Repubblica 2.6.16
Le religioni e lo straniero il dovere dell’accoglienza non è un principio universale
Galantino chiede una forte politica d’assistenza, ma anche per gli ebrei dare riparo agli immigrati è un obbligo
Ecco cosa pensano gli uomini di fede sulla crisi dei profughi
di Alberto Melloni
IL
LINGUAGGIO che definisce “volontariato” l’azione di compassione e di
soccorso che qualcuno presta a favore di chi viene da lontano è ambiguo
per i credenti. In realtà per costoro il chinarsi sullo straniero non è
propriamente un gesto “volontario”: è se mai un precetto o una “urgenza”
(come la chiamava San Paolo). È questo che ha spinto monsignor Suetta a
dare asilo agli accampati di Ventimiglia; è per questo che monsignor
Galantino chiede una politica di accoglienza più lungimirante di quella
oggi praticata.
Per i figli di Abramo lo straniero non evoca un
dovere alla bontà: fa se mai sentire la pressione del tempo messianico
sul tempo presente.
Lo dicono le Scritture, a partire da Abramo,
migrante alla rovescia, che diventa nomade per fede. La sua tenda nella
tradizione ebraica ha quattro porte perché il patriarca ha imparato
dalla fede l’accoglienza: dalla quale riceve l’annunciazione di Isacco e
il compiersi della promessa.
Dio che è del tutto Altro rispetto
alla miserabile miseria umana colma la siderale distanza fra sè e la sua
creatura, rendendosi presente nello straniero e nel suo essere estraneo
alla etnia chiusa. Per questo, come dice la lettera agli Ebrei,
praticando l’ospitalità alcuni «hanno accolto degli angeli senza
saperlo». O come dice la parabola del giudizio finale del vangelo di
Matteo viene benedetto l’ultimo giorno non chi ha un sospettabile odor
di incenso, ma chi ha soccorso il Messia nella sua miseria, senza
neppure rendersene conto.
Il fatto di non sapere di abbracciare le
piaghe del Messia non è un trucco etico. Dice che l’accoglienza di chi
fugge dalla guerra e dalla calamità non è il discrimine fra una
religiosità che si può permettere il lusso dell’utopia e un realismo che
deve essere irreligiosamente pragmatico.
Al rovescio è il segno
d’un realismo così teologico che tutti possono accedervi, senza neppur
saperlo. Il realismo non abita nel cinico: e nemmeno in una rarefatta
indulgenza verso tutti, che l’analfabetismo religioso crede essere
quello dell’Oriente.
È la semina messianica di una accoglienza
senza la quale non c’è umanità: e dato che tutti prima o poi patiscono
la sciagura, non seminare quel seme vuol dire non capire nulla della
condizione umana.
Le autorità religiose hanno diritto e fanno bene
a predicare compassione e soprattutto a viverla: e per gli altri non si
tratta di gestire con spocchia o astuzia questa istanza, ma portare la
propria responsabilità, come ha detto ieri Angelino Alfano, sapendo che
un domani le parti fra chi chiede aiuto e chi tira dritto saranno
scambiate, e essere umani oggi è il solo modo per aver domani un mondo
meno disumano.