Corriere 24.6.16
L’urgenza di riconoscere che la tortura è un reato
di Donatella Di Cesare
Com’è
possibile che un giovane cittadino europeo, residente per motivi di
studio in un Paese amico, venga torturato per giorni, subisca una
violenza assoluta e sistematica che, prima di ancora di uccidere,
intacca la dignità umana?
Com’è possibile passare, d’un tratto, da
cittadino a vittima inerme di sevizie indicibili? Quel che è accaduto a
Giulio Regeni ha sconvolto profondamente l’opinione pubblica italiana. E
ha riportato la questione della tortura all’ordine del giorno.
Sarebbe
tuttavia un abbaglio credere che la tortura sia prerogativa solo dei
regimi dispotici o dittatoriali. Come mostra l’ultimo rapporto 2015-2016
di Amnesty International, nel mondo sono oltre 140 i Paesi in cui si
denunciano casi di tortura.
Si tratta, dunque, di una crisi
globale. Benché sia universalmente stigmatizzata, la tortura continua ad
abitare il paesaggio contemporaneo.
E in Italia? Anche quest’anno
si deve constatare, con grande amarezza, che la tortura non è stata
ancora riconosciuta come reato. Il che esclude il nostro Paese da quelle
democrazie occidentali che almeno, nei loro codici, hanno da tempo
dichiarato illegale la tortura. Approvata dalle Nazioni Unite nel 1984,
la Convenzione contro la tortura è stata ratificata dall’Italia già nel
1988. Da allora, però, quelle attese sono state tradite. Anche
quest’ultimo anno si è concluso con un nulla di fatto.
Il 9 aprile
2015 la Camera dei deputati ha apportato modifiche a un disegno di
legge che non è stato poi approvato dal Senato. Le difficoltà nascono
dalla definizione della tortura. Ad esempio: è necessario che la
violenza sia «reiterata», affinché ci sia tortura? È difficile crederlo.
Se
si guarda più in profondità, appare evidente che la legge vada
configurandosi come una sorta di compromesso tra le forze dell’ordine,
preoccupate di essere poste sotto accusa, e l’opinione pubblica, sempre
più sensibile ai crimini perpetrati dietro le quinte.
Come
dimenticare i misfatti della Diaz di Genova, per i quali l’Italia è
stata condannata il 7 aprile 2015 dalla Corte europea per i diritti
dell’uomo? E che dire dei troppi casi di pestaggi crudeli, di morti
brutali e inspiegabili, da Aldrovandi a Cucchi, da Magherini a Uva? La
speranza è che non si debba attendere ancora a lungo e soprattutto che
la norma non sia vaga e ambigua, non avalli furtivamente quel che
dovrebbe con chiarezza proibire.
Riconoscere la tortura come reato
è una esigenza, etica e politica, inderogabile. Tanto più che il
fenomeno oggi dirompente è una sorta di democratizzazione della tortura,
il suo sopravvivere, cioè, in forme e modalità diverse, nel contesto
democratico. Una volta criminalizzata, la tortura ha cercato infatti
riparo nell’ombra: nei campi di internamento per stranieri, nei luoghi
di detenzione e nelle carceri, negli ospedali psichiatrici, nei centri
per disabili e anziani, ovunque un inerme si trovi nelle mani del più
forte.
La «guerra al terrore» provoca, attraverso la politica di
emergenza, una riabilitazione inedita della tortura che, in particolare
negli Stati Uniti, viene tollerata come misura straordinaria, ma utile.
Non meno allarmante è un fenomeno connesso: il dissimularsi della
tortura grazie a metodi sempre più raffinati. È la «tortura bianca», che
salva le apparenze e fa implodere il concetto stesso di tortura: dalla
privazione del sonno al disorientamento spazio-temporale,
dall’immobilizzazione all’isolamento, dalle violenze sessuali alle
sevizie psicologiche.
Ecco perché la vigilanza dei media e
dell’opinione pubblica è l’unico antidoto contro questa violenza che
resta a offuscare il nostro presente.