sabato 4 giugno 2016

Repubblica 4.6.16
Non perdoniamo più i nostri uomini cattivi
di Elena Stancanelli

SEMBRA che Sara lo avesse difeso. Di fronte alla madre, subito prima di essere ammazzata aveva detto che la rabbia di lui era conseguenza della sofferenza. Non è cattivo, sta male, l’ho lasciato, lo capisco. Come mai non si è accorta che quell’uomo era pericoloso, che qualunque fosse l’origine della sua rabbia, quella rabbia sarebbe diventata incontenibile, e poi mortale? Perché è difficile.
Complicatissimo passare da una condizione di intimità, e quindi di abbandono, a quella di allerta, razionalità. Una relazione, e non vorrei usare la parola amore perché qui l’amore non c’entra, è un contenitore, un ventre dentro il quale due persone si sistemano. Non si può forzare troppo, altrimenti quel contenitore si rompe. Dentro una relazione ognuno si contiene, perché si sente protetto, compreso. Quando quel contenitore si rompe, le due persone si separano e ognuna deve prendersi la responsabilità della sua vita. Si torna estranei, bisogna darsi un altro nome — amici, conoscenti, ex amanti — ed è qui che perdiamo lucidità. Quei segnali che agli altri, agli amici, ai genitori, sono evidenti, a noi sembrano trascurabili. O peggio ancora ci sembrano manifestazioni di un dolore che siamo pronti ancora ad accogliere, proteggere. Non ci fa paura, ci commuove, chiede il nostro perdono. Chi è capace in pochi giorni di cambiare del tutto opinione sulla persona con cui è stato? Chi sa dire: è vero, è un violento, un pazzo. Avete ragione voi, io ho sbagliato a giudicarlo, ad affidarmi a lui. È complicatissimo, a volte ci riusciamo ma ci mettiamo molto tempo. E qualche volta il tempo che ci serve a realizzare chi è quella persona, o almeno che cosa quella persona è diventata, è troppo. E mentre mettiamo a fuoco il mostro, quello si è già scatenato. Bisognerebbe parlare, raccontare tutto agli altri, gli amici, i genitori. Ogni minimo segnale, ogni gesto violento, ogni minaccia. Bisognerebbe stare attenti, non sentirci in colpa per esserci innamorati di qualcun altro, non pensare mai neanche per un istante di dover espiare la colpa di averlo lasciato. Bisognerebbe essere intelligenti, proprio nel momento in cui ci sente più deboli, stupidi, vulnerabili. È complicatissimo, ma una cosa semplice si può fare: allontanarsi. Evitare in tutti i modi di incontrare quella persona, non cedere alle richieste di incontri per avere chiarimenti. Non esiste nessun chiarimento di fronte alla certezza, al bisogno, di non voler più stare insieme. Tenersi fisicamente lontani, per un po’, per il tempo necessario a far raffreddare le emozioni. Proprio come se fosse un esercizio: separarsi davvero.
Non concedere all’altra persona, o a noi stessi, la possibilità di fare cose tremende. Per riuscirci basta pensare che non è per sempre, che quando la tempesta sarà passata forse si riuscirà a parlarsi di nuovo. Ma dopo, molto dopo. Bisognerebbe, quando ci separiamo da qualcuno, scomparire, non essere più niente per quella persona. Qualsiasi ossessione ha bisogno di alimentarsi, e un’assenza semplice, una serie ordinata di no, sono il modo migliore per depotenziarla, lentamente. Detto così sembra incredibile. Quello che pensiamo tutti è: un’ultima volta. Lo incontro un’ultima volta, così si tranquillizza. Se non mi faccio trovare, impazzisce.
E invece è vero il contrario. Perché l’ultima volta non esiste. Ce ne sarà sempre un’altra, e poi un’altra, in un crescendo demente fin quando potrebbe esserci quella fatale. Bisogna resistere. Non esserci, far passare il tempo. È nel tempo che le cose si sistemano, si annacquano, perdono intensità. E allora, solo allora, potremmo, eventualmente, tornare a volerci bene.