giovedì 23 giugno 2016

Repubblica 23.6.16
Il problema del dopo voto non riguarda solo Renzi
Pd, ultimo rebus. Anche la minoranza cerca una rotta
L’intransigenza di D’Alema e l’analisi sociale di Prodi: in cerca di una sintesi
La legge elettorale incombe ma non è all’ordine del giorno
di Stefano Folli

È UN MOMENTO di confusione nel Partito Democratico. E la condizione di incertezza non riguarda solo il leader Renzi. Oggi è fin troppo facile colpirlo ad alzo zero per gli errori commessi e per avere di fatto ridotto il partito, da lui poco amato, alla dimensione di un gruppo di potere personale. Tuttavia chi lo condanna - da D’Alema a Bersani alle altre figure messe ai margini in questi due anni - non può meravigliarsi che il premier-segretario sia incerto sul da farsi, quasi smarrito.
Renzi è un personaggio volitivo, ma ha bisogno dell’adrenalina del successo. Il fallimento gli provoca un senso di sconforto che nei primi giorni fatica a dominare. Questo contraddice la prima regola del politico smaliziato: saper reagire alle sconfitte, digerirle e trovare il modo per aggirare l’ostacolo. A caldo, la risposta renziana al voto di domenica sono state alcune frasi di invidia verso i vincitori, i Cinque Stelle, e le loro candidate Appendino e Raggi. Nella Direzione di domani si presume che il segretario contrapporrà lo spirito aperto e ottimistico del “cambiamento” grillino alle cupezze di un rituale politico autoreferenziale che gli italiani respingono. Un modo per puntare ancora una volta su se stesso come l’unico in grado di riprendere il dialogo con gli italiani. Quello che cambierà sarà forse il tono: meno spavaldo del solito, come si conviene dopo la conta dei voti.
Sarebbe comunque un approccio insoddisfacente. Di fronte alle critiche, stavolta davvero aspre, Renzi dovrà fare molto di più: avviare un rimescolamento di carte nella segreteria, nel tentativo di coinvolgere alcuni nomi della minoranza più disposta a collaborare, e un congresso a breve scadenza, cioè dopo l’estate. Ma la vera questione riguarda la carica stessa di segretario. Nella prospettiva congressuale, se non prima, Renzi potrebbe essere indotto a lasciarla. Un passo doloroso che contraddice uno dei postulati del renzismo, la fusione fra premier e capo del partito. Il sostituto non potrà essere un suo stretto collaboratore. Più logico che sia una figura dotata di autonomia e in grado di parlare a nome della minoranza, la cui partecipazione è essenziale in vista del referendum di ottobre. Si dirà che un tale ginepraio, fatto di trattative e di “do ut des”, riconduce la politica alla dimensione un po’ esoterica che l’opinione pubblica non capisce. Ma il Pd si trova in mezzo a un passaggio cruciale della sua storia e non può sbagliare.
Del resto, se le idee di Renzi non sono ancora chiare, anche la minoranza deve individuare una rotta. Non può fermarsi all’era pre-Renzi e pensare che tutto possa tornare com’era prima, secondo la pretesa degli esiliati di Coblenza. Tanto più che a sinistra le voci sono tutt’altro che univoche. Si va dall’intransigenza assoluta di D’Alema, secondo cui la forma Boschi è incostituzionale, all’analisi di Prodi (nell’intervista a questo giornale) che ritiene indispensabile “cambiare le politiche” per evitare il rapido logoramento di chi si è presentato come il “nuovo”. E cambiare le politiche significa affrontare “le diseguaglianze perché l’ascensore sociale si è bloccato”.
In altre parole, Renzi tenterà di rilanciare il messaggio ottimistico e mediatico che fece la sua iniziale fortuna due anni fa. Con il pensiero rivolto al referendum che nel suo auspicio è il frullatore in cui si creerà un fronte trasversale del Sì capace di raccogliere molti elettori della destra o dei Cinque Stelle che domenica si sono espressi contro il Pd. Viceversa gli altri, i critici, intendono avanzare una linea socialdemocratica attenta al ceto medio impoverito e ai più disagiati. Come? Con quali risorse economiche? Guardando a quale modello in Europa? Sono domande ancora senza risposte; e qui è la perdurante debolezza della sinistra. Quanto al tema della legge elettorale, incombente sullo sfondo, è troppo presto per considerarlo già al centro dell’agenda. Vero che ieri è stata presentata alla Camera l’ipotesi Pisicchio per modificare l’Italicum. Ma il quadro è nebbioso. Sarà più limpido, anche in questo caso, a ridosso del referendum.