Repubblica 28.6.16
Il fattore Ratzinger l’ultima tentazione dell’integralismo anti-Bergoglio
Così
la singolare convivenza dei due papi alimenta (contro la volontà di
entrambi) le mire di chi vuole indebolire il pontificato di Francesco
di Alberto Melloni
In
occasione del 65° anniversario della sua ordinazione presbiterale sono
state raccolte in un volume quasi quaranta omelie sul sacerdozio
pronunciate da Joseph Ratzinger in diverse occasioni, fra gli anni
Cinquanta e gli anni del pontificato. Queste fonti hanno una
introduzione del cardinale Gerhard Müller che legge il calo delle
vocazioni come una “crisi” del sacerdozio e lo riconduce, come tanta
apologetica integralista, a fattori quali «l’apertura, da parte di tanti
ambiti cattolici, all’esegesi protestante in voga negli anni Cinquanta e
Sessanta del secolo
scorso». Il volume, però, ha anche una prefazione di papa Bergoglio, uscita in anteprima su
Repubblica,
nella quale Francesco entra con tagliente levità sulla fisionomia
odierna del “ministero petrino”. Il pontefice scrive che «rinunciando
all’esercizio attivo del ministero petrino, Benedetto XVI ha ora deciso
di dedicarsi totalmente al servizio della preghiera» e spiega che
preghiera non è il tempo libero del sacerdozio ministeriale, ma la sua
ragion d’essere. Dunque Francesco considera che il compito orante che il
vescovo emerito di Roma si è dato assorba ed esaurisca la sua funzione:
lo ha ripetuto anche tornando in aereo dall’Armenia.
È la linea a
cui Ratzinger si è inflessibilmente e ineccepibilmente attenuto: come
aveva detto non è tornato alla «vita privata » del professore fatta «di
viaggi, incontri, ricevimenti, conferenze eccetera» e si è sottratto a
tutti i tentativi di trasformarlo nella bandiera degli scontenti di
Bergoglio — e proprio Bergoglio gliene ha dato atto facendo sapere che
Benedetto XVI aveva cacciato chi, prima e durante il sinodo, gli era
andato a chiedere di dare forza alla minoranza zelante. La questione del
posizionamento di Benedetto però è riaffiorata a più riprese e continua
a riaffiorare periodicamente con tesi bislacche, ma rivelatrici.
Nel
2014 un prete modenese, Stefano Violi, scrisse un articolo per la
rivista della facoltà teologica di Lugano. Vi sosteneva che Benedetto
XVI si era privato solo dell’esercizio attivo del ministero petrino e
dunque aveva portato con sé, per dir così, una parte del “munus”.
Secondo costui quello che papa Francesco aveva avuto non era dunque “il”
papato: ma l’esercizio in condominio di una autorità che rimaneva in
qualche modo anche al suo predecessore. La tesi — saldatasi col
febbricitante “sedevacantismo” di Antonio Socci, che vede in Bergoglio
un papa illegittimo e di fatto eretico — aveva in sé un postulato
semplicemente eversivo: e cioè che il papato non sia un ministero dotato
di prerogative e limiti propri del vescovo di Roma (“statim ordinetur
episcopus” dice la regola del conclave nel caso venga eletto un laico o
un prete): ma sia un ottavo sacramento, da cui non ci si spoglia. Non
sarebbe dunque l’esser vescovo che conserva al papa emerito una dignità,
ma l’esser stato papa che fa mantenere delle prerogative.
Allora
monsignor Georg Gänswein, segretario di Bene- detto XVI e prefetto della
casa pontificia, liquidò la asineria del docente ticinese in una frase:
«Ritengo che sia una sciocchezza teologica e anche logica». Lapidario,
come dev’essere un canonista della scuola di Monaco.
Eppure, nel
presentare alla Università Gregoriana la biografia di Benedetto XVI di
Roberto Regoli Oltre la crisi della Chiesa. Il pontificato di Benedetto
XVI
(Lindau), lo stesso Gänswein, è tornato sul tema. Dopo aver
detto che non ci sono «due papi», ha aggiunto che oggi, nella chiesa
cattolica, ci sarebbe, «di fatto un ministero allargato, con un membro
attivo e uno contemplativo: per questo, Benedetto non ha rinunciato né
al suo nome né alla talare bianca; per questo, l’appellativo corretto
con il quale bisogna rivolgersi a lui è ancora: Santità».
Poteva
trattarsi di una battuta: come quella sul «lento spegnersi » di
Ratzinger che gli sfuggì a marzo e che poi ritirò, rendendosi conto che
una frase affettuosa sembrava un preannuncio funebre. Ma è il segno di
una inquietudine che non ha a che fare con la rinunzia di Benedetto, ma
col papato di Francesco e con chi se ne lamenta.
La questione
infatti non è l’abito o il nome. Benedetto XVI avrebbe potuto riprendere
gli abiti neri e il nome di battesimo. Ma chi ha visto in battistero a
Firenze il monumento funebre di Donatello al cardinale Cossa, il
Giovanni XXIII “quondam papa” deposto a Costanza, sa che lui indossa i
sontuosi abiti cardinalizi concessigli in cambio della sua
sottomissione. La talare bianca di Ratzinger è dunque un modo per dire
che egli non è emerito per deposizione, ma per un gesto libero. Compiuto
con lo stesso amore per la chiesa di tanti vescovi, che cessano
dall’ufficio a norma del canone 401 a 75 anni (età che negli anni
Sessanta era ritenuta la soglia della decrepitezza e che la Santa Sede
non ha mai aggiornato, pur avendo avuto i due ultimi papi eletti oltre
quella soglia).
Non è nemmeno rilevante la questione del titolo.
Come suggerì Gianfranco Ghirlanda, Benedetto, per analogia col canone
401, poteva avvalersi del titolo di “vescovo emerito di Roma”: fu
preferito il titolo generico di “papa” (anche il patriarca di
Alessandria è “papa”).
Il vero punto è l’altro: cioè se si può
inserire — a sua insaputa — il papa emerito in un “ministero allargato”
con due “membri”, uno che prega (e consiglia?), l’altro che governa (e
ha il dovere di consultarsi?). Bergoglio si posiziona su un “no” netto:
dopo «l’esercizio attivo del ministero petrino», un vescovo e un prete
continuano a esercitare il ministero sacerdotale della preghiera.
Nient’altro. Amen.
Eppure il ripetuto affiorare di escogitazioni
sul ministero petrino c’è. E non si placa, con inutili ingegnerie volte a
produrre in vitro una “continuità” fra Francesco e Benedetto che si
ottiene solo immergendoli in un assoluto papista in cui tutti i papi
sono neri.
Il ministero di unità e la sinodalità sono oggi il
problema di tutte le chiese (e di tutte le società, se mettiamo al posto
del ministero la sovranità e al posto della sinodalità le istituzioni
democratiche). Il vigore spirituale della rinunzia di Ratzinger prima e
poi lo straordinario vigore evangelico di Francesco, che si fonda su una
mistica contemplativa che sconsiglierei di sottovalutare, hanno fatto
affiorare nella chiesa una insofferenza per l’uno e per l’altro. E
confermano che la riforma del papato e della chiesa è necessaria, è in
corso.
IL LIBRO Insegnare e imparare l’ Amore di Dio di Joseph
Ratzinger (Cantagalli pagg. 304 euro 19) Con la prefazione di papa
Francesco