sabato 25 giugno 2016

Corriere 24.6.16
Dobbiamo rottamare la parola antipolitica ?
I voti grillini sono un esperimento democratico
di Paolo Franchi

La cosa non ha alcun valore statistico. Ma, a chiedere ai vostri conoscenti (nel mio caso, tra gli altri, il dentista, il postino, il barista, il giardiniere, la segretaria del commercialista, il consulente bancario, tutte persone che, fin qui, votavano a sinistra, a destra, al centro, o da un pezzo non votavano affatto) perché stavolta hanno scelto i Cinque Stelle, la risposta più frequente sarà probabilmente questa: gli altri li abbiamo tutti provati, i risultati si sono visti, adesso proviamo con questi che sono comunque una novità, ci sarà tempo e modo per giudicarli da quello che faranno. Certo una simile argomentazione non spiega tutto. Ci aiuta a capire, però, che rappresentare il clamoroso successo dei Cinque Stelle come un trionfo dell’antipolitica è una sciocchezza. Se tanti suoi nuovi elettori ragionano in questi termini, così ottimisticamente democratici, vuol dire che, tra le tante parole vane di cui ci siamo nutriti per anni, «antipolitica» è forse quella da archiviare più in fretta. Nei tempi di turbolenza, la politica, a meno che non si continui, a dispetto dei santi, a immaginarla come appannaggio esclusivo dei suoi attori tradizionali, le vie per venire a galla le trova. Non è detto che sia un bene, per carità. Ma, se non le abbiamo nemmeno intraviste, peggio per noi.
Renzi di questo ha preso atto almeno sin dalle elezioni del 2013. E di qui ha preso le mosse la sua narrazione di capo di governo e di leader di partito. Anche populismo, al pari di antipolitica, è parola malata, ma, in assenza di meglio, utilizzarla serve a capirsi. Al populismo «dal basso» politicamente incarnato da Grillo e da Casaleggio, ha contrapposto un populismo «dall’alto». Fondato anch’esso sulla (non infondata) convinzione che in Italia e in Europa le vecchie forme di organizzazione della società e del potere, nonché le culture politiche (il popolarismo e la socialdemocrazia) che le ordinavano, fossero al lumicino. Ma imperniato sull’idea che, una volta conquistati prima il Pd, poi, come logica conseguenza, il governo, la grande trasformazione si potesse indirizzare di lì, in parte neutralizzando, in parte assorbendo, pure quel che restava del centrodestra, anche grazie a un rapporto diretto tra il leader e i cittadini garantito da una comunicazione politica moderna ed efficace: l’io dell’età dell’individualismo di massa, in luogo del noi del tempo che fu, praticato nei fatti in attesa che il combinato disposto tra referendum e Italicum lo istituzionalizzasse. Non era la furbata di un giovanotto di provincia assetato di potere, il quaranta per cento degli elettori gli diede fiducia, mezza Europa (di centrosinistra e non solo) vi intravide una speranza. E il suo partito, compresa, seppur malmostosamente, la minoranza, magari lo guardò un po’ storto e gli fece un po’ di resistenza passiva, ma in ultima analisi gli si affidò, nella speranza inespressa che, lui regnante, finalmente passasse la nottata. In nome di una considerazione a lungo inoppugnabile. Si può criticare quanto si vuole Renzi, ma, se cade lui, qual è l’alternativa?
Forse nemmeno il voto di Roma, di Torino e di quasi tutte le città dove il Movimento Cinque Stelle è andato al ballottaggio basta a dire che un’alternativa ci sia. Ma neanche il sostenitore più convinto di Renzi scommetterebbe più a occhi chiusi sull’accoppiata referendum- Italicum. Persino se a ottobre vincesse il Sì, chi può essere certo che alle elezioni politiche, nel ballottaggio, non sarebbero i Cinque Stelle a fare piatto? In ogni caso, per mille motivi, primi tra tutti il perdurare di una crisi restia a farsi esorcizzare dall’ottimismo della volontà, l’accentuarsi estremo delle diseguaglianze, lo stato pietoso di un partito-territorio che ha sempre considerato una palla al piede, il discorso pubblico di Renzi si è inceppato. Il voto ha sancito che il populismo dal basso ha più frecce al suo arco di quello dall’alto. Perché le sue parole, per demagogiche che possano essere, suonano più vere a elettori che considerano gente come loro, non ceto politico, le elette e gli eletti dei Cinque Stelle. E perché, quanto a trasversalità del messaggio politico, non c’è partita: il Pd, con buona pace dei fautori del «partito della nazione», non recupera tra i cosiddetti moderati quel che perde soprattutto in astensioni sull’opposto versante, e i Cinque Stelle, in particolare nei ballottaggi, mietono consensi in ogni dove.
Se le cose stanno così, si capisce bene perché Renzi ostenta la tentazione di gettare il cuore oltre l’ostacolo, lui, dal governo e nel partito, contro il resto del mondo nella sfida finale per guadagnare il titolo di campione del cambiamento: come diceva quel tale, chi si ferma è perduto. Non sarebbe davvero un’impresa facile per un leader che, d’ora in avanti, dovrà rassegnarsi a essere giudicato sempre più per quello che fa, le misure che prende, i risultati che ottiene, sempre meno per una narrazione di sé, amplificata da un coro di apologeti entusiasti, ormai incrinata, o peggio. Per altri sarebbe la normalità, per lui potrebbe essere una dannazione. E il fatto che i suoi avversari, né a destra né nel Pd e dintorni, non ne abbiano una più efficace da contrapporgli, sarebbe una ben magra consolazione.