Repubblica 2.6.16
La lezione del 2 giugno
di Michele Ainis
L’autore è giurista e costituzionalista Con questo articolo inizia la sua collaborazione con Repubblica
ITALIA
in bianco e nero, siamo tutti juventini. Magari vinceremo gli scudetti,
però abbiamo perso il gusto dei colori. O di qua o di là, senza vie di
mezzo: chi dubita fa il gioco del nemico, e ogni nemico è un infedele.
Non è forse questo il vento che ci spettina mentre andiamo incontro al
referendum costituzionale? Tifoserie urlanti sugli spalti, comitati del
no reciprocamente in gara su chi scandisce il niet più roboante,
comitati del sì armati di moschetto. Sull’analisi prevale l’anatema.
Eppure
il referendum d’ottobre potrebbe offrirci il destro per una riflessione
collettiva sulle nostre comuni appartenenze, sul senso stesso del
nostro stare insieme. Giacché la Costituzione rappresenta la carta
d’identità di un popolo, ne riflette il vissuto, ne esprime i valori. Ma
noi italiani la conosciamo poco: non la studiamo a scuola, non la
pratichiamo quasi mai da adulti. Sarà per questo che siamo diventati
incerti sulla nostra stessa identità. Sarà per questo che ci specchiamo
nella Costituzione come su un vetro infranto, da cui rimbalza un
caleidoscopio d’immagini parziali, segmentate. È l’uso politico della
Carta costituzionale, nel tempo in cui la politica consiste in una lotta
tra fazioni. Di conseguenza, alle nostre latitudini ciascun tentativo
di riforma aggiunge ulteriori divisioni, quando sulle regole del gioco
occorrerebbe viceversa il massimo di condivisione.
Ecco perché
cade a proposito questo 70° compleanno della Repubblica italiana. Fu
battezzata anch’essa con un referendum, il 2 giugno 1946. Quel giorno
ogni elettore ricevette una scheda con due simboli: una corona per la
monarchia; una testa di donna con fronde di quercia per la repubblica.
E
il referendum spaccò il Paese in due come una mela; perfino l’esito
venne contestato, tanto che il dato ufficiale si conobbe soltanto il 18
giugno, dopo i controlli della Cassazione. Tuttavia dalla frattura è
germinata l’unità. C’è forse qualcuno, settant’anni più tardi, che non
si riconosca nella Repubblica italiana?
D’altronde lo stesso
referendum del 1946 svolse una funzione pacificatrice. Intanto, la
soluzione referendaria fu negoziata con la monarchia. In secondo luogo,
essa evitò una conta all’interno dell’area moderata, divisa a metà fra
monarchici e repubblicani; e infatti De Gasperi ne fu strenuo
sostenitore. In terzo luogo, il referendum permise di saldare due Italie
e due generazioni, i vecchi e i giovani, gli operai del nord e i
contadini del sud, convocati per la prima volta dinanzi a un’urna
elettorale. E infine i vincitori seppero rispettare i vinti, senza
calpestarli sotto un tacco chiodato. Non a caso, i primi due presidenti
della nuova Repubblica furono entrambi uomini di simpatie monarchiche:
Enrico De Nicola e Luigi Einaudi.
Che lezione si può trarre da
quei remoti avvenimenti? Una su tutte: la democrazia non deve aver paura
dei conflitti, perché dai conflitti nascono i diritti. Però nessuna
democrazia può sopravvivere in un conflitto permanente, che s’estende
alle stesse norme costituzionali. Come regolarmente ci succede in questo
primo scorcio di millennio. Nel 2001 la riforma del Titolo V fu
approvata dal centro-sinistra con una maggioranza risicata (4 voti alla
Camera, 9 al Senato). Nel 2005 la devolution del centro- destra passò
con 8 voti di scarto. Nel 2016, all’atto del voto finale sulla riforma
del bicameralismo, le opposizioni hanno abbandonato l’aula: il massimo
di ripulsa.
Eppure non è vero, non è del tutto vero, che ci
dividiamo sempre tra guelfi e ghibellini. Nel 2012, all’epoca del
governo Monti, la riforma costituzionale sul pareggio di bilancio fu
timbrata all’unisono, e in appena tre mesi, dal nostro Parlamento.
Perché infuriava la crisi dei mercati, perché l’Italia si sentiva sotto
assedio. Morale della favola: riusciamo a stare uniti solo durante
un’emergenza. Ma la disunione è in se stessa un’emergenza. Anche perché
non s’accanisce sui principi, bensì sulle loro concrete applicazioni.
Siamo tutti d’accordo sul superamento del bicameralismo paritario, salvo
questionare su quanto divenga dispari il Senato. Tutti desideriamo una
giustizia più efficiente, però giudici e politici si scaricano addosso
le colpe dell’inefficienza. Siamo tutti disposti a riconoscere i diritti
delle coppie gay, ma al contempo scateniamo la guerra civile sulle
nozze omosessuali o sulla stepchild adoption. Conclusione: non abbiamo
bisogno d’un teologo, e nemmeno di un filosofo. Ci serve un ingegnere.