venerdì 3 giugno 2016

La Stampa 3.6.16
Se il Bundestag sgambetta la Realpolitik
di Gian Enrico Rusconi

I parlamentari tedeschi che hanno votato, praticamente all’unanimità, la risoluzione che denuncia come «genocidio» lo sterminio della popolazione armena in Turchia negli anni 1915 e 1916, prevedevano le conseguenze immediate del loro pronunciamento? È giusto dire la verità su eventi storici tanto gravi, risalenti a cento anni fa, senza preoccuparsi degli effetti che ne possono derivare?
Oppure - rovesciando il ragionamento - perché mai il potenziale di ricatto di un governo autoritario, come quello turco attuale, dovrebbe impedire di dire la verità?
Non è facile rispondere a questi interrogativi, ma dobbiamo cercare una risposta se vogliamo capire quanto sta accadendo tra Germania e Turchia e di riflesso a livello europeo. Infatti non solo potranno essere interrotte le relazioni diplomatiche, ma potrebbero essere azzerati i tentativi di trovare una soluzione concordata con l’Unione europea per la sistemazione (sia pure temporanea) della massa di rifugiati presenti nella stessa Turchia, con l’imprevedibile acuirsi dei problemi umanitari. Pagheranno ancora altri innocenti.
Da più di un anno il Bundestag tedesco aveva intenzione di prendere posizione sulla questione del genocidio degli armeni. Una posizione legittima e apprezzabile, preceduta del resto da analoghi pronunciamenti di altri Parlamenti (compreso quello italiano), da dichiarazioni di altissime personalità (compreso papa Francesco) oltre che da una ricerca e riflessione storica approfondita. «Genocidio» non è semplicemente la descrizione di un dato di fatto, per qualificare un evento violento, di amplissime dimensioni, perpetrato contro una popolazione. E’ un giudizio etico con specifiche valenze giuridiche: è un «crimine contro l’umanità» e come tale giudicato e condannato. Storicamente il genocidio per definizione è stato quello contro il popolo ebraico in Europa (Olocausto, Shoah). Commesso dai tedeschi, anche se con questa indicazione non si intende affermare una «colpa collettiva» ma si individuano responsabili precisi, cresciuti e maturati in ambienti culturali e sociali ben identificabili, magari in posizioni funzionali apparentemente secondarie (Eichmann).
Questa insistenza sui tedeschi non è casuale per quello di cui stiamo parlando. La dichiarazione dei parlamentari tedeschi infatti è ben consapevole di avere sulle proprie spalle il genocidio degli ebrei.
Ne sente tutto il peso che vorrebbe paradossalmente trasformare in motivo di amichevole raccomandazione ai turchi, perché diventino anche loro capaci di autocritica e di riconciliazione. «La nostra intenzione non è mettere la Turchia sotto accusa, ma riconoscere che la riconciliazione è possibile solamente se i fatti vengono messi sul tavolo», ha detto il capogruppo dei democratici cristiani (il partito di Angela Merkel). Ma forse lo stanno facendo con una qualche inconsapevole ingenuità, facilmente fraintesa, se si sentono dire in faccia da un politico turco che «il modo per chiudere pagine oscure della propria storia (tedesca) non è infangare la storia di altri Paesi con decisioni parlamentari irresponsabili e infondate».
In realtà i tedeschi, ripensando agli anni del genocidio armeno, avanzano addirittura un’autocritica riferita a quel tempo, quando l’impero ottomano era stretto alleato del Reich guglielmino, che ha quindi avuto una certa «corresponsabilità» perché, sapendo cosa stava accadendo, «non provò a fermare questi crimini contro l’umanità».
Ma rimane sempre l’interrogativo del perché il Bundestag ha preso la sua decisione proprio ora, in un momento delicatissimo del rapporto di Ankara con Berlino e Bruxelles?
Ricordiamo brevemente i fatti. Angela Merkel davanti all’eventualità di non saper reggere l’urto della massa dei migranti, attratti dalla accoglienza benevola della Germania, ha pensato di stabilire un’intesa con la Turchia in funzione di contenimento dei profughi provenienti dalle aree mediorientali, in particolare dalla Siria. Dietro all’offerta di un consistente contributo finanziario Angela Merkel fa una scelta politica rischiosa. La cancelliera, da sempre contraria a facilitare l’ingresso della Turchia nell’Unione, perché priva dei requisiti etico-politici e istituzionali indispensabili, è disposta a sacrificare i suoi convincimenti ad un obiettivo considerato di valore superiore. E’ segno di una spregiudicata Realpolitik o al contrario è un implicito riconoscimento della debolezza e vulnerabilità della sua posizione?
La contropartita richiesta da Ankara infatti è pesante: non solo chiede la liberalizzazione dei visti ai cittadini turchi per la Germania, la ripresa dei contatti per una possibile entrata nell’Unione europea e altre facilitazioni economiche, ma esige la non interferenza negli «affari interni» del Paese in un momento di manifesta limitazione e violazione delle libertà politiche e dei diritti umani. Nonostante ciò la cancelliera tedesca riesce a convincere la Commissione europea a far propria l’iniziativa tedesca. Ma non è chiaro quali garanzie gli europei siano in grado di esigere e di ottenere dalla Turchia affinché vengano rispettati i diritti umani e di libertà politica.
Ad un certo punto Erdogan spazientito e pressato da crescenti proteste interne minaccia Bruxelles di rompere il patto. Non c’era momento peggiore perché il Bundestag facesse la sua dichiarazione.
A questo punto non è chiaro chi possa riprendere il controllo della situazione. Non so se Erdogan si limiterà ad alzare la posta in gioco con l’Ue o invece, approfittando della reazione d’orgoglio nazionale ferito, si spingerà ulteriormente sulla strada del rafforzamento del suo potere autocratico.
Se c’è una autorità europea capace e risoluta a Bruxelles, questa è la sua ora.