Repubblica 2.6.16
Il paese spaesato che ancora s’interroga sulla sua Repubblica
Da una società sofferente, capace di sollevarsi e avviare uno sviluppo straordinario
a un quotidiano in cui tante energie sono smarrite
di Guido Crainz
Molte le occasioni mancate: ce lo ricordano la diserzione dal voto e la corruzione dilagante
Con
quali domande guardare ai settant’anni della nostra Repubblica? Con
quali convinzioni, con quali dubbi? La sua conquista era apparsa a Piero
Calamandrei «un miracolo della ragione» e Ignazio Silone aveva
aggiunto: alle sue origini non c’è nessun vate o retore ma «il costume
dei cittadini che l’ha voluta». «Una creatura povera, assistita da
parenti poveri», per dirla con Corrado Alvaro, ma pervasa dalla volontà
di risorgere. All’indomani della Liberazione Milano era in rovine, ha
ricordato Carlo Levi, ma «le strade erano piene di una folla esuberante,
curiosa e felice. Andavano a comizi, a riunioni, a passeggio, chissà
dove». Era anche profondamente divisa, quella Italia, e per la monarchia
votò
molta parte di un Mezzogiorno che ancora a Levi era apparso «un altro
mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato».
Da qui siamo partiti, in questo quadro abbiamo costruito democrazia, ed
essa non era un concetto del tutto scontato allora né per il Partito
comunista né per la Chiesa di Pio XII.
Come si è passati dalla
società sofferente e vitale del dopoguerra, capace di risollevarsi dalle
macerie e protagonista poi di uno sviluppo straordinario, all’Italia di
oggi? Spesso spaesata, confusa, incerta di se stessa. Come si è passati
da un sistema dei partiti cui si affidava sostanzialmente con fiducia
un Paese piagato ad un degradare che oggi ci appare quasi senza fine?
Davvero in questo percorso tutte le nostre energie e le nostre “passioni
di democrazia” sono andate disperse o smarrite?
Abbiamo
attraversato tre mondi, in questi settant’anni: da quello largamente
rurale del dopoguerra alla stagione dell’Italia industriale e sino agli
scenari che dagli anni ottanta giungono sino ad oggi. Abbiamo
attraversato anche climi politici e culturali molto diversi, passando
presto dalla fase più aspra della “guerra fredda” alla felice stagione
del “miracolo economico”. Mutò volto allora l’Italia e si consolidò il
suo esser Nazione (lo vedemmo nel primo centenario dell’Unità): il
diffuso ottimismo fece sottovalutare però i moniti di chi — da Ugo La
Malfa a Riccardo Lombardi — avvertiva l’urgenza di porre mano a
squilibri vecchi e nuovi del Paese, e di riformare profondamente le
istituzioni. Avemmo così una trasformazione non governata, uno sviluppo
senza guida, e anche per questo le effervescenze degli anni sessanta
furono più forti che altrove. Nel decennio successivo convissero poi
reali processi riformatori e la cupezza feroce del terrorismo: dalla
“strategia della tensione” alimentata dal neofascismo al terrorismo di
sinistra degli “anni di piombo”. La Repubblica fu messa davvero alla
prova in quegli anni e seppe rispondere: lo vedemmo a Milano, ai
commossi funerali per le vittime di piazza Fontana, e a Brescia
all’indomani della strage di Piazza della Loggia. Lo vedemmo nei 55
lunghissimi giorni del rapimento di Aldo Moro e poi a Genova, ai
funerali dell’operaio Guido Rossa. E lo vedemmo nella mobilitazione
civile di Bologna dopo la strage alla Stazione. Vi è lì, fra anni
settanta e ottanta, un crinale decisivo: storici di differente
ispirazione hanno letto la cerimonia funebre per Aldo Moro in San
Giovanni in Laterano quasi come “funerali della Repubblica”, annuncio
che una sua fase era terminata. E si riveda l’addio di popolo ad Enrico
Berlinguer, sei anni dopo: esso ci appare oggi l’estremo saluto non solo
a un leader ma anche ai grandi partiti del Novecento. Inizia a mutare
davvero il Paese allora, mentre il crollo sindacale alla Fiat annuncia
il declinare dell’Italia industriale. Si scorgono al tempo stesso i
primi segni di una corrosione che non è riconducibile solo ai Sindona e
ai Gelli ma è rivelata da fenomeni molto più pervasivi. Nel 1980 su
queste pagine Italo Calvino proponeva uno splendido Apologo sull’onestà
nel paese dei corrotti («c’era un paese che si reggeva sull’illecito»)
mentre Massimo Riva vedeva profilarsi «il Fantasma della Seconda
Repubblica »: ogni giorno che passa, scriveva, si attenua la speranza
che possano farla nascere politici sagaci e democratici e «cresce il
timore che possa farlo con successo qualche avventuriero senza scrupoli
». Parole inascoltate, nei “dorati anni ottanta”: negli affascinanti
scenari del mondo post-industriale, nel progressivo scomporsi di classi e
ceti sociali, nel dilagare di pulsioni al successo e all’arricchimento
senza regole, contrastate sempre più debolmente da anticorpi civili e da
culture solidaristiche. La modernità sembra divaricarsi ora dal
progresso e dalla crescita dei diritti collettivi, e sembra
identificarsi con l’euforia sociale e con l’affer-mazione individuale.
Inizia allora anche il declinare dei partiti basati sulla partecipazione
e l’identità, nel primo profilarsi di “partiti personali” (a cominciare
dal Psi di Craxi) e di quell’intreccio fra politica- spettacolo e tv
che trasforma la comunità dei cittadini in una platea di telespettatori.
Si forma sempre allora, nella crescente incapacità di governo della
politica, quel colossale debito pubblico che ancora grava su di noi come
un macigno: non solo economico ma etico, perché prende corpo così un
Paese che spende oltre le proprie possibilità e lascia il conto da
pagare ai figli. Un Paese che non sa prender atto della fine dell’“età
dell’oro” dell’Occidente e non sa ripensare il welfare, elemento
fondativo delle democrazie moderne.
Crollerà davvero il vecchio
sistema dei partiti, nella bufera di Tangentopoli, e verrà davvero
l’“avventuriero”, per dirla con Riva: eppure ci illudemmo che, liberata
dal precedente ceto politico, una salvifica società civile avrebbe
conquistato un luminoso avvenire. Dell’ultimo, quasi disperato Pasolini
ricordammo le riflessioni sul degradare del Palazzo e rimuovemmo invece
quelle sulla mutazione antropologica del Paese. Mancammo allora
l’occasione per una rifondazione della politica capace di ridare fiducia
nella democrazia, e da tempo abbiamo superato il livello di guardia: ce
lo ricordano ogni giorno il crollare della partecipazione al voto e il
dilagare di una corruzione che non ha neppure l’alibi di “ragioni
politiche”. C’è davvero molto su cui interrogarsi, a settant’anni da
quel 2 giugno, e viene talora da chiedersi se siamo diventati davvero
una Repubblica, nel senso più alto del termine. Così certo è stato ma
vale anche per la Repubblica quel che Ernest Renan diceva della Nazione:
non è mai una conquista definitiva ma un “plebiscito quotidiano”, una
scelta da rinnovare ogni giorno. È forte la sensazione che da troppo
tempo non rinnoviamo realmente quel plebiscito ed oggi esso ci appare
sempre più necessario, e urgente.