La Stampa 25.6.15
Cosa rischia Matteo a ottobre
di Marcello Sorgi
Il
primo ministro di una grande nazione capitalista, democratica, europea,
indice un referendum sulla permanenza del suo Paese nell’Unione
europea. Lo fa insidiato da un partito di opposizione antieuropeo, che
lo tormenta quotidianamente e cresce nei consensi, anche se non è
riuscito a batterlo alle elezioni. A sorpresa, una parte del partito del
primo ministro, guidata da un suo avversario interno, si schiera con
gli antieuropei.
Si vota, e l’alleanza tra nemici interni e
esterni del primo ministro vince, costringendolo alle dimissioni. È
accaduto in Gran Bretagna nella notte tra giovedì 23 e ieri. Potrebbe
accadere anche in Italia, al referendum costituzionale dei primi di
ottobre?
Escluderlo è difficile, anche se Matteo Renzi sostiene
che la consultazione sulla Grande Riforma sarà l’occasione della
rivincita, dopo il deludente risultato del 19 giugno. In Italia come in
Inghilterra, a soli quattro giorni di distanza, l’alleanza di tutti
contro l’uomo da battere si è riformata con un’inquietante sequenza di
dettagli che potrebbero ripetersi ancora. Come Renzi, anche Cameron
aveva messo sul piatto della scommessa l’intera posta della sua vita
politica, annunciando che avrebbe lasciato, come ha fatto, un minuto
dopo l’eventuale sconfitta. Renzi, già ad aprile, nel referendum sulle
trivelle, si era trovato a fronteggiare l’alleanza dei governatori
regionali, quasi tutti del suo partito, che in barba al suo invito a
disertare le urne, avevano portato a votare quindici milioni e mezzo di
cittadini. E anche Cameron ha dovuto difendersi dall’inedita alleanza di
Nigel Farage, il leader del «Leave», cioè dell’uscita dall’Europa, con
Boris Johnson, l’ex-sindaco conservatore di Londra, entrato nella
partita con il chiaro obiettivo di prendere il posto del primo ministro
sconfitto, e adesso, dopo le dimissioni di Cameron, a un passo dal
realizzare il suo obiettivo. Inoltre, come Renzi, Cameron ha scelto la
strada della personalizzazione del voto, non calcolando che così avrebbe
spostato l’oggetto della consultazione, da quello formalmente indicato
sulle schede - restare nell’Unione Europea o uscirne -, al presente e al
futuro suo e del governo. In altre parole, Cameron s’è impiccato da
solo a una sfida che nessuno gli aveva suggerito, e in tanti al
contrario gli avevano sconsigliato.
Qui finiscono le analogie tra
Londra e Roma, e comincia la specificità del caso italiano. Renzi, si
sa, è convinto che ci sia differenza tra le elezioni amministrative che
hanno segnato la sua prima, cocente delusione elettorale, la vittoria
del Movimento 5 stelle grazie anche all’appoggio della destra, e il
«suo» referendum costituzionale. Un conto era il voto nelle città, a cui
il Pd arrivava logorato da un’ondata di corruzione, e a parte Milano,
con candidature non proprio competitive. E un altro conto sarà quando
gli elettori dovranno decidere se cambiare, o lasciare intatto, un
sistema politico che non funziona, tagliando i membri della casta,
imponendo il doppio lavoro ai sopravvissuti e mettendo il governo,
finalmente scelto per davvero dagli elettori, in condizioni di
realizzare il proprio programma senza lungaggini e compromessi
umilianti. Diventare l’uomo-simbolo di questa battaglia, ritiene Renzi,
gli consentirebbe di rivestire i panni del rottamatore che così popolare
lo avevano reso agli occhi dell’elettorato che due anni fa lo votò al
40,8 per cento, e domenica lo ha in parte tradito preferendogli i 5
stelle.
Il ragionamento sarebbe ineccepibile se a ottobre si
votasse solo e soltanto sulla Grande Riforma e non sul complesso quadro
politico italiano, in rapida evoluzione. Con le sue doti di
comunicatore, non c’è dubbio che Renzi sarebbe capace di presentare la
scelta agli elettori in termini assai convincenti. Ma cosa succederebbe
se invece, contro di lui, scendesse in campo uno schieramento largo e
variato, dai professori del No capaci di fare a pezzi scientificamente
la riforma, alla minoranza del Pd che con D’Alema è schierata con il No,
ai 5 stelle, al centrodestra in tutte le sue articolazioni, comprese,
sebbene non del tutto, quelle che sostengono la sua maggioranza? È
esattamente questo, infatti, che si prepara, e Renzi non può fingere di
non capirlo. Né può ignorare che le contropartite che gli vengono
chieste - la modifica della legge elettorale spostando il premio dalla
lista alla coalizione vincente, la rinuncia al doppio incarico di
segretario del Pd e presidente del Consiglio - seppure accettate (ma al
momento sembra di no), non gli garantirebbero certo il risultato di urne
in cui gli elettori, come a Torino, si divertono a sparare sul
conducente.
I sistemi presidenziali, i governi scelti dagli
elettori trasformando con meccanismi maggioritari o premi elettorali le
minoranze in maggioranze, i Parlamenti riservati a due, tre, massimo
quattro partiti, e insomma quel che la riforma di Renzi vorrebbe
introdurre in Italia, per tanto tempo, va riconosciuto, hanno consentito
di governare il disordine delle società mutanti, il tramonto del
capitalismo industriale, gli esiti, assai diversi dalle previsioni, di
trent’anni circa di globalizzazione. Ma adesso, tutt’insieme, stanno
mostrando debolezze, dopo un decennio di crisi economica, deflazione,
stagnazione, rallentamento dei consumi, e impoverimento delle classi
medie. Si vede in Francia, dove due presidenze opposte, Sarkozy e
Hollande, finiscono consumandosi allo stesso modo. S’è visto in Austria,
per citare il precedente più recente. È successo, incredibilmente, pure
nella vecchia e tradizionale Inghilterra. E a novembre, Dio non voglia,
potrebbe accadere nell’America di Trump.
Quanto a noi, appena
usciti da un passaggio elettorale carico di presagi e malgrado ciò
interpretato come l’inizio di una rivoluzione, siamo a un bivio
complicato. Per Renzi, sulla strada del cambiamento, c’è il rischio di
finire battuto dalla grande alleanza antirenzi. Cementata, ironia della
sorte, dal referendum che dovrebbe introdurre il nuovo ordinamento
previsto dalla riforma. D’altra parte, al punto in cui è arrivato, gli è
difficile far marcia indietro. E verso dove, poi?
In Italia
esisteva un partito governativo per vocazione, né di destra né di
sinistra, interclassista, che cercava le sue alleanze in Parlamento e
gestiva i governi possibili, in nome di una stabilità spesso degenerata
in immobilismo: era la Dc. Rimpiangerla è difficile, riproporla, e
perfino somigliarle, impossibile. Ma la prudenza delle sindache stellate
e la distanza di Grillo da Farage, in questi giorni, fanno riflettere.
Tra queste, e l’impazienza di Renzi per il referendum, non c’è dubbio su
chi ricordi di più l’intuito, la saggezza e la furbizia dei vecchi
democristiani.