Repubblica 22.6.16
Al Pd è mancata una classe dirigente
di Guido Crainz
COSA
sta realmente al fondo di una sconfitta così ampia del Pd nelle più
diverse aree del Paese? E da cosa deriva il suo generale soccombere nei
ballottaggi con il Movimento 5 Stelle? Certo, in essi sono confluiti sui
candidati grillini molti voti del centrodestra: resta però da spiegare
perché nelle elezioni europee di due anni fa altri flussi abbiano
premiato invece il Pd di Renzi.
CAPACE allora non solo di
riconquistare tutti gli elettori precedenti ma di conquistarne
moltissimi altri: un dato centrale, in un Paese che stava perdendo
fiducia nella democrazia. Oggi l’inversione di rotta è radicale, ed è
già un bene che il Pd sia stato sconfitto da un Movimento che propugna
in modo anche “estremo” il rinnovamento della politica ma rimane lontano
dagli umori distruttivi così diffusi in Europa (a quegli umori faceva
appello la resistibile ascesa di Matteo Salvini, frenata anch’essa da
questo voto).
Ma perché allora il Pd è stato sconfitto in modo
così netto? Per il suo allontanarsi dalla cultura tradizionale della
sinistra, dai suoi orizzonti, dalla sua storia? Anche in questo caso la
risposta non è del tutto convincente, e non solo perché questa è stata
sin dall’inizio la cifra della proposta di Matteo Renzi. Questa è stata
la chiave di volta del Pd che ha iniziato a modellarsi attorno a lui
prima e dopo il “plebiscito” delle primarie del 2013. La risposta non è
del tutto convincente soprattutto perché quella cultura è inadeguata e
appassita da tempo, come testimoniano le aree politiche che ad essa si
richiamano (all’interno e all’esterno del Pd). È inadeguata di fronte
alle grandi trasformazioni del mondo del lavoro; di fronte alla
necessità di ripensare realmente il welfare, essendo ormai lontana
l’“età dell’oro” dell’Occidente; di fronte alla crisi dei partiti
novecenteschi basati sull’identità, la partecipazione e il radicamento
territoriale. Questi sono i nodi con cui la sinistra nel suo insieme non
si è misurata, e in questo il “Pd renziano” condivide le responsabilità
e le inadeguatezze dei suoi oppositori interni ed esterni. Le
condivideva nel momento del suo affermarsi e le condivide ora: e senza
misurarsi con questi nodi è destinato a perdere irrimediabilmente la
sfida.
C’è qualcosa di più però in questo voto, e per molti versi
il Pd di Renzi aveva perso queste elezioni amministrative (e quelle del
2015) già prima del loro svolgersi: per la sua estrema difficoltà a
proporre nelle principali città italiane, e in moltissime altre realtà,
una classe dirigente, un ceto politico all’altezza dei propri compiti.
C’è da chiedersi semmai perché il segretario del Pd abbia in qualche
modo “tradito se stesso”, mancando all’impegno di “cambiare il Pd” e di
“cambiare la politica” al tempo stesso: è grazie a questo impegno che si
era affermato nelle “primarie” di due anni e mezzo fa ed aveva ottenuto
poi il successo delle elezioni europee.
Sin dall’inizio del suo
mandato di segretario — molto, molto prima della discutibile scoperta
dei “lanciafiamme” — cambiare il Pd appariva centrale. Centrale e
urgente, per lo scenario offerto allora dalle contemporanee “primarie”
per i segretari provinciali (ben diverse dal pronunciamento collettivo a
livello nazionale): tessere fasulle, elettori fantasmi, risse,
commissariamenti. Emergevano nitidamente allora i contorni di un partito
“microbaronale” di cui Mauro Calise aveva analizzato il delinearsi e il
rafforzarsi durante le precedenti gestioni del partito. Un partito
esposto sin a quel “precipitare nell’abisso” che Mafia Capitale portava
violentemente alla luce, e che Fabrizio Barca analizzava indicando al
tempo stesso ipotesi di rinnovamento già presenti. Non si limitava
infatti a proporre l’esclusione di quelle parti del partito romano che
gli apparivano “dannose e pericolose” ma segnalava anche le realtà
territoriali capaci di muoversi sulla base di progetti convincenti e
coraggiosi, impegnate a proporre innovazioni e proiezioni in avanti.
Non
sono mancati solo i lanciafiamme, dunque, nei due anni e mezzo della
segreteria di Matteo Renzi: è mancata soprattutto la seminagione,
l’attenzione alla crescita di nuove leve. È mancata la cura nel
promuovere reali processi di formazione, non riducibili a periodici od
occasionali incontri assembleari. Essi esigono un impegno continuo,
rigoroso e costante, e al tempo stesso la capacità di misurarsi con
alcuni nodi di fondo: cosa significa “formare” il ceto politico di oggi e
di domani? Su quali saperi e su quali etiche è decisivo basarsi?
Non
è facile comprendere appieno perché il partito sia stato abbandonato a
se stesso sin da subito, anche se inquietanti allarmi avevano iniziato
presto a venire. Aveva forse buone ragioni (anche “ragioni di
necessità”) l’ipotesi di fondare il rinnovamento sulla sola azione di
governo, o prevalentemente su di essa, ma si è visto presto che non era
sufficiente. E anche a livello nazionale il rinnovamento della politica
si è appannato rapidamente, ha smarrito la limpidezza della proposta
iniziale ed è stato contraddetto da molti, troppi segnali. Di qui,
anche, la radicalità della sconfitta: e di qui la radicalità
dell’inversione di rotta che oggi è necessaria e al tempo stesso
urgente.