Corriere 25.6.16
La rivoluzione iraniana religione e nazionalismo
risponde Sergio Romano
I
cittadini comuni conoscono poco o niente delle origini delle crisi
iraniane del passato e del presente. Nei primissimi anni 50, con
Mossadeq al potere, gli Usa entrarono pesantemente in scena cambiando la
politica iraniana da filorussa in filoamericana. Sappiamo dello scià
che da burattino sapientemente guidato volle emanciparsi e infine si
bruciò con l’avvento di Khomeini. Come andarono effettivamente
i fatti? Possiamo ancora una volta dare la colpa al capitalismo e alla cultura occidentale che lo scià volle imporre?
Nerio Fornasier
Caro Fornasier,
Le
rivoluzioni sono generalmente il risultato di guerre perdute o grande
malessere sociale. Quella iraniana del 1979, invece, fu paradossalmente
dovuta allo straordinario arricchimento del Paese negli anni precedenti.
La guerra arabo-israeliana del 1973 ebbe per effetto una forte
impennata del prezzo del petrolio da cui trassero enorme vantaggio tutti
i Paesi produttori. A Teheran, per lo scià Reza Pahlevi, quella fu
l’occasione per un gigantesco e dispendioso programma di
modernizzazione. Furono costruiti nuovi porti e nuove strade. Furono
firmati contratti con ditte straniere (molte erano italiane) per la
fornitura di elicotteri, macchine utensili, armamenti, beni di lusso e
di consumo.
Questa pioggia di denaro regalò ricchezza al mondo
degli affari, ma creò anche forti scompensi sociali, inflazione e un
tasso di corruzione molto più alto di quello che distingue generalmente i
Paesi del Medio Oriente. La protesta cominciò nelle moschee e nelle
piazze, si estese gradualmente all’intero territorio. La repressione
delle forze dell’ordine e della polizia segreta la rese ancora più aspra
e diffusa. A Teheran non esistevano uomini capaci di assumerne la
guida, ma alla periferia di Parigi, in esilio, vi era un venerato
ayatollah, autore di prediche registrate su videocassette che
circolavano clandestinamente nella società iraniana. Quando lasciò
Parigi per ritornare in patria, nel febbraio 1979, il vecchio Ruhollah
Khomeini trovò all’aeroporto di Teheran tre milioni di connazionali. Due
settimane prima lo scià, sconfitto e malato, aveva lasciato il suo
Paese per cercare riparo in Egitto, dove morirà un anno dopo.
Caduta
nelle mani degli ayatollah, la rivoluzione fu anzitutto religiosa e
bigotta, ma anche nazionalista. In entrambi i casi il nemico era
l’America. Per il clero, gli Stati Uniti erano il Paese che incarnava la
modernità in tutte le sue demoniache manifestazioni, fra cui la
licenziosità dei costumi. Per i nazionalisti era il Paese che aveva
organizzato, insieme alla Gran Bretagna, il colpo di Stato del 1953
contro il governo di Mohammed Mossadeq e si era servito dello scià per
fare dell’Iran una pedina geopolitica della propria strategia asiatica.
Il risultato di questo clima antiamericano fu l’occupazione
dell’ambasciata degli Stati Uniti nel novembre del 1979 e la detenzione
di 52 impiegati che furono considerati merce di scambio contro le
sanzioni finanziarie decretate da Washington, fra cui il congelamento di
11 miliardi di dollari dell’Iran depositati in banche americane. Dopo
444 giorni di prigionia e un tentativo di liberazione clamorosamente
fallito nell’aprile del 1980, gli ostaggi furono restituiti all’inizio
della presidenza Reagan. Una parte dei fondi iraniani in America, nel
frattempo, era stata scongelata.