler discutere di queste questioni. È legittimo che i cittadini democratici si preoccupino di sapere quanto potere resterà a loro, quanta forza avrà la loro voce.
E invece il clima, già da quando la proposta di revisione costituzionale era ancora in Parlamento, è stato rabbuiato dalla retorica del plebiscito. Il manicheismo fa spettacolo ma non fa prendere decisioni sagge — la deliberazione democratica deve poter contare sul fatto che si entra in una discussione con un’idea e se ne può uscire con un’altra. Ma in questa campagna referendaria abbiamo dismesso i panni della discussione: ciascuno resta dell’idea che aveva all’inizio, mentre gli incerti e gli indifferenti saranno probabilmente più colpiti da una battaglia personalizzata che ragionata. Chi sta con Renzi e chi sta contro Renzi. Per dirla con Benigni — ci facciamo tutti conformisti. A questo si giunge quando la Costituzione è fatta oggetto plebiscitario, o usata come un programma elettorale — per contare nemici e amici. Di costituzionale vi è davvero poco. Figuriamoci se questo fosse stato il clima dei Costituenti! Avremmo avuto la guerra civile non settant’anni di vita civile.