venerdì 3 giugno 2016

Repubblica 3.6.16
La protesta in rosso e le donne da proteggere
di Chiara Saraceno

ANCORA una volta ci si mobilita contro la violenza e il femminicidio. Con l’hashtag #saranonsarà e #rossopersara, è stata lanciata l’iniziativa dei drappi rossi: vestiti, sciarpe, bandiere rosse da appendere a finestre, balconi, panchine, perché governo e Parlamento considerino il femminicidio non un fatto emergenziale ma strutturale, che avvelena la nostra società e i rapporti tra i sessi e che va affrontato in modo non episodico.
In effetti, a settant’anni dall’accesso delle donne al voto, quindi alla piena cittadinanza politica, la lunga serie di violenze sulle donne e di femminicidi come quello di Sara ci ricorda che per le donne il diritto civile fondamentale, l’habeas corpus, il diritto alla propria integrità fisica e psichica, persino alla vita, è uno dei diritti più insicuri, meno garantiti non solo nello spazio pubblico, ma proprio là dove le donne a lungo sono state relegate, lo spazio delle relazioni private. Non è un fenomeno nuovo, dovuto alla emancipazione femminile, all’accesso alla cittadinanza civile e politica.
È vero che ci sono uomini che non accettano che una donna — una moglie, una fidanzata, una figlia, una sorella — li lasci o abbia una propria professione, proprie amicizie, propri spazi. Ma ci sono anche uomini che fanno violenza, e talvolta uccidono, le proprie mogli o fidanzate anche quando queste accettano di essere sottomesse, vuoi perché non corrispondono comunque alle loro aspettative di uomini- padroni, vuoi perché fare violenza ad una donna è per loro un modo di affermarsi come maschi. La sopraffazione in questi casi si alimenta della stessa subordinazione femminile, della rassegnata accettazione con cui molte donne subiscono le prepotenze degli uomini con cui vivono, che sperino di cambiarli, abbiano paura di lasciarli e/o denunciarli, o pensino che è ciò che loro tocca in quanto donne.
Dire, come si fa spesso, che la violenza maschile e il femminicidio sono la conseguenza negativa e drammatica della maggiore libertà acquisita dalle donne è quindi semplicistico e persino un po’ fuorviante. Anche quando le donne erano (e dove ancora sono) più sottomesse e i ruoli di genere più nettamente distinti (e asimmetrici) c’erano altrettanti, se non più, femminicidi e violenze fisiche contro le donne. Attribuire la causa della violenza degli (o meglio di alcuni) uomini sulle donne alla maggiore libertà femminile rischia, inoltre, di presentare quest’ultima come una perdita secca per gli uomini-maschi e non come una possibilità anche per loro: per sviluppare modelli di maschilità diversi, più ricchi e articolati e meno dipendenti dalla contrapposizione più o meno prepotente alla alterità femminile.
È una consapevolezza che molti uomini hanno. Va al di là della accettazione della libertà femminile, coinvolgendo, appunto, un ripensamento sul maschile. Ci sono anche molti uomini che partecipano all’iniziativa dei drappi rossi. Ma non è ancora diventata consapevolezza socialmente condivisa, tanto meno prevalente. Vi si oppone una nostalgia del buon tempo antico più o meno mitizzato, quando gli uomini erano “uomini veri”, tutti d’un pezzo, l’autorità maschile riconosciuta e legittimata dalle leggi civili e da quelle psicoanalitiche. Con differenze di classe sociale e ceto per quanto riguarda gli spazi e le risorse concretamente disponibili, ma dove la divisione del potere e del lavoro lungo le linee della appartenenza di sesso erano chiare.
È una nostalgia che ispira narrazioni talvolta insopportabili. Si pensi al sospetto di debolezza e incompetenza maschili con cui si tacciano di “mammi” i padri accudenti, o al modo in cui vengono considerati gli uomini nelle coppie in cui lei ha maggior potere, o al modo spesso sottilmente denigratorio con cui sono presentate le persone omosessuali, specie i maschi. Per questo ha un forte potere deterrente rispetto ad una elaborazione pubblica condivisa di modelli maschili più plurali, meno rigidi, perciò anche non imperniati su un modello di rapporto tra i sessi di tipo asimmetrico e basato su rapporti di potere.
Eppure la socializzazione a modalità di essere maschi diverse da quella basata sulla asimmetria di genere è l’unica strada per sconfiggere la violenza contro le donne e il femminicidio; perché non solo le donne, ma anche gli uomini, possano essere più liberi, non resi ottusi nei propri modi di essere e sentire da corazze identitarie difensive. È una strada lunga, che va intrapresa con sistematicità, in famiglia, a scuola, sui media. Nel frattempo, occorre anche mettere in sicurezza per quanto possibile le potenziali vittime di maschi incapaci di pensarsi altrimenti che come controllori delle donne che hanno scelto. A cominciare dal rafforzamento e finanziamento delle reti di sostegno e dei luoghi protetti che in questi anni le donne hanno costruito, spesso senza finanziamenti pubblici.