Repubblica 24.6.16
Quegli equivoci sulle riforme
di Stefano Rodotà
VALUTANDO
i risultati dei ballottaggi, Matteo Renzi ha voluto subito sottolineare
che la capacità attrattiva dell’M5S dipendeva dal fatto che era stato
percepito come soggetto del “cambiamento”. Ed ha aggiunto che da questo
portava con sé la conclusione che il governo doveva insistere con ancor
maggiore determinazione sulla strada delle “riforme”.
MA PROPRIO
le parole adoperate per una diagnosi così sbrigativa mostrano gli
equivoci politici che la caratterizzano e l’intenzione di sfuggire alle
domande più stringenti che le elezioni hanno proposto.
Non si può
certo dimenticare il fatto che il Presidente del Consiglio ha sempre
insistito in maniera martellante proprio sul cambiamento che il suo
governo avrebbe già determinato in tutte le materie più significative.
Perché l’opinione pubblica non ha dato rilievo a questo fatto proprio
nel momento in cui il governo si presentava al giudizio dei cittadini?
Non credo che ci si possa rifugiare nell’argomento del difetto di
comunicazione, visto che proprio la comunicazione ha costituito
l’ossessione di Renzi, sì che si potrebbe, se mai, addirittura azzardare
l’ipotesi che la sua presenza in ogni luogo e in ogni tempo, il suo
tono perennemente assertivo abbiano provocato una reazione di rigetto da
parte degli elettori. Se, però, si ragiona seriamente sull’accoppiata
“cambiamento”/” riforme”, diventa più aderente alla realtà la
conclusione che vede nel voto amministrativo il rifiuto del cambiamento
incarnato dalle politiche governative. Due cambiamenti a confronto,
dunque, uno dei quali prospetta un cambio di passo. Non facile, perché
la dimensione locale non rende agevole la messa a punto di politiche che
abbiano in qualche modo un significato alternativo rispetto a quelle
governative. Ma pure con gli interventi consentiti dalle specifiche
competenze dei comuni è ben possibile dare concreti e visibili segnali
di un diverso modo di selezionare le domande sociali, di determinare
priorità corrispondenti agli interessi e ai bisogni che sono state rese
visibili dal voto.
Due sono le dimensioni da prendere in
considerazione. Riferimenti come quelli alla trasparenza, alla
partecipazione, alla legalità dell’agire pubblico hanno trovato un
denominatore comune nel rifiuto di ogni logica oligarchica, che non è
solo un retaggio del passato, ma il tratto caratteristico del modo in
cui si sono venuti organizzando i partiti. Qui si coglie la spinta a
ripensare le forme del rapporto tra i cittadini e la politica, anzi la
stessa cultura politica.
Non è una esigenza astratta. Le
oligarchie producono un duplice effetto di esclusione — delle persone
legittimate ad aver voce effettiva nella politica e delle domande
sociali da prendere in considerazione. Le riforme del governo Renzi sono
profondamente segnate da questo duplice limite, del quale le persone
hanno potuto direttamente misurare il peso considerando la
subordinazione dei loro diritti sociali al primato attribuito al calcolo
economico. Di questo, di un nuovo protagonismo delle persone e dei loro
diritti hanno cominciato a rendersi conto diversi tra i commentatori
dei risultati elettorali, con riferimenti e parole che, come eguaglianza
e solidarietà, rinviano a una diversa idea di società. Anzi, mostrano
come la certificata morte della distinzione tra destra e sinistra abbia
avuto come esito politico una ideologizzazione ben orientata, che ha
attribuito alla logica di mercato le sembianze di un invincibile diritto
naturale. Sottolineare questo dato di realtà non significa invocare uno
sguardo rivolto al passato, il recupero di vecchie categorie. Pone la
ben diversa questione di costruire il futuro secondo principi e diritti
nei quali ci si possa comunemente riconoscere.
Poiché un altro dei
luoghi comuni che hanno afflitto, e ancora affliggono, la discussione
italiana, è rappresentato da una contrapposizione schematica tra
conservatori e innovatori, bisogna pur ricordare che non basta proporre
un qualsiasi cambiamento per essere automaticamente ascritti alla
benemerita categoria degli innovatori. È indispensabile individuare i
criteri necessari per valutare la compatibilità del cambiamento con
libertà e democrazia. Non vi è dubbio che, altrimenti, dovremmo
attribuire a Donald Trump la medaglia dell’innovatore.
I risultati
elettorali dovrebbero spingere a una riflessione in questa direzione,
non solo per ricondurre alla rilevanza dei criteri costituzionali le
politiche di riforma di nuovo promesse, ma per valutarne l’effettivo
carattere innovativo. Proprio considerando i valori di riferimento, ben
può dirsi che in Italia (e non solo) si sia venuto costituendo un blocco
sociale fondato sul primato di interessi e ceti che concretamente
revocano indubbio la rilevanza primaria di eguaglianza e solidarietà.
Una politica così fatta assume le sembianze della restaurazione, e non
può essere definita che conservatrice. A questa conclusione, consapevoli
o no, giungono molti commentatori di questi giorni che insistono sui
guasti drammatici della diseguaglianza, senza dire una parola sul fatto
che questa diseguaglianza non nasce da dinamiche incontrollabili, ma è
l’effetto di politiche deliberate, perseguite con determinazione pari
all’arroganza.
Poiché, tuttavia, il perno di una rinnovata
stagione di riforme è, per quasi quotidiana insistenza del Presidente
del Consiglio, quella legata alla riforma costituzionale, anche questa
deve essere valutata considerando i criteri che i risultati elettorali
suggeriscono. La confusione è massima, perché la debolezza culturale del
ristrettissimo ceto di governo ha messo spietatamente in luce l’uso
strumentale delle istituzioni. Dopo aver personalizzato al massimo la
campagna referendaria, ora Matteo Renzi sembra incline a seguire altre
strade, non perché si sia reso conto degli effetti distorsivi della
trasformazione di un referendum in plebiscito (altro palese segnale
conservatore), ma per una convenienza elettorale che non può distogliere
da una valutazione nel merito della riforma e della sua innegabile
connessione con la legge elettorale.
Proprio l’invocata
discussione sul merito si sta rivelando impietosa. Ricordo, da ultimo,
l’analisi di Ugo De Siervo, che non mostra soltanto con chiarezza come
la sbandierata semplificazione del procedimento legislativo sia
contraddetta dalla farraginosità delle procedure previste, ma sottolinea
anche l’alterazione di delicati equilibri e prerogative costituzionali.
Vengono pure rafforzati i meccanismi di esclusione, come accade con
l’eccessivo accentramento delle competenze statali rispetto a quelle
delle regioni, che evoca la riduzione della rappresentanza dei cittadini
prevista dall’Italicum (ancora un tratto conservatore). Proprio
l’analisi puntuale, di dettaglio, fa così emergere “gravi rischi di un
complessivo peggioramento della nostra democrazia”.
Questo è il
contesto nel quale si svolgeranno le discussioni dei prossimi mesi. I
risultati elettorali lo hanno reso più chiaro, hanno individuato poteri e
responsabilità delle diverse forze politiche, che devono esser ben
consapevoli anche della necessità di non farsi incantare da un altro
argomento che viene speso nella discussione pubblica, secondo il quale,
poiché non si toccano formalmente articoli del prima parte delle
Costituzione, i principi e diritti lì considerati non correrebbero
rischi. Non è così. Poiché la garanzia dei diritti è affidata alle
leggi, nel momento in cui in cui queste vengono variamente manipolate,
la soglia di quelle garanzie si abbassa. La discussione dei dettagli
della riforma si fa giustamente impietosa, non può dar spazio a
convenienze di breve periodo. Se si incrina il patto fondamentale tra i
cittadini, la convivenza civile, la buona politica, il reciproco
riconoscimento tra i cittadini diventano sempre più difficili.