Repubblica 2.6.16
Il delitto di Roma
Quella ragazza bruciata come strega della libertà
di Massimo Recalcati
COLPISCE,
nel caso del brutale assassinio di Sara, l’atrocità della violenza
sterminatrice del fuoco. Non è certamente il fuoco che Levi-Strauss
ricorda essere il simbolo della umanizzazione della vita, della
affermazione della Legge della Cultura su quella della Natura. Il fuoco
di cui ha fatto uso il carnefice è piuttosto quello che ardeva il corpo
delle streghe e che viene teorizzato puntigliosamente dal Malleus
maleficarum (1487) come strumento di tortura, espiazione, purificazione e
redenzione finale della donna dal potere immondo del diavolo che l’ha
posseduta. Anche in quella scena — quella della eliminazione fisica
delle streghe — in primo piano è la rappresentazione misogina del corpo
della donna.
LA STREGA appariva come il simbolo del carattere
anarchico e indomabile di una femminilità che si rifiutava di adattarsi
passivamente alla rappresentazione patriarcale della donna come custode
del focolare e madre premurosa dei suoi figli. Solo nel sacrificio di
sé, della propria libertà e dei propri desideri, una donna, secondo
quella cultura, poteva redimere la propria natura peccatrice e
tentatrice e la debolezza innata del suo intelletto — incarnata nella
figura biblica di Eva — consacrandosi masochisticamente alla sua
funzione di genitrice e di serva della famiglia.
I corpi della
streghe torturati e arsi vivi da una cultura sessuofobica che non poteva
ospitare lo scandalo del desiderio che la donna incarna agli occhi
dell’uomo ritornano come spettri sopravviventi nei crimini contemporanei
degli uomini nei confronti delle donne. Certo, non siamo più nel tempo
del Malleus maleficarum e della caccia alle streghe, ma qualcosa di
quella cultura violenta, segregativa e mortificante, ritorna quando gli
uomini si ergono impunemente a giudici e giustizieri della loro vittime.
Ancora di più nel caso di Sara dove il ritorno del fuoco fa emergere
come l’odio verso le donne possa nutrire profondamente l’immaginario
maschile. Perché? Quale la loro colpa imperdonabile? Non è solo in gioco
una perdita di potere da parte degli uomini. La loro fatica a
riconoscere la libertà della donna, il loro rifiuto della femminilità,
è, piuttosto, una forma radicale, forse la più radicale, di razzismo. Si
tratta di stroncare il diritto di esistenza a chi con la sua esistenza
minaccia la stabilità e l’identità della nostra. Si tratta di eliminare
una esistenza differente, eccedente, irriducibile al potere fallico
della ragione maschile.
Tuttavia, nell’affermazione di questa
superiorità ontologica si rivela anche una profonda angoscia. L’uomo può
odiare una donna — come l’antisemita l’ebreo — perché in essa vede quel
mistero della libertà a cui egli ha rinunciato. Il fantasma che anima
il desiderio maschile è un fantasma virile di affermazione di sé che
impedisce o rende molto difficile l’accesso al discorso amoroso, il
quale, invece, si fonda sulla perdita e sul dono di sé.
In questa
economia chiusa, ingombrata dal fallo, direbbe Lacan, ovvero centrata
sul dominio dell’avere, la donna costituisce un principio di pura
perdita, una falla, uno squilibrio, un disordine che la violenza
maschilista ha cercato e cerca di domare in forme diverse. Dalla
discriminazione sociale, economica, professionale e culturale sino alla
violenza aperta del crimine. Il corpo della donna non obbedisce alla
logica fallica dell’avere; appare ad essa incomprensibile, disturbante,
fattore costante di angoscia perché potatore di un’altra logica. Per
questo Lacan ammoniva: “La Donna non esiste!”, esistono solo le donne,
una per una. E questa loro esistenza, rifiutandosi di obbedire alla
dimensione universale della Legge alla quale invece è sottomessa
l’identità fallica, appare sconcertante e minacciosa. Meglio allora il
fuoco del bastone. Il bastone indica, infatti, una pedagogia orrenda che
ha però ancora come suo presupposto il disciplinamento morale della
vittima. Se invece la vittima si sottrae, se si rivolta, se non accetta
più di soggiacere alla violenza educativa del suo padrone, allora è
necessaria una violenza che non lascia speranza, allora resta solo il
fuoco. È il grande equivoco in cui l’amore spesso scivola: l’amore che
vive dell’assoluto deve esigere un possesso assoluto o deve sapersi
esporre alla libertà assoluta dell’Altro?
Il corpo di Sara non è
stato percepito come una cosa inerte, come un semplice oggetto dal suo
assassino. Al contrario; quel giovane uomo l’ha percepito come libero e
indomabile. Sara non lo voleva più; voleva un altro. Il suo desiderio
rivendicava il suo legittimo diritto alla libertà. Ed è nell’impatto con
questo desiderio che si vuole libero che il suo giustiziere sprofonda
nel suo abisso. Interpretando l’amore come possesso assoluto egli la
voleva sua come fosse una cosa, un qualunque oggetto, una bambola, un
automobile, ma ha incontrato la libertà della donna. La sua disperazione
impotente ha allora associato delirantemente Sara, seguendo così una
tendenza che ha ispirato, ben prima di lui, l’ideologia patriarcale, ad
una strega da bruciare viva.