giovedì 2 giugno 2016

Corriere 2.6.16
I partiti e l’errore di assediare la tv pubblica
di Paolo Conti

Se, in Italia, ti capita di detestare qualcuno, esiste un formidabile strumento per dimostrare il tuo odio: batterti perché il tuo nemico venga nominato ai vertici della Rai. Trascorse appena quarantott’ore di auguri, applausi e untuose lusinghe, gli apparirà l’inferno. Non solo la fila di questuanti e di sedicenti geni incompresi ed emarginati dalle precedenti gestioni. Soprattutto comincerà a farsi sentire quella politica che, fino al giorno prima, ha gridato «giù le mani dalla Rai», uno dei più ipocriti e corrotti luoghi comuni della nostra vita pubblica dai tempi della riforma del lontano 1975, anno in cui cominciò la lottizzazione (neologismo di Alberto Ronchey) della tv pubblica. Prima le piccole avvisaglie, poi i primi distinguo, infine le risse e le urla scomposte.
Sta capitando anche alla tv pubblica presieduta da Monica Maggioni e guidata dal direttore generale (con poteri da amministratore delegato) Antonio Campo Dall’Orto, più un Consiglio di amministrazione eterogeneo e a tratti incomprensibile (di alcuni consiglieri si sono letteralmente perse le tracce).
I nuovi vertici si sono insediati nell’agosto 2015, quindi mancano pochi giorni al primo dei tre anni di mandato. Ma gli attacchi somigliano sempre di più a un assedio finale. In particolare cresce di ora in ora la qualità e la quantità di fuoco amico politico che bombarda il quartier generale di viale Mazzini. I colpi più violenti arrivano da quel Pd che, di fatto, ha indicato Campo Dall’Orto, o CdO, come lo chiamano alla Rai: uomo della Leopolda, quindi del segretario-presidente del Consiglio Matteo Renzi. Eppure non c’è settimana che Michele Anzaldi, deputato pd membro della Vigilanza Rai, non renda pubblica la temperatura sempre più alta della sua insoddisfazione venata di disprezzo («una tv pubblica così allo sbando non si era mai vista»). Parla spesso anche Angelo Giacomelli, sottosegretario alle Comunicazioni del ministero dell’Economia e regista della riforma dei criteri di nomina del vertici Rai («aspettiamo di scoprire l’ idea di Campo Dall’Orto sull’informazione, … faccio notare che occorre maggiore velocità»). Martedì si sono mossi i vicesegretari del Pd Debora Serracchiani e Lorenzo Guerini, presentando un esposto contro «Ballarò» di Massimo Giannini, colpevole di aver escluso il loro partito per la seconda settimana consecutiva (dimenticando che i dati dell’Osservatorio di Pavia non possono fare comodo o scomodo a piacimento, a seconda dell’utilità del momento). Seguendoli a ruota dal Nazareno, hanno fatto sentire la loro voce anche i deputato Sergio Boccadutri ed Ernesto Carbone e la senatrice Francesca Puglisi.
Certo, poi ci sono gli attacchi di Roberto Fico, esponente del M5S e presidente della Vigilanza Rai, in teoria sede di un incarico di garanzia, che attacca il Tg1 diretto da Mario Orfeo. O Renato Brunetta che svolge lo stesso compito per Forza Italia. Però questo capitolo appartiene a uno dei riti inevitabili, le opposizioni che attaccano i vertici Rai indicati dalla maggioranza.
Perché l’errore più evidente, e grossolano, è del Pd. Il governo Renzi alza ogni giorno la bandiera delle riforme. Sarebbe tempo di issarne un’altra, che non ha bisogno di decreti legge né di referendum. Sulla Rai, occorrerebbe semplicemente votare (in Vigilanza) i vertici della Rai e poi lasciare che l’autonomia aziendale faccia il proprio corso. Monica Maggioni e Antonio Campo Dall’Orto probabilmente hanno commesso i loro errori. Forse hanno atteso troppo tempo per cambiare i vertici delle Reti, ed ora sui direttori dei tg. La polemica sulle nomine di tanti esterni può essere comprensibile e la rotta del piano editoriale non appare per ora chiarissima. Ma non deve, non può, essere il partito di maggioranza a tallonare giorno per giorno quel vertice che lo stesso Pd ha voluto.
Il giudizio va affidato, come stabilisce la legge Gasparri tuttora in vigore, alla commissione di Vigilanza Rai sulla base di cifre, dati e comportamenti. E al Consiglio di amministrazione, se mai dovesse mettere in discussione l’operato del direttore generale. Nominati i vertici, la politica dei partiti deve lasciare spazio alla legge e allo statuto Rai. È impensabile che sia di fatto il Pd a dichiarare la morte del format di «Ballarò»: in tv nulla è eterno, ma la decisione va lasciata ai vertici con motivazioni editoriali chiare e inequivocabili. Altrimenti il governo e il Pd di Renzi non si limiteranno a occupare la Rai, come dicono molti. Semplicemente, la demoliranno.