giovedì 23 giugno 2016

Repubblica 23.6.16
Che cosa c’è dopo i partiti
di Massimo L. Salvadori

LA vittoria conseguita alle elezioni amministrative del 19 giugno dal Movimento 5Stelle, che ha conquistato in maniera trionfale e prevista Roma e in una maniera assai meno certa Torino, ha segnato qualcosa di più del successo da esso ottenuto alle elezioni politiche del 2013: il passaggio da una forza di mera protesta a una che considera il governo di importanti città come il predellino di lancio per arrivare a governare il Paese. La soddisfazione è grande e le ambizioni sono ancora più grandi.
È dal crollo del sistema dei partiti avvenuto nei primi anni ’90 del secolo scorso che la politica italiana è percorsa da ricorrenti scosse sismiche. Sotto questo aspetto nulla di propriamente nuovo sotto il sole dell’ultimo ventennio, salvo il fatto che mutano i soggetti che tali scosse provocano. Prima l’irrompere clamoroso della Lega Nord, poi quello di Forza Italia con il seguito delle sue reincarnazioni, infine quello del Movimento 5Stelle. Si badi: alla base della loro irruzione e della loro fortuna sempre lo stesso fattore ovvero la denuncia lanciata contro la vecchia politica in nome di una nuova politica, lo sfruttamento energico dell’“antipolitica”.
Tre fortissime spallate dunque, in un contesto costantemente segnato da una cronica instabilità delle formule e delle organizzazioni politiche, dal susseguirsi del comporsi e del decomporsi di un soggetto dopo l’altro, con scissioni e riaggiustamenti in un panorama generale in cui il consenso elettorale si sposta senza tregua, in cui le maggioranze si fanno e si disfanno.
Solo l’altro ieri il nuovo Pd di Renzi, il vincitore delle elezioni europee con il 41% dei voti, appariva candidato ad essere il partito atto a rimettere a posto le cose d’Italia, e oggi esso è qui a leccarsi le ferite e viene considerato da tanti ormai un ferro vecchio; solo l’altro ieri il Movimento 5Stelle appariva come capace di dire solo dei no e oggi proclama di essere pronto a guidare verso i migliori lidi i destini del Paese. Chi vivrà, vedrà il passare dalle parole ai fatti. Certo è che il sistema dei partiti italiani (in buona compagnia con quello di altri Paesi come la Spagna) non riesce a sollevarsi da una crisi organica che sembra non finire mai. E se la riforma costituzionale verrà bocciata questa crisi è destinata ad approfondirsi.
A trovarsi nel mezzo della tempesta è in primo luogo senza dubbio il Pd, abbandonato da una parte consistente del suo elettorato, chiamato a sostenere sfide che se perderà lo investirà ancora più pesantemente. Non a caso il dubbio è succeduto all’ottimismo. Il partito è chiamato a confrontarsi con i problemi esterni e quelli che indicano un incessante travaglio interno. Una di queste sfide, accanto al voto sulla riforma costituzionale, è il rinnovamento del partito, che tutte le componenti invocano a gran voce come necessario e urgente. Ma quale tipo di rinnovamento, quali i fini e i mezzi? Anche qui, chi vivrà, vedrà. In realtà la questione del partito non riguarda soltanto il Pd, anche se questo è il soggetto che più di ogni altro sottolinea l’importanza di non cedere alla forma del “partito liquido”, di mantenere una solida struttura. Sennonché la risposta al problema è nebulosa. Tutta la letteratura politologica è concorde nell’analisi secondo cui i partiti novecenteschi, strutturati sul territorio, fortemente organizzati ed efficacemente diretti sono strumenti del passato, in Italia e fuori.
Eppure, se cedono i partiti strutturati e organizzati, a che cosa si riduce la democrazia pluralistica e rappresentativa? Quale devastazione produce in essa l’infuriare dei movimenti populistici e personalizzati, guidati da leader che evocano la figura dei demagoghi? Si sprecano le lamentele per un simile stato di cose, ma le risposte, appunto, mancano. Bisogna che chi continua a credere nella funzione positiva dei partiti provi a risalire la china causata dalla mancanza di elaborazione, di cultura politica. Sembra che si sia di fronte alle resa, davvero piena di incognite inquietanti, dei partiti. Non vi è soggetto partitico che possa sfuggire al misurarsi con il nodo che sempre più va stringendosi. Nel nostro Paese lo è in particolare, proprio per le istanze di cui si fa portatore, il Pd.
Provi il Pd in primo luogo a mettere nero su bianco che tipo di partito vuole essere e crede di poter essere. La formula attuale è logorata; la formula delle primarie potrà ancora essere necessaria, ma non è più sufficiente perché ha la natura di un amalgama dai confini confusi, dalle implicazioni persino ambigue. Un partito ha da essere l’organizzazione dei suoi iscritti e dei suoi dirigenti, l’elaboratore di una analisi della società e delle proposte per la sua guida. Se si articola in cerchi troppo larghi, poco distinti e fluttuanti finisce per diventare indistinto e fluttuante esso stesso.
Non esistono in democrazia i Partiti della Nazione, ma solo i partiti nella e per la nazione. Devono essere partigiani: per un’idea di società e degli interessi complessivi del Paese, contro le opposte idee di società. A questa unica condizione è possibile formare, tenere e allargare un consenso che dia ad un partito forza e lo accompagni, lo renda persuasivo per la maggioranza del popolo.
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