Repubblica 25.6.16
Il patrimonio immobiliare degli istituti per
il sostentamento del clero vale 5 miliardi di euro. Ma rende appena 50
milioni all’anno
Sprechi e mala gestione così il tesoro della Chiesa non basta nemmeno per lo stipendio dei preti
Tra affitti al ribasso e assunzioni clientelari alcuni enti sono addirittura in passivo
Le diocesi costrette ad attingere all’8 per mille riducendo la quota destinata ai poveri
di Andrea Gualtieri
ROMA.
Vale almeno 5 miliardi il patrimonio immobiliare degli Istituti per il
sostentamento del clero, le casseforti create nel 1985 per gestire tutti
i beni della Chiesa italiana che non sono utilizzati per attività
ecclesiali o sociali e che possono produrre profitto. Un tesoretto di
fabbricati e terreni affidato alle diocesi ma eroso da errori di
gestione, trascuratezze e difficoltà oggettive che lo rendono quasi
improduttivo. E che costringono a bruciare ampie fette dell’otto per
mille.
Cinque miliardi, in realtà, è una stima per difetto perché
nessuno sa quantificare con precisione la cifra complessiva. Gli enti
ecclesiastici non sono tenuti infatti a presentare un bilancio e i
vertici della Cei hanno dovuto avviare un censimento aggiornato, anche
perché il valore effettivo di molti beni si è ridimensionato nel tempo
per la scarsa manutenzione, per la crisi che ha colpito proprietà
agricole e immobiliari, ma anche per un’amministrazione locale spesso
superficiale o sbagliata e in alcuni casi addirittura dolosa.
Di
certo c’è solo che la cifra ricavata ogni anno come rendita non va oltre
i 50 milioni di euro, un decimo del valore patrimoniale ipotizzato. E
così gli istituti che sono nati per coprire le spese per l’indennità dei
sacerdoti — compresa tra i 900 euro per un prete di prima nomina e i
1.400 per un vescovo a fine mandato — alla fine riescono a garantire
appena il nove per cento del fabbisogno. Ed è una media trascinata da
Emilia Romagna (26 per cento) e Lombardia (23), perché nel resto
d’Italia la situazione è catastrofica: Sicilia, Calabria e Sardegna non
arrivano nemmeno all’uno per cento della somma necessaria (che oscilla
tra i 15 milioni della Sardegna e i 42 della Sicilia) mentre altre
cinque Regioni, tra le quali la Liguria e soprattutto il Lazio,
ricchissimo di immobili ecclesiali, coprono ciascuna una porzione
inferiore al tre per cento.
E se in cassaforte non ci sono soldi,
le diocesi attingono all’otto per mille, riducendo così la disponibilità
per le opere di carità che da Roma si raccomanda invece di
incrementare. Anche quest’anno, a salire più delle altre è stata proprio
la quota usata per sostenere il clero: in totale sono stati prelevati
350 milioni di euro, oltre un terzo dell’intero fondo destinato alla
Chiesa cattolica, 23 milioni in più rispetto al 2015 e 80 in più
rispetto a quelli che la Cei è riuscita a riservare per gli interventi
di sostegno ai bisognosi, che sono pure aumentati, ma di appena 5
milioni. E questo nonostante i sacerdoti siano sempre meno e sia
cresciuta la loro età media, con la conseguente impennata di coloro che
ricevono una pensione di anzianità e che quindi non hanno bisogno
dell’indennità.
Ma allora dove si disperde il patrimonio affidato
alle casseforti della Chiesa italiana? A maggio, nel presentare i conti
approvati dall’assemblea dei vescovi, il presidente della Cei Angelo
Bagnasco ha ammesso che si dovrebbe intervenire sulla rete diocesana del
sostentamento clero: «Il padre di famiglia si interessa che il tetto
non faccia acqua», ha detto il cardinale, precisando però che finora non
sono scattati commissariamenti.
Il primo rimedio che si profila è
l’accorpamento che sfoltirà i 218 istituti presenti nelle 226 diocesi. E
non sarà difficile individuare quali tagliare. Ce ne sono alcuni,
infatti, che non arrivano nemmeno a chiudere i conti in attivo, col
risultato che organismi ideati per assicurare una rendita si riducono a
pesare sui bilanci delle curie. Questo perché negli anni c’è stato chi
ha ceduto alla tentazione del clientelismo. A partire dalla gestione del
personale: «Quando mi sono insediato — racconta un vescovo di una
piccola diocesi del Sud peninsulare — ho trovato un numero di dipendenti
sproporzionato e non c’erano rendite sufficienti nemmeno a pagare i
loro stipendi». Poi aggiunge: «Ho tenuto un solo impiegato e ho
rinnovato tutto il consiglio d’amministrazione. Ora almeno il bilancio è
tornato sano: non è con strutture inefficienti che si generano posti di
lavoro».
Più difficile da curare, per molte diocesi, è la piaga
degli immobili concessi in affitto a cifre improbabili. Difficile
infatti pensare, ad esempio, che un magazzino sul corso principale di
una cittadina turistica della Sicilia possa rendere solo trenta euro al
mese. E dato che a beneficiare dei canoni al ribasso non sono solo i più
bisognosi, c’è chi sta provando a rimediare, affidando ad agenzie
immobiliari il compito di valutare i parametri di mercato per
rinegoziare gli affitti. Ma in alcune zone va anche peggio, perché c’è
da fare i conti con i morosi: in una ricca diocesi dell’Emilia,
addirittura un inquilino su dieci non paga da anni.
Contenziosi di
fronte ai quali i vescovi lamentano di sentirsi disarmati: le spese per
una causa legale sono alte, i tempi lunghi ed elevato è il rischio del
danno d’immagine per un ente ecclesiale che impone uno sfratto. In molti
casi, poi, si aggiungono le complicazioni strutturali: i beni degli
istituti, frutto di donazioni avvenute nei decenni passati, a volte sono
stati abbandonati senza interventi né controlli. E così ci sono
immobili che cadono a pezzi, terreni agricoli sui quali sono stati
costruiti edifici abusivi o che sono stati suddivisi e subaffittati
illecitamente.
Un campo minato nel quale la Cei teme di veder
nascere scandali e tracolli economici. «Serve un rapporto più organico
con l’istituto centrale perché nessuna diocesi si trovi in difficoltà
all’improvviso », ha detto Bagnasco che però, secondo lo statuto della
Cei, non può forzare la mano rispetto al potere delle singole curie.
Negli
ultimi anni, in realtà, sono spesso proprio i vescovi a chiedere
l’aiuto di Roma, specie quando si insediano in una diocesi e temono di
trovare nei conti sorprese sgradite. «È stata creata una task force a
loro disposizione», spiega Carlo Bini, direttore dell’Istituto centrale
sostentamento del clero, la struttura che fino a poco tempo fa veniva
utilizzata solo per redigere le buste paga dei preti e che ora ha pure
il compito di vigilare sulle transazioni immobiliari per importi
superiori ai 250mila euro. È l’operazione trasparenza che sta a cuore
anche al segretario della Cei Nunzio Galantino: «Le maglie del controllo
adesso sono più strette», commenta Bini. Basterà a salvare il tetto che
fa acqua?