Repubblica 22.6.16
La stagione del risentimento
di Marco Belpoliti
UN
fantasma s’aggira per l’Italia: il risentimento. Livore, astio,
ostilità, acredine, malevolenza, vendetta, sono i differenti nomi di
questo fantasma. Non abita solo le periferie sconquassate delle città,
ma anche i palazzi del centro, i luoghi di lavoro come le scuole, gli
autobus, i taxi e le panchine dei parchi. Sembra l’unica risposta
possibile ai torti, alle offese, agli smacchi che molti sentono di aver
subìto.
UN PROFONDO senso di frustrazione unisce le madri ai figli
e alle figlie disoccupate, i sessantenni ai trentenni, gli operai ai
piccoli imprenditori, i professori ai loro allievi. Nessuno si salva,
nessuno ne sembra esente. C’è anche il rancore, che s’accompagna al
risentimento, suo fratello gemello; parola d’origine latina, rancor, ha
la medesima radice di rancidus, “astioso” e anche “stantio”. La
convinzione che i più coltivano, a torto o a ragione non importa, è
quella di aver subito un sopruso, un’ingiustizia. Ne consegue dolore,
afflizione, ma anche ansia e depressione, che sono due stati d’animo
assai diffusi, opposti e simmetrici alla rabbia che il risentimento
produce. I luoghi dove manifestarlo sono molti e diversi, tra questi
anche la lotta politica, trasformata da competizione tra partiti e
programmi diversi in resa dei conti, luogo in cui ribaltare i torti o
compiere agognate vendette.
Luis Kancyper, uno psicoanalista
sudamericano, che si occupa da anni del rancore, sottolinea come si
tratti di una attività ripetitiva: rancore come “ruminare”. In origine
il termine indicava l’atto di dondolarsi, il pensare e ripensare al
medesimo evento in modo costrittivo. Allo stesso modo, scrive Kancyper,
il risentimento è un “sentire ancora, di nuovo”, un ritornare
incessantemente sul proprio stato emotivo, senza possibilità alcuna di
allontanarsi definitivamente dall’offesa o dal torto subito, sovente
immaginario. Il risentimento deve avere senza dubbio una qualche
parentela con la paranoia, l’unica malattia mentale contagiosa, come ha
ricordato Luigi Zoja nel suo studio Paranoia. Gli psicoanalisti sono
convinti che la radice profonda del risentimento risieda nell’invidia,
sentimento negativo, ma che ha un’enorme importanza nelle relazioni tra i
singoli e tra i gruppi sociali. Il filosofo sloveno Slavoj Zizek ha
raccontato in vari libri un’emblematica storiella al riguardo. Una
strega dice a un contadino: «Ti farò quello che vorrai, ma ricorda, farò
due volte la stessa cosa al tuo vicino». E il contadino con un sorriso
furbo: «Prendimi un occhio!».
Quale è la radice sociale del
risentimento che colpisce da almeno un paio di decenni l’Italia e che ha
avuto il suo culmine nei fenomeni xenofobi, nelle manifestazioni
leghiste e che fluttuando si manifesta a intervalli più o meno regolari
qui e là, determinando anche i flussi elettorali e le manifestazioni
collettive? La frustrazione, si potrebbe rispondere. Ma per cosa? La
condizione contemporanea sarebbe secondo gli psicologi un impasto
inedito d’invidia e risentimento. L’inseguimento del successo, proposto
sempre più come una meta individuale e collettiva, produce forme
ossessive di ripiegamento su di sé, da cui nasce il risentimento. Molte
persone soffrono la vergogna di non aver raggiunto quei riconoscimenti
economici e sociali promessi a tutti da una società solo in apparenza
democratica ed egualitaria. La competizione, che pare diventata uno
straordinario carburante di miglioramento, reca tuttavia con sé, quali
frutti avvelenati, frustrazione e risentimento. Andy Warhol, geniale
artista della contemporaneità, l’ha condensato nella frase che gli si
attribuisce: nel futuro ciascuno sarà famoso per 15 minuti. E se i
quindici minuti non arrivano mai? A tutto questo va aggiunta la forbice
che si è aperta in Occidente, e quindi anche in Italia, tra ricchi e
poveri, coinvolgendo le classi medie che si ritenevano al riparo da
indigenza e povertà. Nessuno è più sicuro di non diventare un
“sommerso”.
La parola “risentimento” è entrata nel vocabolario
moderno attraverso un libello del 1593, Dialogue du Français et
Savoisien, opera di René de Lucinge, in cui l’aristocrazia manifesta la
sua acredine nei confronti della borghesia, dei nuovi arricchiti, che si
comprano i titoli nobiliari. Il risentimento è in definitiva il
sentimento che prova chi per lungo tempo ha desiderato qualcosa, scrive
un sociologo, senza raggiungerlo, e che ora capisce che non l’avrà mai.
Kancyper lo definisce “un pensare calamitoso”, un tormento da cui la
collera resta la via d’uscita più semplice.
Il risentimento c’è
sempre stato, ma, come ha scritto il filosofo Peter Sloterdijk, un tempo
esistevano le “banche del risentimento”, quelle istituzioni e organismi
che ne detenevano il controllo, e ne amministravano il flusso. La
Chiesa, ad esempio, ma anche e soprattutto i partiti socialisti e
comunisti, che raccoglievano il rancore e la rabbia della gente come le
banche il denaro, dilazionando nel tempo le reazioni individuali e
collettive. I progetti della società futura — regno della giustizia e
paradiso in terra — tenevano sotto controllo le frustrazioni, davano
loro un senso in attesa dei futuri “giorni dell’ira”: la rivoluzione, le
rese dei conti, la vittoria degli oppressi e degli umiliati.
Oggi
non ci sono più, o almeno non funzionano più così. Ora ogni richiesta è
immediata, niente può più essere posposto. Nessuno attende più, neppure
Godot. Abbiamo imparato grazie alle nuove tecnologie, all’informatica e
al computer che tutto avviene “in tempo reale”: tutto è rapido e
istantaneo. Nessun fallimento, nessun dolore, nessuna frustrazione o
patimento subito, può attendere quel giorno futuro. La politica
tradizionale probabilmente non ha ancora imparato a tener conto di
questo cambio di paradigma temporale. Ma ci dovrà fare i conti. Intanto
c’è già chi ha trovato il modo di rispondere alla domanda di
risentimento e rancore che sale dal Paese. Non sarà facile per nessuno.
Il livore e l’astio non fanno mai sconti.