il manifesto 2.6.16
Una protesta che interroga l’Italia
di Marta Fana, Simone Fana
Si
rimane ad osservare la Francia in questi mesi di mobilitazione contro
la Loi Travail – il Jobs Act à la francese. Ci si interroga su cosa stia
accadendo e quali saranno gli sbocchi delle proteste che attraversano
le piazze della Nuit Debout e degli otto scioperi generali, apparsi in
appena due mesi. Conflitti che interrogano da vicino il sindacato
italiano, la sua strategia politica, il suo farsi soggetto pubblico, la
sua capacità di unire il paese dentro una idea di società. L’attualità
italiana ci consegna un quadro segnato da scioperi di categoria, come
nel caso del pubblico impiego. Mobilitazioni che rivendicano lo sblocco
dei contratti, chiedendo al governo l’adeguamento dei salari dopo anni
di blocco delle retribuzioni. Si assiste ad una mobilitazione
corporativa, che individua il terreno di scontro negli interstizi del
contratto di categoria, senza mai porre in discussione l’organizzazione
dello Stato, la direzione degli investimenti e la definizione delle
funzioni. Una strategia destinata a scontrarsi con misure di
riassorbimento della spesa pubblica e di recupero degli aumenti
contrattuali nei processi di privatizzazione o esternalizzazione dei
servizi.
Sul piano programmatico, appare insufficiente una
rivendicazione che punti agli aumenti contrattuali e solo in separata
sede si interessa allo sblocco del turnover, all’espansione dei servizi
dell’infanzia, alla tutela dei lavoratori costretti a lavorare per pochi
euro l’ora come soci (fittizi) di cooperative, a quell’ area di lavoro
intermittente privo di diritti e tutele, vittima di un ventennale
processo di razionalizzazione degli organi e delle funzioni dello Stato.
La
rinuncia ad estendere il terreno del conflitto rischia di ledere
ulteriormente la credibilità del sindacato, cedendo ad una mediazione al
ribasso con il governo, sempre pronto a sfruttare a proprio vantaggio
le condizioni economiche dei propri cittadini. Come nel caso delle
pensioni dove, ad accompagnare l’annuncio di possibili 80 euro per le
pensioni più basse, si decide di riaprire la concertazione a venti
giorni dalle tornata elettorale. Bisognerebbe rifiutare la strategia del
governo nel merito, e rilanciare il dibattito attorno alle pensioni
nella sua complessità. La questione previdenziale non può scindere le
pensioni dal lavoro e dalla sempre minore capacità contributiva dei
lavoratori, sempre più precari, sempre più poveri, sempre più
intermittenti. I rinnovi dei contratti di categoria come l’aumento delle
pensioni minime sono condizioni necessarie ma non sufficienti per
garantire al sindacato uno spazio di agibilità che consenta di muoversi
in un terreno più solido di difesa del mondo del lavoro, in un contesto
di attacco trasversale che dai luoghi di lavoro si estende agli spazi
della cittadinanza democratica. Un quadro che richiede un cambio di
passo, prendendo parte lì dove il conflitto emerge e prova a recuperare
una sponda più ampia.
Come nel caso delle città che si affacciano
alle amministrative e in cui, non senza difficoltà, esistono tentativi
di creare un’alternativa politica di governo. Tentativi che dovrebbero
raccogliere il pieno consenso delle organizzazioni sindacali che invece
nel concreto dell’arena politica preferiscono prestare il fianco allo
status quo. Fondamentale è poi la sfida democratica che investe il
Referendum Costituzionale.
La decisione con cui Confindustria
dichiara il proprio sostegno alla riforma Costituzionale del governo è
un segnale evidente di come lo scontro non stia oggi sul terreno
rivendicativo, ma investa nel complesso la questione sociale, dentro un
processo di ristrutturazione dell’ordinamento democratico, funzionale al
rafforzamento degli organi esecutivi a discapito della dialettica
democratica e della centralità del Parlamento. Non cogliere la portata
di questo processo, per l’esistenza di un soggetto che difende la parte
debole della società, significa accettare una lenta e inesorabile
sconfitta. Mai come in questa fase il nesso tra democrazia e lavoro
raccoglie la sfida che un grande sindacato deve rimettere al centro
della sua strategia politica.