Corriere 24.6.16
Dobbiamo rottamare la parola antipolitica ?
I voti grillini sono un esperimento democratico
di Paolo Franchi
La
cosa non ha alcun valore statistico. Ma, a chiedere ai vostri
conoscenti (nel mio caso, tra gli altri, il dentista, il postino, il
barista, il giardiniere, la segretaria del commercialista, il consulente
bancario, tutte persone che, fin qui, votavano a sinistra, a destra, al
centro, o da un pezzo non votavano affatto) perché stavolta hanno
scelto i Cinque Stelle, la risposta più frequente sarà probabilmente
questa: gli altri li abbiamo tutti provati, i risultati si sono visti,
adesso proviamo con questi che sono comunque una novità, ci sarà tempo e
modo per giudicarli da quello che faranno. Certo una simile
argomentazione non spiega tutto. Ci aiuta a capire, però, che
rappresentare il clamoroso successo dei Cinque Stelle come un trionfo
dell’antipolitica è una sciocchezza. Se tanti suoi nuovi elettori
ragionano in questi termini, così ottimisticamente democratici, vuol
dire che, tra le tante parole vane di cui ci siamo nutriti per anni,
«antipolitica» è forse quella da archiviare più in fretta. Nei tempi di
turbolenza, la politica, a meno che non si continui, a dispetto dei
santi, a immaginarla come appannaggio esclusivo dei suoi attori
tradizionali, le vie per venire a galla le trova. Non è detto che sia un
bene, per carità. Ma, se non le abbiamo nemmeno intraviste, peggio per
noi.
Renzi di questo ha preso atto almeno sin dalle elezioni del
2013. E di qui ha preso le mosse la sua narrazione di capo di governo e
di leader di partito. Anche populismo, al pari di antipolitica, è parola
malata, ma, in assenza di meglio, utilizzarla serve a capirsi. Al
populismo «dal basso» politicamente incarnato da Grillo e da Casaleggio,
ha contrapposto un populismo «dall’alto». Fondato anch’esso sulla (non
infondata) convinzione che in Italia e in Europa le vecchie forme di
organizzazione della società e del potere, nonché le culture politiche
(il popolarismo e la socialdemocrazia) che le ordinavano, fossero al
lumicino. Ma imperniato sull’idea che, una volta conquistati prima il
Pd, poi, come logica conseguenza, il governo, la grande trasformazione
si potesse indirizzare di lì, in parte neutralizzando, in parte
assorbendo, pure quel che restava del centrodestra, anche grazie a un
rapporto diretto tra il leader e i cittadini garantito da una
comunicazione politica moderna ed efficace: l’io dell’età
dell’individualismo di massa, in luogo del noi del tempo che fu,
praticato nei fatti in attesa che il combinato disposto tra referendum e
Italicum lo istituzionalizzasse. Non era la furbata di un giovanotto di
provincia assetato di potere, il quaranta per cento degli elettori gli
diede fiducia, mezza Europa (di centrosinistra e non solo) vi intravide
una speranza. E il suo partito, compresa, seppur malmostosamente, la
minoranza, magari lo guardò un po’ storto e gli fece un po’ di
resistenza passiva, ma in ultima analisi gli si affidò, nella speranza
inespressa che, lui regnante, finalmente passasse la nottata. In nome di
una considerazione a lungo inoppugnabile. Si può criticare quanto si
vuole Renzi, ma, se cade lui, qual è l’alternativa?
Forse nemmeno
il voto di Roma, di Torino e di quasi tutte le città dove il Movimento
Cinque Stelle è andato al ballottaggio basta a dire che un’alternativa
ci sia. Ma neanche il sostenitore più convinto di Renzi scommetterebbe
più a occhi chiusi sull’accoppiata referendum- Italicum. Persino se a
ottobre vincesse il Sì, chi può essere certo che alle elezioni
politiche, nel ballottaggio, non sarebbero i Cinque Stelle a fare
piatto? In ogni caso, per mille motivi, primi tra tutti il perdurare di
una crisi restia a farsi esorcizzare dall’ottimismo della volontà,
l’accentuarsi estremo delle diseguaglianze, lo stato pietoso di un
partito-territorio che ha sempre considerato una palla al piede, il
discorso pubblico di Renzi si è inceppato. Il voto ha sancito che il
populismo dal basso ha più frecce al suo arco di quello dall’alto.
Perché le sue parole, per demagogiche che possano essere, suonano più
vere a elettori che considerano gente come loro, non ceto politico, le
elette e gli eletti dei Cinque Stelle. E perché, quanto a trasversalità
del messaggio politico, non c’è partita: il Pd, con buona pace dei
fautori del «partito della nazione», non recupera tra i cosiddetti
moderati quel che perde soprattutto in astensioni sull’opposto versante,
e i Cinque Stelle, in particolare nei ballottaggi, mietono consensi in
ogni dove.
Se le cose stanno così, si capisce bene perché Renzi
ostenta la tentazione di gettare il cuore oltre l’ostacolo, lui, dal
governo e nel partito, contro il resto del mondo nella sfida finale per
guadagnare il titolo di campione del cambiamento: come diceva quel tale,
chi si ferma è perduto. Non sarebbe davvero un’impresa facile per un
leader che, d’ora in avanti, dovrà rassegnarsi a essere giudicato sempre
più per quello che fa, le misure che prende, i risultati che ottiene,
sempre meno per una narrazione di sé, amplificata da un coro di
apologeti entusiasti, ormai incrinata, o peggio. Per altri sarebbe la
normalità, per lui potrebbe essere una dannazione. E il fatto che i suoi
avversari, né a destra né nel Pd e dintorni, non ne abbiano una più
efficace da contrapporgli, sarebbe una ben magra consolazione.