sabato 25 giugno 2016

Repubblica 25.6.16
I leader di domani
di Eugenio Scalfari

SI DISCUTE molto in queste ore su che cosa accadrà all’Inghilterra e che cosa accadrà all’Europa dopo la vittoria improvvisa di Brexit. E mettiamo da parte il crollo dei mercati di tutto il mondo, la sterlina al punto più basso degli ultimi trent’anni. Non è questo il problema.
IL PROBLEMA lo segnalò Winston Churchill in due discorsi rispettivamente del 1952 e del 1955. Disse: «L’Inghilterra ha due sole strade: o diventa la cinquantesima stella della bandiera americana oppure sceglie l’Europa e provvede a costruirne la nascita insieme a tutti gli altri Stati del continente».
Con il voto di ieri il risultato non è stato né l’uno né l’altro. Sfortunatamente l’Inghilterra è diventata (come avevamo già previsto domenica scorsa) una isoletta che la globalizzazione sconvolgerà, che l’America tratterà con gentile indifferenza e l’Europa tenderà a dimenticare salvo che come piccolo mercato di libero scambio. Ha vinto Farage e il suo movimento populista e xenofobo e questo è il risultato.
Naturalmente Farage trasmette l’effetto del voto inglese su tutti i populisti europei: Le Pen in Francia, Salvini in Italia, i paesi baschi in Spagna e poi gli interi Stati la cui fede europea c’è stata soltanto per liberarsi dalla minaccia post- sovietica di Putin: Polonia, Ungheria, Bulgaria, Balcani.
Il Brexit è una bomba a orologeria: distrugge l’Inghilterra, mobilita i Paesi fuori della moneta unica a rivendicare la propria indipendenza, mobilita i populismi dovunque, eccetto lo scontro americano tra i repubblicani di Trump e i democratici della Clinton. Peggio di così era difficile immaginare.
Ho già scritto più volte che, operando su livelli totalmente diversi, c’erano soltanto due persone che avevano le stesse finalità: Papa Francesco e Mario Draghi. Altri francamente non ne vedo. Ci sono, anzi dicendolo al condizionale, ci sarebbero, ma ancora non hanno deciso. C’è da augurarsi che lo facciano al più presto perché il tempo a disposizione è pochissimo. I nomi sono tre: Merkel, Hollande, Renzi. Il terreno sul quale costruire è l’Eurozona. Non più i 28 Paesi della Ue che dopo il Brexit inglese sono diventati 27, ma soltanto i 19 dell’Eurozona.
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Finora l’attenzione dell’Impero americano aveva una duplice angolazione: l’Inghilterra e la Germania. Ora c’è soltanto la Germania e, secondo le mosse che farà, l’Italia. Non sembri una supervalutazione patriottica da parte mia: da tempo la mia Patria è l’Europa. Ma l’Italia può diventare un interlocutore importante per l’Impero americano. La Germania, altrettanto consultata prima continuerà ad esserlo sempre che la Merkel esca dall’immobilismo pre-elettorale che sembra averla paralizzata. Renzi ha deciso di incontrarla oggi. Mi auguro che sia convincente e possa parlare anche a nome dell’America.
La Cancelliera non può aspettare le elezioni, deve muoversi subito adottando una politica di crescita e di flessibilità economica. I destinatari principali sono la Francia, l’Italia, la Spagna, la Grecia e l’immigrazione. E poi, come tutti, la guerra contro il terrorismo dell’Isis.
L’incontro con la Merkel è il compito principale di Renzi nelle prossime ore. Mi permetto di suggerire che non passi ad altre cose, che pure ci sono e lo riguardano direttamente; pensi a convincere la Cancelliera di Berlino. Tutto il resto viene dopo.
Dopo, ma a poche ore di distanza; in situazioni così eccezionali il tempo corre alla velocità della luce e il dopo riguarda appunto la flessibilità e la crescita economica che direttamente ci riguardano. Dovrebbe rinascere un Keynes, ma si può imitarlo non scavando buchi nella terra ma creando nuovi posti di lavoro. Ci vuole un taglio nel cuneo fiscale di almeno 30 punti. Non è granché, ma aiuta. Ci vuole un taglio della pressione fiscale che sta crescendo di continuo. Inutile pensare al debito pubblico, quello verrà dopo, ma la pressione fiscale no, quella viene subito e si attua combattendo troppo stridenti diseguaglianze. Lo dice Papa Francesco, lo vuole la gente, quella che vota i Cinque Stelle oppure non vota.
E poi c’è il referendum, quello che può rischiare di trasformarsi in un Renxit. Si può rischiare un pericolo simile? Io personalmente, e l’ho confermato persino nel colloquio che ho avuto con lui all’Auditorium di Roma lo scorso 11 giugno, voterò “No”. Lo faccio perché trovo inaccettabile per la democrazia italiana l’attuale legge elettorale. Se Renzi modificasse in modo adeguato quella legge, io voterei il “Sì”. Perché dunque non la cambia, e come dovrebbe cambiarla?
Basterebbe che invece di una lista unica come adesso è previsto, con un premio del 55 per cento per chi arriva al 40 per cento dei voti degli aventi diritto, Renzi prevedesse una coalizione di liste distinta ma precostituita: un partito di sinistra che si allea con formazioni di centro moderato. Partiti che portavano voti come erano quelli che seguirono De Gasperi alle elezioni del 1948: erano liberali, repubblicani, socialdemocratici. La Democrazia Cristiana ebbe circa il 40 per cento dei voti, i tre partiti minori un otto-nove. Il sistema era proporzionale, non c’erano premi ma liste pubblicamente apparentate. La Dc governò per 12 anni con questo sistema. Poi compì un salto in avanti e si alleò con i socialisti di Pietro Nenni nel 1963. Quando De Gasperi si era ritirato e alla presidenza del consiglio furono messi un primo ministro all’anno o poco più. Ma la linea di fondo fu immutata: un partito di centro che guarda a sinistra.
Questa è la mossa che Renzi dovrebbe fare. Prima del Referendum del prossimo ottobre. Ormai non deve più rottamare, deve allearsi a sinistra e tra i moderati, trasformando il sistema tripolare in un sistema bipolare, che ottenga voti dal centro moderato, dalla sinistra più radicale e tra gli indifferenti ex Pd fondato da Veltroni del Lingotto. E apra la sua squadra, italiana ed europea, a persone come Prodi, Veltroni, Enrico Letta, Fassino. Non è più tempo di rottamare ma di ricostruire. Impari dal passato per costruire il futuro in Italia e soprattutto in Europa.