giovedì 2 giugno 2016

Corriere 2.6.16
Statalismo e mercato, se l’equilibrio è instabile
di Federico Fubini

In fisica l’inerzia è la tendenza dei corpi a tornare al loro stato naturale se una forza esterna non interviene a deviarli. In economia, di questi tempi, la sua definizione risulta decisamente più ambigua. È sempre meno facile capire verso dove si stia spostando l’Italia nell’equilibrio fra poteri pubblici, manager per conto dello Stato e spazio del mercato.
Settant’anni fa era tutto molto più chiaro: all’alba della Repubblica gli americani cercarono di capire che animale fosse l’Istituto per la ricostruzione industriale, strana creatura fatta nascere da Benito Mussolini sul fondo della Grande depressione. Donato Menichella, futuro governatore di Banca d’Italia, dal suo ufficio del palazzo dell’Iri convinse gli alleati che si poteva lasciare in vita quell’indefinibile conglomerato. Era un’istituzione del fascismo — riconobbe — ma poteva favorire la stabilità sociale e accompagnare la ricostruzione anche in democrazia.
Anche vent’anni fa era chiaro dove tendesse l’inerzia: all’alba della Seconda repubblica, spingeva verso la ritirata dello Stato dall’economia italiana. Era fresco il ricordo della tempesta del 1992, un’altra grande crisi innescata dal debito pubblico. Carlo Azeglio Ciampi e Mario Draghi, a quei tempi ministro e direttore generale del Tesoro, facevano la spola fra Roma e Bruxelles per far sì che quel trauma nazionale non si dovesse ripetere più. Ancora nel 1993 l’Iri era stato il settimo gruppo al mondo per fatturato — primo per le perdite — poi il governo gli staccò la spina d’accordo con la Commissione europea. Con mezzo secolo di ritardo, l’Italia archiviava un’eredità del fascismo e inaugurava una lunga stagione di privatizzazioni e (timida) apertura del mercato.
Cosa stia succedendo ora invece è molto meno ovvio. L’inerzia del sistema segue una dinamica duplice. Il programma di privatizzazioni è ripartito grazie al ministro di Pier Carlo Padoan, con l’imperativo di ridurre il debito. Questa settimana il governo ha avviato la cessione sul mercato di un altro 29,7% di Poste Italiane, dopo il 40% venduto nell’autunno scorso. L’anno prossimo dovrebbe andare in Borsa anche una quota di minoranza di Ferrovie dello Stato, e fin qui tutto indica che il settore pubblico continua a ritirarsi per dare spazio al mercato.
Poi però ci sono anche gli altri segnali, quelli opposti. C’è il governo che conferisce la sua quota di controllo di Poste Italiane (35%) a Cassa depositi e prestiti, con una serie complessa di conseguenze. Formalmente è un aumento di capitale dal Tesoro in Cdp (non con denaro ma con azioni) che fa salire dall’80% all’85% la quota dello Stato nella Cassa — sempre fuori ma sempre più vicina ai confini del bilancio pubblico — e le conferisce patrimonio sufficiente per poter partecipare alla cordata che rileverà le acciaierie Ilva. Inoltre Cdp si troverà, allo stesso tempo, nella posizione di azionista di riferimento e di cliente unico di Poste per la raccolta del risparmio delle famiglie italiane: è un oggettivo conflitto d’interesse, risolto con l’impegno del Tesoro a esercitare il controllo di Poste come se non ne avesse mai ceduto le quote a Cdp. Insomma come se non fosse mai successo nulla. I maestri dell’ingegneria finanziaria di Wall Street hanno qualcosa da imparare a Roma.
C’è poi l’altra operazione, quella dove soluzioni finanziarie e industriali si intrecciano. È la fusione fra Anas, il monopolista pubblico che gestisce la rete di strade e autostrade, con Ferrovie dello Stato, il monopolista pubblico che possiede la rete di binari e domina qualunque altro settore del trasporto su treno nel Paese. Due monopoli delle infrastrutture che si sommano produrranno senz’altro ricchezza per se stessi e per lo Stato che li possiede. Ma mettetevi nei panni di una media impresa privata che cerca di competere con quel gruppo per un appalto pubblico. Da un lato c’è quest’azienda normale che prova a stare sul mercato. Dall’altro c’è lo Stato come appaltatore, come azionista dell’impresa concorrente sul quell’appalto e anche come futuro venditore in Borsa (senza cedere il controllo) delle quote di quello stesso colosso industriale al prezzo più alto possibile. Chi può vincere? Sarà interessante capire se le autorità di controllo della concorrenza in Italia e in Europa avranno qualcosa da dire.
Non mancano altri esempi. L’alleanza fra Cassa depositi e prestiti e Enel per cablare a banda larga il Paese risponde a un’esigenza collettiva. Non importa che entrambi i protagonisti del progetto siano controllati dal governo o che la selezione dei soggetti sia stata (anche) politica. Ma le autorità indipendenti dovranno vigilare che le famiglie non finiscano gravate di costi impropri, per esempio, sui contatori. L’elenco potrebbe continuare. Sono molti i casi dove l’intervento pubblico risponde all’esigenza di garantire risorse, sbloccare investimenti, supplire al privato che non c’è. E dove la potenziale concentrazione di potere economico è evidente. L’importante è che resti l’impegno del governo a privatizzare e a ridare spazio al mercato appena possibile. I panettoni di Stato non li rimpiange proprio nessuno.