Corriere 2.6.16
2 Giugno , l’alba di un’Italia nuova
Repubblica figlia del referendum
di Luigi Offeddu
Furono sconfitti i Savoia su cui pesava la lunga complicità con il fascismo
Una svolta storica di libertà, nonostante le ombre e gli equivoci irrisolti
Un
po’ come allora, oggi si parla di referendum, Costituzione, riforme. E a
ottobre su questo si voterà. Ma allora, settant’anni fa, quel
referendum del 2 giugno 1946 su monarchia e repubblica fu ben più che
uno scontro politico. Per chi lo avesse dimenticato, lo ricordano certi
manifestini. Per esempio, quella mano con una matita e l’invocazione:
«Per salvare la Libertà votate per la Monarchia». Era vero? No. La
monarchia, per vent’anni e più, aveva accompagnato o favorito l’agonia
della libertà: permettendo la marcia su Roma, la fine del Parlamento, le
leggi razziali, l’entrata in guerra al fianco di Adolf Hitler, per poi
abbandonare popolo e armata al loro destino. E ora tornava a chiedere il
loro sostegno. Altro manifesto del tempo: una bambina con un vestitino a
scacchi e un bambino in pantaloncini, sorridenti sullo sfondo della
scritta «Per l’avvenire d’Italia votate per la Repubblica». Poi, in
caratteri più piccoli, la firma: «Partito comunista italiano». Era uno
slogan credibile? No, o non del tutto. Perché dietro quell’appello c’era
anche gente che quei bambini nell’«avvenire» d’Italia li avrebbe visti
bene in marcia e a pugno chiuso, irreggimentati quasi come ai tempi del
Duce.
Folle in buona e in cattiva fede, troppi rimorsi ed equivoci
ancora non districati, una voragine di bugie alle spalle di quasi
tutti, tranne quelli che «prima» avevano avuto il coraggio di stare
davvero in piedi. E forse è per questo, come scrive Dino Messina nel suo
2 Giugno 1946. La battaglia per la Repubblica , analizzando anche le
opere di decine di storici e fonti inedite, che il referendum segnò una
«straordinaria discontinuità» rispetto a un passato umiliante: e
tuttavia quella data non ebbe, non ha mai avuto, la «forza di una festa
popolare», al di là delle commemorazioni ufficiali. Ma «settant’anni
dopo è forse venuto il momento di ritrovare tutto il significato di
quella svolta».
Fu Storia con la maiuscola, certo: per la prima
volta dopo oltre vent’anni, si tornò a un voto libero, pienamente
politico; e per la prima volta in Italia, poterono votare le donne.
Tutto ciò, fra le ombre di mezzo milione di vittime della guerra, di
1.600.000 prigionieri non ancora tornati, della fame, di una divisione
che spaccava il Paese in due. Conservandogli però le sue mille facce.
Quella domenica 2 giugno, al Teatro Nuovo di Milano, si dava Pio… pio…
pio... , commedia di Garinei e Giovannini. E al cinema «Corso» Il tesoro
segreto di Tarzan . Intanto, a Roma, dalle 15 alle 18, veniva
svaligiato il magazzino-viveri dell’Associazione pro-vittime politiche,
via 4 quintali di pecorino, 3 di lardo, 200 chili di farina.
Ma
più della fame, contava appunto la voragine degli inganni ereditata dal
passato, e ancora presente. Quello che già nel 1943 aveva detto Emilio
Lussu: il fascismo non come «una parentesi, un male episodico nato in un
corpo sano, ma il frutto dei difetti endemici della società italiana».
Quel re che aveva acconsentito a tutto, come nota Messina, non solo «per
opportunità e passività del suo carattere», ma perché aveva una «reale
simpatia» per Mussolini.
Ma il re non era certo solo, nelle sue
debolezze o viltà. Coloro che gli erano intorno, e anche alcuni che poi
prepararono il referendum, dimostrarono di non essere migliori di lui.
Per esempio ci fu l’ipotesi, avanzata da una fonte autorevole come
Ruggero Zangrandi, che Badoglio, Ambrosio e gli altri capi militari
fuggiti nel settembre 1943 col monarca davanti all’assalto del truppe
tedesche di Kesselring avessero barattato la salvezza personale dei
membri del governo e del re in cambio della mancata difesa di Roma: «Non
esiste una prova di questo realistico sospetto», commenta Messina, ma
quel «realistico» già solleva un sipario sulla tempra di chi guidava
l’Italia.
E dopo? La preparazione e l’approdo al referendum, fasi
in qualche modo non meno ambigue. Certo, mentre l’Italia era ancora
divisa dalla guerra, contarono gli spettatori esterni non
disinteressati, il duello fra un Churchill ancora possibilista verso la
monarchia e un Roosevelt che esigeva l’espiazione totale delle sue
colpe: lo testimoniano fonti di prima mano come quelle consultate da
Ennio Di Nolfo. Ma contò anche l’astuzia politica del governo di Ivanoe
Bonomi, quando si trattò di decidere se affidare la decisione suprema a
un referendum, o alla Costituente: usò infatti un testo ambiguo, aperto
ad entrambe le interpretazioni; e così, rileva oggi Messina, «nel
perfetto stile italiano erano state create le premesse per una bagarre.
In cui vennero coinvolti anche gli Alleati».
Fu tragedia, e
insieme tragicommedia. Poi venne il 2 giugno con la sua «straordinaria
discontinuità». Ma su tutto restano allora e oggi le parole di un
vecchio giornalista liberale che nel 1925 aveva dovuto lasciare il
«Corriere della Sera», che poi era stato arrestato dai fascisti nel 1935
e nel 1940, e che dopo la Liberazione aveva infine preso la guida del
giornale, per 18 mesi sotto diverse spoglie e testate, trasformando il
quotidiano più importante d’Italia nello strumento della vittoria
repubblicana al referendum. Quell’uomo si chiamava Mario Borsa. E sotto
il titolo Sincerità il 22 maggio 1946, a 10 giorni dal referendum,
scriveva che le colpe di Mussolini erano state «spaventevoli»,
«documentate». Ma non tutte sue. «La colpa vera, umiliante,
imperdonabile fu nostra». Perché «fummo noi a dargli la spinta gettando
ai suoi piedi tutte le nostre libertà e tutte le nostre guarantigie in
una sadica volontà di prostrarci, di umiliarci umanamente e di
annientarci civilmente, presi solo dalla smania affannosa di ruere in
servitium » («precipitarsi al servizio di qualcuno», ndr ).
C’erano
state, certo, le «nobili minoranze», gli esuli, confinati,
imprigionati, massacrati, e le migliaia di partigiani («parlo degli
autentici partigiani»). «Onore a tutti costoro!», quasi gridava Borsa.
Ma «noi onoreremo queste nobili minoranze se sapremo vedere nel loro
rifiuto di servire, nel loro sacrificio, nelle loro sofferenze, nella
loro morte, ciò che è mancato ai più di noi: il carattere. Noi le
onoreremo se faremo del carattere il forte e saldo sostrato della nuova
vita che i nostri figli dovranno rifare. Basta col luridume retorico e
col sentimentalismo dolciastro… Cerchiamo di essere, soprattutto e
anzitutto, uomini di carattere. E così, soltanto così, finiremo con
l’essere buoni italiani».
Vale anche settant’anni dopo, forse.