Repubblica 25.6.16
La missione di Gide non rinunciare mai al coraggio di vivere
L’adesione
al marxismo. L’opposizione a Stalin L’omosessualità dichiarata. Nei
monumentali “Diari” dello scrittore la disciplina di un intellettuale
di Valerio Magrelli
Innanzitutto,
onore alla Bompiani, un editore che, di questi tempi, osa pubblicare il
“Diario” di André Gide in due tomi. Un’impresa del genere, inoltre, ha
l’ardire di presentarsi armata di un imponente apparato critico. Curata
da Piero Gelli (che firma la prefazione e i bei medaglioni sugli “Amici
di Gide”), tradotta da Sergio Arecco, aperta da una Cronologia, l’opera
segue l’edizione stabilita per la collana Pléiade da Éric Marty e
Martine Sagaert (che introducono il primo e il secondo libro),
recuperando molto materiale inedito e integrandolo con alcuni scritti
autobiografici. Ciò premesso, come affrontare l’immenso Journal dello scrittore che vinse il Premio Nobel 1947?
Sulle
oltre tremila pagine del testo ci restano giudizi impressionanti.
Albert Camus: «Il segreto di Gide è di non aver mai perduto, in mezzo a
tutti i suoi dubbi, la fierezza d’essere uomo»; Ernest Jünger: «Io credo
che il Diario sarà indispensabile per tutti coloro che vorranno
conoscere nelle sue sottigliezze la struttura della nostra epoca»;
Alberto Moravia: «Forse il meglio del libro sta in quel continuo andar
contro se stesso e contraddirsi dell’autore».
Il che dimostra come
il Diario rappresenti l’opera “capitale” di colui che fu appunto
definito il “contemporaneo capitale”, ossia l’autore più influente della
prima metà del Novecento. Influente al punto che, quando lo intervistò
nel 1928, Walter Benjamin lo paragonò a Wilde e Nietzsche: «Non c’è
scrittore in cui energia produttiva ed energia critica siano state più
strettamente legate che in lui». Strano ribaltamento, quello che vede
Benjamin, considerato oggi fra i massimi pensatori del secolo scorso,
accostarsi riverente a un romanziere quasi dimenticato. Infatti il punto
è questo: perché mai, anche se nessuno oserebbe collocarlo all’altezza
di un Proust o di un Céline, Gide resta imprescindibile?
Secondo
Gianfranco Rubino, ciò è dipeso dalla pluralità di aspetti della sua
personalità: narratore, saggista, diarista, autobiografo, perfino
drammaturgo e infine mentore della Nouvelle Revue Française, il gruppo
che svolse un ruolo chiave nella fisionomia nel Novecento. Insomma, a
sancire il successo della produzione gidiana non è stato solo il valore
estetico, ma anche la suggestione di un messaggio scandaloso,
irriverente e liberatorio, teso verso «una decostruzione critica dei
valori religiosi, etici, culturali, sociali comunemente ammessi e
riveriti». Dunque, se negli anni del Nouveau roman lo scrittore venne
ammirato come precursore del metaromanzo o dell’antiromanzo, a ben
vedere il suo lascito oltrepassa la sfera estetica, per acquisire una
dimensione morale e testimoniale. Possiamo allora intendere Gide come
Pasolini?
Difficile arrivare a tanto. Come conciliare
l’appartenenza a un’austera famiglia protestante, con il cattolicesimo
dell’italiano? Come confrontare una vita di agi, all’estrema miseria
vissuta a lungo dal regista di Accattone? Come avvicinare un’onorata
vecchiaia, all’atroce omicidio di Ostia? In ogni caso, rimane il fat- to
che pochi intellettuali ebbero un’audacia paragonabile a quella dello
scrittore francese. E bene fa Gelli a indicare in lui il primo letterato
capace proclamare la propria omosessualità come non aveva osato fare
neppure Wilde, denunciare gli orrori del colonialismo in Africa e infine
a rivelare i danni del comunismo sovietico (proprio lui, che dei valori
comunisti era diventato la bandiera).
Tra esitazioni e
contraddizioni, Gide dipingeva se stesso come una di «quelle creature
che non possono crescere senza metamorfosi successive». Logico quindi
attirarsi accuse di superficialità o eclettismo. «Il suo è uno spirito
distaccato», notava Jacques Rivière, «che non si ferma su alcun
possesso. Dà la propria adesione come si dà un bacio; un attimo dopo è
pronto a ritirarla». Niente di più vero, e insieme di profondamente
ingiusto. Poiché se Gide cambiò idea su molte cose, fu sempre nella
direzione meno comoda, e il Diario lo dimostra di continuo. Inutile
provare a svalutare il suo ardimento, attribuendolo ai capricci di un
ricco alto-borghese. Anche se in forme velate, le sue crociate
umanitarie iniziano molto presto, nel 1897, con il messaggio di
liberazione lanciato dai Nutrimenti Terrestri («Famiglie, vi odio!»),
poi, nel 1914, con la critica del sistema giudiziario affidata ai
Ricordi della Corte d’Assise. Arriviamo così al Viaggio in Congo del
1917.
Impossibile liquidare un’esperienza come quella da cui nacque un libro simile, sorta di autentico
Bildungsroman.
Per un autore di quell’epoca, cinquantenne, benestante e di successo,
lasciare Parigi seguendo una spedizione di un anno in Africa
equatoriale, non era cosa da poco, e infatti quel soggiorno lo condusse
alla conquista di una nuova coscienza politica. Dal suo iniziale,
ingenuo contatto con i misfatti del capitalismo, l’intellettuale mosse i
primi passi verso la fede marxista. Come sottolineò Franco Fortini, il
raffinato dilettante finì per imbattersi non soltanto nel compito di
formulare una verità scabrosa, quanto in quello di trasmetterla a un
gran numero di destinatari. A tutto ciò corrispose la trasformazione del
diario di viaggio, che divenne documento pubblico: «Quale demone mi ha
spinto in Africa? Ero tranquillo. Adesso invece so: devo parlare».
E
più tardi, fu con lo stesso spirito, che rifiutò di fermarsi sulle
proprie convinzioni, di ricevere gli infiniti omaggi dovuti alla sua
nuova scelta di campo. Ormai era diventato un simbolo della sinistra.
Nel giugno 1935 a Parigi, fu designato presidente d’onore del 1º
Congresso Internazionale degli Scrittori per la Difesa della Cultura,
davanti a 230 delegati, tra cui Aragon, Babel’, Brecht, Breton, Huxley,
Malraux, Klaus e Heinrich Mann, Musil, Nizan, Pasternak, Salvemini e
Tzara. Era questa la fama di Gide, quando, tornato dall’Urss, decise di
rimettere tutto in questione, per criticare con forza il totalitarismo
russo. Combattendo ogni tipo di ipocrisia, il romanziere, leggiamo nel
Diario, non esitò ad affrontare la deprecazione pubblica in nome della
propria verità.
Lo sterminato Journal parla di molte altre cose:
amicizie e inimicizie, amori, letteratura e musica. Tuttavia, il filo
conduttore rimane lo strenuo, indefesso processo di autoeducazione
perseguito come una missione.
IL LIBRO Il Diario di André Gide
esce da Bompiani in due volumi a cura di Piero Gelli e traduzione di
Sergio Arecco ( Vol. I, 1887- 1925, pagg. 1558, euro 65; Vol. II, 1926-
1950, pagg. 1568, euro 60)