sabato 25 giugno 2016

Corriere 24.6.16
L’urgenza di riconoscere che la tortura è un reato
di Donatella Di Cesare

Com’è possibile che un giovane cittadino europeo, residente per motivi di studio in un Paese amico, venga torturato per giorni, subisca una violenza assoluta e sistematica che, prima di ancora di uccidere, intacca la dignità umana?
Com’è possibile passare, d’un tratto, da cittadino a vittima inerme di sevizie indicibili? Quel che è accaduto a Giulio Regeni ha sconvolto profondamente l’opinione pubblica italiana. E ha riportato la questione della tortura all’ordine del giorno.
Sarebbe tuttavia un abbaglio credere che la tortura sia prerogativa solo dei regimi dispotici o dittatoriali. Come mostra l’ultimo rapporto 2015-2016 di Amnesty International, nel mondo sono oltre 140 i Paesi in cui si denunciano casi di tortura.
Si tratta, dunque, di una crisi globale. Benché sia universalmente stigmatizzata, la tortura continua ad abitare il paesaggio contemporaneo.
E in Italia? Anche quest’anno si deve constatare, con grande amarezza, che la tortura non è stata ancora riconosciuta come reato. Il che esclude il nostro Paese da quelle democrazie occidentali che almeno, nei loro codici, hanno da tempo dichiarato illegale la tortura. Approvata dalle Nazioni Unite nel 1984, la Convenzione contro la tortura è stata ratificata dall’Italia già nel 1988. Da allora, però, quelle attese sono state tradite. Anche quest’ultimo anno si è concluso con un nulla di fatto.
Il 9 aprile 2015 la Camera dei deputati ha apportato modifiche a un disegno di legge che non è stato poi approvato dal Senato. Le difficoltà nascono dalla definizione della tortura. Ad esempio: è necessario che la violenza sia «reiterata», affinché ci sia tortura? È difficile crederlo.
Se si guarda più in profondità, appare evidente che la legge vada configurandosi come una sorta di compromesso tra le forze dell’ordine, preoccupate di essere poste sotto accusa, e l’opinione pubblica, sempre più sensibile ai crimini perpetrati dietro le quinte.
Come dimenticare i misfatti della Diaz di Genova, per i quali l’Italia è stata condannata il 7 aprile 2015 dalla Corte europea per i diritti dell’uomo? E che dire dei troppi casi di pestaggi crudeli, di morti brutali e inspiegabili, da Aldrovandi a Cucchi, da Magherini a Uva? La speranza è che non si debba attendere ancora a lungo e soprattutto che la norma non sia vaga e ambigua, non avalli furtivamente quel che dovrebbe con chiarezza proibire.
Riconoscere la tortura come reato è una esigenza, etica e politica, inderogabile. Tanto più che il fenomeno oggi dirompente è una sorta di democratizzazione della tortura, il suo sopravvivere, cioè, in forme e modalità diverse, nel contesto democratico. Una volta criminalizzata, la tortura ha cercato infatti riparo nell’ombra: nei campi di internamento per stranieri, nei luoghi di detenzione e nelle carceri, negli ospedali psichiatrici, nei centri per disabili e anziani, ovunque un inerme si trovi nelle mani del più forte.
La «guerra al terrore» provoca, attraverso la politica di emergenza, una riabilitazione inedita della tortura che, in particolare negli Stati Uniti, viene tollerata come misura straordinaria, ma utile. Non meno allarmante è un fenomeno connesso: il dissimularsi della tortura grazie a metodi sempre più raffinati. È la «tortura bianca», che salva le apparenze e fa implodere il concetto stesso di tortura: dalla privazione del sonno al disorientamento spazio-temporale, dall’immobilizzazione all’isolamento, dalle violenze sessuali alle sevizie psicologiche.
Ecco perché la vigilanza dei media e dell’opinione pubblica è l’unico antidoto contro questa violenza che resta a offuscare il nostro presente.