Repubblica 2.6.16
Le proteste in Francia e le promesse differite
di Christian Salmon
A
PARIGI stiamo assistendo all’incontro tra una scena politica
devitalizzata e divorata da ambizioni contrastanti che si sfideranno
nelle prossime elezioni presidenziali, e uno spazio pubblico che si sta
imprevedibilmente trasformando. Un “incontro del terzo tipo” tra due
mondi lontani quanto nel film di Spielberg il mondo degli umani è
lontano da quello degli extraterrestri, e che assume la forma di uno
scontro di immaginari e di narrazioni: la narrazione di coloro che hanno
tutto da perdere e quella di chi da perdere non ha più nulla. Due
narrazioni divise su tutto: dalla sovranità alla recessione, dalla
disoccupazione alla sicurezza e terrorismo, fino alle libertà pubbliche e
alle leggi sul lavoro...
Dalla crisi del 2008 tutti i governi
hanno subito un deficit di credito e di fiducia: un deficit che giorno
dopo giorno, sotto lo sguardo vigile delle agenzie di rating, li obbliga
a tenere d’occhio un’opinione pubblica insoddisfatta. Oggi l’unica
sfida della governance è quella che riguarda la conservazione della
propria credibilità. A chi spetta decidere? Alle agenzie di rating, da
un lato, ai sondaggi di opinione dall’altro, e, in ultima istanza, alle
elezioni.
Come possono i governi soddisfare le agenzie di rating
senza deludere le aspettative degli elettori che hanno conferito loro il
potere? Come si può continuare ad essere una promessa? È questo il
dilemma che affligge l’homo politicus neoliberal. Un dilemma che solo
due uomini politici in Europa sembrano aver compreso: Emmanuel Macron,
il ministro delle Finanze, è il nuovo prototipo di questo homo politicus
neoliberal che Matteo Renzi — da quando è salito al potere senza troppi
complimenti — incarna a meraviglia. Così come Renzi ha fatto con il
ministro Letta, anche Macron ha sottratto a Manuel Valls il primato
della modernità.
Lo scrittore americano Don DeLillo aveva colto
già negli anni Settanta le nuove leggi del mondo sociale. Leggi a cui
tutti — dal semplice cittadino al capo di Stato, dalla più impalpabile
delle start-up alla più tentacolare delle multinazionali — devono
sottostare, e che potremmo chiamare una “promessa differita”: «... Hai
bisogno di sentirti ad un passo da un cambiamento meraviglioso, e che
tale cambiamento si avveri o no, l’importante è annunciarlo ai quattro
venti. Ciò che conta sembra essere il sentirsi ad un passo da qualcosa».
In
Italia Renzi ha incarnato questo momento augurale e performativo. Aveva
promesso di cambiare il Paese al ritmo di una riforma al mese: se in
fase di conquista la narrazione puntava tutto sulla “velocità”
dell’esecuzione, oggi la narrazione del governo poggia sulla strategia
dello “scoppio ritardato”, e #passodopopasso è diventato l’hashtag della
promessa differita.
La storia è sempre la stessa: quella di un
Paese magnifico che vanta talenti e ricchezze immensi ma è bloccato da
impedimenti. Basterebbe farli saltare perché si possa tornare a crescere
— con tutti i vantaggi che ciò comporta. Quanto alle norme
dell’ordoliberalismo, queste non sono considerate degli “impedimenti”,
bensì semplici margini di manovra. Ed è proprio questo il punto dolente,
perché ciò che trapela dal logoramento causato dalle promesse differite
è l’impotenza politica, quella che ho chiamato “insovranità” — ovvero
una forma di volontarismo impotente. D’altra parte, il prezzo da pagare
per questa gestione delle aspettative deluse è il discredito.
Le
democrazie hanno orrore del vuoto: quando la politica si sottrae allo
spettro dei sentimenti questi finiscono con l’esprimersi altrove, al di
fuori della scena politica tradizionale. Invadono le strade e le piazze
ed emergono nelle rappresentazioni collettive, che hanno il potere di
accreditare gli individui in quanto soggetti parlanti, facendo di essi
dei cittadini...
Nel suo celebre saggio “Risposta alla domanda:
che cos’è l’Il-luminismo?”, Kant aveva preso in esame il concetto di
“spazio pubblico” — non come luogo fisico o istituzionale, ma come
un’esperienza, l’“uscita dallo stato di tutela” attraverso l’impiego
pubblico che i cittadini fanno della propria ragione quando organizzano
la libera circolazione delle idee. Nel 2009 il filosofo tedesco Peter
Sloterdijk ricordava la leggenda di Lucrezia, che fa risalire le origini
della res publica allo spirito di rivolta. «In origine, quella che più
tardi sarebbe stata definita la “sfera pubblica” non era che un
epifenomeno del furore dei cittadini. Il primo Foro è sorto in seguito
alla collera della massa, e il suo primo ordine del giorno non
comprendeva che un unico punto: il rifiuto dell’infamia del potere
dirigente. Fu proprio sulla scia di quella collera istantanea, suscitata
dallo smisurato orgoglio del sovrano, che gli abitanti di Roma capirono
di voler essere dei “cittadini” ».
La definizione di spazio
pubblico è dunque consustanziale a questa espressione di emozioni, a
questa esplosione di collera di fronte ai potenti; è una battaglia non
propriamente ideologica o politica, che coinvolge i sentimenti e fa
proprie le voci della narrazione... Non c’è dubbio che sia proprio
questo che spiega l’attenzione dei media: i manifestanti della “Nuit
Debout” li stimolano non prestandosi al loro gioco, ma al contrario
sfidandoli, opponendo loro resistenza. Chi siete? Da dove parlate?
Identificarli non è possibile. Non vi sono leader di cui valga la pena
raccontare i trascorsi. Non ci sono programmi...
Da qui
l’accostamento con il titolo del film di Steven Spielberg “Incontri
ravvicinati del terzo tipo”, metafora di uno spazio pubblico popolato
dagli “extraterrestri” del mondo sociale — dal momento che la democrazia
è sempre incontro, accoglienza, ospitalità e scambio con cittadini
esclusi: che si tratti di disoccupati, stranieri sans papiers,
rifugiati. O semplicemente di precari.
(Traduzione di Marzia Porta)
Christian Salmon, scrittore, è autore, tra l’altro, de La politica nell’era dello storytelling, (Fazi)