La Stampa 3.6.16
Sarà la cannabis a salvare Taranto dal disastro ambientale dell’Ilva
La pianta riesce a bonificare i terreni contaminati dalla diossina
di Gabriele Martini
Il
libeccio soffia lieve. Fino a qualche anno fa portava nubi rosse,
cariche di polvere di ferro. Oggi non più: l’aria è cambiata, odora di
mare. La terra invece no, è ancora carica di diossina. Sul campo della
masseria la cannabis cresce sotto il sole d’inizio giugno. Le piante
sono alte un metro e mezzo. L’agricoltore punta gli occhi scuri verso le
ciminiere dell’Ilva. Dice: «Eccolo il mostro che ci avvelena. Speriamo
che la canapa lo circondi e lo soffochi, proprio come fa con le erbe
infestanti».
Il mostro d’acciaio
A due chilometri in linea
d’aria c’è la più grande acciaieria d’Europa. Un gigante di tubi,
altiforni, lamiere, nastri trasportatori e parchi minerali su 15 milioni
di metri quadrati. È grande una volta e mezza Taranto. Nel regno del
ferro il dominio è delle macchine. L’uomo è residuale, minuto,
insignificante. Eppure questa storia è la rivincita dell’uomo. Anzi, di
due fratelli: Vincenzo e Vittorio Fornaro. Famiglia tarantina, stirpe
contadina, allevatori da tra generazioni. Fino al dicembre 2008, quando
la Regione ordina di abbattere le loro 600 pecore perché contaminate
dalla diossina dell’Ilva. «È stato il giorno più brutto della mia vita.
Quella sera in masseria c’era un silenzio assordante. Eravamo abituati
ad addormentarci con il suono del bestiame», racconta Vincenzo. «Il
bivio era: andarcene e ricominciare da un’altra parte o rimanere e
combattere». Otto anni dopo i Fornaro sono ancora qui. Hanno appeso tre
campanacci alla porta della masseria: «Ci ricordano le pecore». Oggi la
litania è suonata dal vento.
La moria di animali
Le carcasse
degli animali, le lacrime, la rabbia, il divieto di pascolo nel raggio
di 20 chilometri dalla zona industriale. Sembrava finita. E invece era
l’inizio della seconda vita dei Fornaro. L’intuizione giusta arriva dai
ragazzi dell’associazione «CanaPuglia»: convertire i terreni alla
cannabis per decontaminare i campi. L’allevatore accetta la sfida e
riparte dall’unica certezza che gli resta: l’amore per la sua terra. La
prima semina avviene nel 2014, circondata da scetticismo. «Sapevo poco
della canapa, non è stato facile», racconta Vincenzo. Ma la salute del
terreno migliora. Rispuntano erbe selvatiche. Dopo un anno di pausa, due
mesi fa, l’ex famiglia di allevatori è tornata a spargere semi di
cannabis.
In principio fu Cernobil. A fine anni Novanta una
società americana specializzata in biotecnologia ambientale coltiva
canapa per decontaminare i terreni radioattivi zuppi di cesio, plutonio,
piombo. Funziona. Sono una decina le piante in grado di svolgere questa
funzione, dal girasole al pioppo. Le radici della cannabis si rivelano
particolarmente adatte a bonificare i terreni avvelenati dalla diossina.
In Italia si inizia a parlare di fitorisanamento nei primi anni
Duemila. Partono progetti sperimentali. L’iniziativa più avanzata è
quella di Taranto. «È un’operazione di bonifica a bassissimo costo
rispetto a quelle tradizionali. Ma per i risultati scientifici serve
tempo», spiega Marcello Colao, ingegnere dell’Associazione biologi
ambientalisti pugliesi. I Fornaro hanno fatto da apripista, altri
agricoltori sono pronti a seguire il loro esempio. E ora il sogno si fa
più ambizioso: creare una cintura verde di cannabis attorno all’Ilva.
Conviene
sgombrare il campo da equivoci: è tutto legale. La cannabis sativa non è
una droga. Il Thc è nel limite dello 0,2% consentito dalla legge.
Niente principio attivo, niente sballo. Gli usi sono molteplici, dal
tessile alla bioedilizia. Il progetto si chiama «Green». L’obiettivo
immediato è ripulire i terreni dalla diossina, quello a medio termine
creare una filiera. «Taranto può diventare il distretto della canapa del
Sud Italia», spiega Gianni Cantele, presidente di Coldiretti Puglia. «È
una coltura rustica che non ha particolari pretese nutrizionali.
Diversi imprenditori locali sono pronti a convertirsi alla cannabis». Ma
dovranno farlo senza l’aiuto della Regione: «I fondi comunitari
all’agricoltura sono destinati per la produzione alimentare», frena
l’assessore Leonardo Di Gioia.
L’esasperazione
«Siamo stufi
di aspettare la politica», replica Fornaro. «Con una decina di
agricoltori siamo pronti a seminare a canapa 150 ettari». A Taranto
esiste già un impianto di prima trasformazione (in Italia sono solo
due). Un’azienda locale di materiali edili, la Vibrotek, sta testando un
prototipo di calce e canapa. Un gruppo di giovani ragazze vuole usare
la fibra per produrre piatti.
Dall’altra parte del Mare Piccolo
c’è una città dilaniata dall’atroce dilemma: il diritto alla vita o il
diritto al lavoro. Due settimane fa a Taranto è iniziato il processo
«Ambiente svenduto». Tra i 44 imputati ci sono i Riva e l’ex governatore
Vendola. Lo Stato è finito invece alla sbarra a Strasburgo. La Corte
europea dei diritti umani accusa l’Italia di non aver protetto la salute
dei cittadini. Come la madre dei fratelli Fornaro. «Un tumore se l’è
portata via anni fa», racconta Vincenzo. «A me hanno tolto un rene, sono
vivo per miracolo. Ma adesso il vento è cambiato, ci riprendiamo la
nostra terra. Stiamo vincendo noi».