martedì 28 giugno 2016

Repubblica 28.6.16
La frenata spagnola sull’orlo dell’abisso
di Javier Moreno

LA SPAGNA domenica si è affacciata sull’ignoto, ha esitato per un istante e poi è tornata indietro. Il Paese doveva decidere se proseguire nella demolizione del sistema politico nazionale, in linea con le rivolte populiste in atto nel resto d’Europa e degli Stati Uniti, oppure tirare il freno a mano. E in una delle elezioni più inattese, trascendentali e difficili da spiegare della sua storia, ha tirato il freno a mano.
IL PRIMO tentativo serio per trasformare (o abbattere, a seconda delle opinioni) il sistema nato con la democrazia negli anni ‘70 si è avuto con le elezioni dello scorso dicembre, dove nuovi partiti (in particolare Podemos, di sinistra radicale) hanno realizzato una grossa avanzata a spese delle formazioni tradizionali. Dopo sei mesi in cui non si è riusciti a formare nessun governo, i cittadini, senza aver modificato radicalmente le loro convinzioni politiche né superato il risentimento per la disfunzionalità del sistema, altrettanto insoddisfatti della democrazia attuale di quanto fossero sei mesi o tre anni fa, hanno deciso all’improvviso di premere il pedale del freno e inchiodare. L’establishment (qualunque cosa sia l’establishment, anche se include sempre banche, grandi aziende e altri poteri), ha tirato un profondo sospiro di sollievo. Lo stupore si è impadronito di tutti, inclusi i vincitori.
E l’impatto della frenata è stato sorprendente: i conservatori del Partito popolare (nonostante la pessima gestione della crisi, i tagli allo stato sociale, la corruzione e la sfacciataggine delle loro risposte alla corruzione), hanno conquistato 700.000 voti in più, e anche se sono rimasti lontani dalla maggioranza assoluta si trovano in buona posizione per formare un governo. I loro rivali hanno perso voti: la coalizione di sinistra radicale Unidos Podemos, che aspirava a superare in elettori e in seggi lo storico Partito socialista, è arretrata di qualcosa come 1,2 milioni di voti rispetto alle elezioni di sei mesi fa.
Come spiegare un cambiamento così radicale quando tutti i sondaggi, fino all’ultimo giorno, hanno insistito sulla forza di Podemos e il suo più che probabile sorpasso ai danni dei socialisti? E dove sono finiti quei voti? Che cosa è passato per la testa degli elettori? Che cosa hanno visto o intuito? In attesa di un’analisi più scientifica, sembra ragionevole presupporre che il Pp abbia preso i suoi 700.000 voti sostanzialmente da Ciudadanos, il partito di centro liberale che ha fatto della corruzione nel Pp uno dei suoi cavalli di battaglia (ha perso quasi 400.000 voti) e forse dal Psoe (che ne ha persi circa 100.000). I travasi di voti fra partiti sono molto più complessi di così, ma non sembra assurdo supporre che molti dei consensi che avrebbe conquistato Podemos siano finiti nell’astensione (che è aumentata di diversi punti).
Su questo punto si può essere chiari. Dopo sei mesi di paralisi, dimostrata l’incapacità dei partiti di sbloccare la situazione e il repentino e inatteso shock rappresentato dal Brexit (ne parlerò più avanti), centinaia di migliaia di cittadini hanno deciso di cambiare il loro voto per evitare un altro periodo di paralisi come questo. Il centrodestra è tornato a votare il Partito popolare, sicuramente con la svogliatezza con cui si torna da un amante dopo averne appurato la disonestà. E, cosa ancor più straordinaria, un numero perfino maggiore di cittadini ha deciso di non tornare a votare per Unidos Podemos, mettendo fine al sogno del sorpasso e della trasformazione radicale del sistema politico spagnolo.
È successo tutto repentinamente, dal venerdì alla domenica? Probabilmente no. Gli elettori di centrodestra da mesi erano inquieti di fronte ai sondaggi che mostravano l’avanzata inarrestabile di Pablo Iglesias e la possibilità che arrivasse davvero alla presidenza del governo. La loro reazione naturale è stata tornare al Pp, anche se si sono sforzati di non esplicitarlo nei sondaggi.
Sull’altro versante, quasi la metà degli elettori di Podemos si dichiara di centrosinistra. La loro unica motivazione per votare un partito che considerano di sinistra radicale è rappresentata dall’esigenza di esprimere la loro rabbia per il deterioramento dello stato sociale in Spagna dopo la crisi del 2008, l’aumento della disoccupazione, gli sfratti e la percezione che la vita dei propri figli e nipoti sarà peggiore della loro (la disoccupazione giovanile supera il 45 per cento). Sono sostanzialmente le stesse ragioni di ampie fasce della società in Occidente che si sentono abbandonate economicamente, socialmente e culturalmente, e umiliate dopo l’abbandono unilaterale, da parte degli altri, del patto che ha assicurato la pace sociale dopo la seconda guerra mondiale.
Ma il comportamento di Iglesias nei sei mesi in cui la Spagna è stata senza governo, la sua arroganza e il suo rifiuto di sostenere Pedro Sánchez per cacciare dalla Moncloa Mariano Rajoy quando era possibile, semplicemente per il calcolo politico che nuove elezioni avrebbero potuto assicurargli l’ambito sorpasso, ha deluso molti: ecco un politico come gli altri, hanno detto.
E poi, all’improvviso, è arrivata la Brexit. All’inizio l’impatto sembrava limitato. La legge proibisce i sondaggi nell’ultima settimana prima del voto, ma i sondaggi si continuano a fare, solo che non si pubblicano. Il venerdì sera, più del 90 per cento degli intervistati diceva che non avrebbe cambiato il suo voto per quello che era successo nel Regno Unito. Però poi è arrivato il sabato. Senza informazione politica nazionale rilevante (è il giorno di riflessione ed è vietato fare campagna), radio, televisioni e giornali si sono prodigati a spiegare il disastro finanziario (tracollo della sterlina e dei mercati, con Madrid che ha subito la peggiore caduta della sua storia), così come la crisi politica, sociale e istituzionale che si abbatteva come una fitta nebbia nera sulla Gran Bretagna e il resto del continente. Improvvisamente, le votazioni erano importanti. Le elezioni avevano conseguenze. Le istituzioni contavano. Il numero di intervistati che ammettevano che sì, la Brexit avrebbe influito sul loro voto (il giorno prima non gli sembrava così importante), è cresciuto. Centinaia di migliaia di elettori hanno accelerato la loro convergenza sul Pp o l’hanno decisa in quel momento. Tanti altri a sinistra, che già erano irritati con Podemos (e sicuramente con loro stessi per averli votati sei mesi prima), si sono affacciati sull’abisso, hanno deciso di astenersi e di non votare la formazione di Iglesias (ma non sono tornati al Psoe).
La Spagna ora recupera, per un istante, un equilibrio instabile. Non sarà sicuramente facile, ma sarà possibile, formare un governo (del Pp) condizionato da Ciudadanos e con il permesso del Psoe. Ma nessuno dei mali profondi che hanno portato il Paese sul bordo dell’abisso domenica hanno trovato soluzione con questa votazione. Dalle azioni che prenderà il nuovo governo, dalle riforme che realizzerà dipenderà l’arretramento della marea populista oppure, al contrario, l’esacerbarsi delle tensioni in una spirale in cui sono in gioco non solo i prossimi governi o il futuro dei cittadini, ma anche l’adesione sincera di questi ultimi alla democrazia rappresentativa. Oltrepassato quel punto (su cui molti sono in bilico, in Europa e negli Stati Uniti), non ci saranno molte possibilità di fermarsi sul bordo dell’abisso, riflettere e tornare indietro, come ha fatto la Spagna domenica.
L’autore è ex direttore di El País e coordinatore di Lena Leading European Newspaper Alliance ( Traduzione di Fabio Galimberti)