Corriere 25.6.16
E gli italiani portarono alla luce lo splendore sepolto dai secoli
di Paolo Conti
Il
legame tra l’Italia e Persepoli è antichissimo e consolidato. Si deve a
un italiano, il napoletano Luigi Pesce, arrivato in Iran nel 1853 come
ufficiale istruttore dell’esercito dello scià Naseroddin della dinastia
Qajara, la prima campagna di rilevamento fotografico dell’area
archeologica.
Pesce fece foto tra il 1857 e il 1858, donando allo
Scià tutto l’album che includeva anche immagini di Pasargadae, la prima
capitale dell’impero achemenide fondata da Ciro il Grande, e di Naqsh-e
Rosdam, l’altro sito archeologico a 12 chilometri da Persepoli. Quelle
foto tuttora costituiscono un punto di riferimento per gli studi su
Persepoli e rappresentano le fondamenta del lungo e profondo rapporto
tra gli studiosi italiani di archeologia e i loro colleghi iraniani.
Un
legame che prospera tuttora, come conferma il professor Carlo Giovanni
Cereti, docente di Iranistica all’Università romana de «La Sapienza» e
consigliere culturale dell’ambasciata italiana a Teheran: «Dagli anni
Duemila lavora assiduamente a Persepoli la missione dell’Università di
Bologna guidata dal professor Pierfrancesco Callieri che agisce accanto
al professor Alireza Askari Chaverdi, dell’Università di Shiraz. Nella
tradizione diplomatica culturale italiana, progetti importanti come
questo prevedono una intesa paritaria e una direzione scientifica
congiunta. È una metodologia che ci consente di organizzare mostre, come
quella di Aquileia, in vista di future rassegne che l’Italia proporrà
in Iran».
Il professor Cereti conferma ciò che, nel mondo
accademico, è opinione diffusa: «L’Italia viene percepita, non solo in
Iran ma in tutti i Paesi dotati di un retaggio storico, come una vera
potenza culturale per le conoscenze che ha nel campo prima di tutto del
restauro e delle sue tecniche, della tutela e della legislazione del
settore, della stessa gestione dei beni. Non solo dunque per gli studi
scientifici ma per un approccio complessivo verso il Patrimonio».
In
Iran, spiega sempre il professor Cereti, agiscono sette diverse
missioni archeologiche e culturali che dipendono o direttamente dal
ministero per i Beni e le attività culturali o da singole università,
come appunto quella di Bologna, o «La Sapienza» di Roma, o «L’Orientale»
di Napoli. Un altro accordo, stavolta proprio del ministero, è
destinato a studiare la pietra di Pasargadae, un’analisi preliminare in
vista di futuri restauri, in particolare sulla figura del genio alato:
un bassorilievo, spiega Cereti, «che riveste una fondamentale importanza
per numerose ragioni storico-culturali». Un flusso di intese che non si
interrompe ma aumenta, così come il turismo culturale italiano in Iran.
Dice Cereti: «Non ho cifre precise, ma è ben percepibile un aumento
sostanzioso legato soprattutto ai tesori culturali iraniani».
La
principale presenza italiana a Persepoli è quella legata, tra il 1964 e
il 1979 (l’anno della rivoluzione Khomeinista che interruppe un lungo
periodo di scavi e studi) all’attività dell’Istituto italiano per il
Medio e l’Estremo Oriente, l’IsMEO, per iniziativa del grande studioso e
viaggiatore Giuseppe Tucci con il contributo specialistico di
personaggi del calibro di Guglielmo De Angelis D’Ossat, Giuseppe Zander e
Domenico Faccenna. Altre due figure famosissime in quegli anni furono i
coniugi Tilia: ovvero Giuseppe Tilia, direttore dei lavori dal 1965 al
1979, e sua moglie Ann Britt Petterson Tilia, che seguì l’indagine
archeologica curando la pubblicazione dei risultati scientifici dei
lavori di studio e documentazione preliminari ai restauri. Gli iraniani
riconoscono che si deve a Giuseppe Tilia una particolare metodologia di
intervento per i monumenti della Terrazza di Persepoli utilizzata poi da
una nuova generazione di restauratori iraniani formati alla scuola
italiana e che continuò a lavorare anche dopo il 1979. Una storia che
prosegue.